Nella mia esperienza di docente di storia (e filosofia) arriva sempre un
momento, abbastanza traumatico, in cui pongo i miei allievi, soprattutto di
sesso femminile, di fronte alla sconcertante consapevolezza che il 90% (ad
essere generosi) di ciò che imparano è il prodotto di menti maschili. Faccio
loro notare qualcosa di talmente evidente da risultare, come spesso accade,
invisibile: la poesia e la filosofia che costituiranno il loro bagaglio
culturale (italiana, greca, latina, inglese, francese) sono state scritte e
pensate da maschi.
Di solito aggiungo una provocazione, dicendo loro che le prime due grandi
guerre che l’umanità ha combattuto sono state quelle dell’uomo contro l’animale
e quelle del maschio contro la femmina. In entrambi i casi sappiamo chi ha
vinto.
Nel 1861 esce Il
matriarcato. Ricerca sulla ginecocrazia nel mondo antico nei suoi aspetti
religiosi e giuridici, conosciuto anche sotto il titolo
di Il diritto materno,
dello storico e antropologo svizzero Johann Jakob Bachofen. Per la prima volta
in maniera sistematica si ipotizza che l’umanità, ai suoi primordi fosse... una
“donnità”, in cui il crimine per eccellenza non fosse, come dirà il Freud di Totem e tabù, il parricidio ma il
matricidio. La donna era, letteralmente, “domina”, padrona, signora, in virtù
del potere “magico” e misterioso della generazione, di cui il maschio era
privo. L’esistenza di divinità con le caratteristiche comuni della Magna Mater
in tutto il Mediterraneo (per esempio Giunone) sarebbe testimonianza della
sopravvivenza del matriarcato delle origini. Il libro di Bachofen ha avuto un
grande influsso nella storia della cultura moderna, e, al di là del suo valore
storico e antropologico, molto discusso, permette di ripensare la storia alla
luce di una “ginecocrazia” abbattuta attraverso una vera e propria “lotta fra i
sessi” che ha visto il trionfo del maschio, dell’Uno, del fallo.
Ci sono pagine affascinanti che vi consiglio di leggere
nella bella edizione dei Millenni Einaudi: «Nel matriarcato ha dominato la
notte e l'oscurità rispetto alla luce del giorno, il dì che dà vita a se stesso
come il figlio dalla madre; lo sviluppo della patrilinearità-giorno dalla
matrilinearità-notte segue lo sviluppo del modello cosmico dei corpi celesti:
quest'ultimo obiettivo viene raggiunto solo con il dominio dell'uomo sulla
donna, del sole sopra la luna». La notte e il giorno, la terra e il cielo. Una
parentesi, nella città che ha ispirato il De
nuce maga: e se, ad esempio, nelle streghe il maschio avesse sempre rivisto
con timore il tempo della sua subordinazione alla ginecocrazia notturna e
lunare?
La vittoria del maschio ha prodotto ovunque, nelle culture
mediorientali e occidentali, il predominio di divinità maschili e celesti, di
cui Zeus/Giove è l’archetipo.
Ma noi siamo tanto figli di Atene quanto di Gerusalemme.
Il celebre passo del libro della Genesi racconta la donna, letteralmente, come
“costola” del maschio: «Allora l’Eterno Iddio fece cadere un profondo sonno
sull’uomo, che s’addormentò; e prese una delle costole di lui, e richiuse la
carne al posto d’essa». Eva è la responsabile della caduta, tentata perché
evidentemente più fragile, e a sua volta tentatrice. Non è casuale, d’altronde,
che in molti dipinti (penso ad un affresco di Masolino, maestro e amico di
Masaccio) il serpente venga raffigurato con la testa di donna.
Torniamo ad Atene, facendo un salto a Troia, preliminare.
Se dovessi suggerirvi un libro che meditare sul silenzio, la
marginalizzazione e la violenza sulla donna non potrei che dirvi di leggere Cassandra di Christa Wolf, scomparsa nel
2011, struggente. La sacerdotessa di Apollo, violata e letteralmente posseduta
prima dal dio, vive nella perpetua tensione tra il suo desiderio e la realtà
che la circonda. Ella scopre la potenza del corpo, il suo “sapere” occulto. E
sa accogliere la notte...: «Voglio vedere questa luce ancora una
volta. La luce che vedevo in compagnia di Enea. La luce dell’ora che precede il
tramonto. Quando ogni oggetto comincia a brillare autonomamente e a porre in
risalto il colore che è suo. Enea diceva: per riaffermarsi ancora una volta
prima della notte. Io dicevo: per consumare fino in fondo ciò che resta della
luce e del calore e poi accogliere il buio e il gelo dentro di sé». Andiamo ora ad Atene.
Il primo, vero filosofo, l’archetipo stesso della filosofia come ricerca
che non avrà mai fine, diceva, secondo le fonti di ringraziare gli dei per
averlo fatto maschio, libero e ateniese. Frase che tiene insieme tutte le
possibili forme di discriminazioni nei confronti delle donne, degli schiavi e
dei “barbari”. Il discepolo del suo discepolo, Aristotele, servendosi del
principio-base della scienza, secondo il quale ciò che accade ha sempre una
causa, afferma il primato maschile nella riproduzione, estendendolo anche in
ambito sociale: l’uomo, attivo per natura, è portato al comando, nella famiglia
l’uomo è superiore alla moglie e la comanda (come il padre lo è nei confronti
del figlio e il padrone nei confronti dello schiavo: physei, per natura). Secondo Aristotele perciò l’inferiorità della
donna si fonda su basi biologiche e il rapporto uomo-donna è interpretato
attraverso due delle categorie più importanti della sua filosofia, quella di
forma e di materia. L’uomo-forma fa di ogni cosa ciò che è, e in quanto
portatore del seme, è attivo e trasforma la passiva materia femminile
naturalmente e ontologicamente inferiore.
Dunque, la cultura occidentale, quando struttura le sue basi, dopo la fase
mitica, a guerra vinta, afferma risolutamente la superiorità del principio
maschile, del giorno, della luce, del cielo (o di ciò che addirittura
“iperuranio”, oltre il cielo), della “ragione”, sul principio femminile, la
notte, l’oscurità, della terra, del corpo. Il maestro di Aristotele, Platone, è
per eccellenza il filosofo di questa superiorità (sebbene nel Simposio sia una donna, sacerdotessa di
Mantinea, Diotima, ad erudire Socrate sugli ultimi misteri dell’amore). Platone
è il filosofo del Logos e dell’Uno. Non a caso Luce Irigaray ha voluto
reinterpretare magistralmente, in quel libro straordinario che è Speculum del 1974, il mito della caverna
platonico. Lo schiavo che esce dalla spelonca oscura verso la luce delle idee
non è altro che il maschio che vuole emanciparsi dal ventre materno,
dimenticare la dimensione corporea a cui la Grande Madre lo richiama
costantemente. Il maschio occidentale ha cercato di innalzarsi
verso una prospettiva che dovrebbe
dominare il tutto, il punto di vista più potente, separandosi dalla sua base
materiale e dal suo rapporto empirico con la matrice, la radix-matrix,
per citare Paul Celan. Il materno-femminile rimosso diviene così l'inconscio
del pensiero occidentale. Il maschio fa della donna il proprio alter-ego o
doppio, misconoscendone la differenza, in una reductio ad unum (al fallo) che resterà almeno fino alla filosofia
dialettica di Hegel la cifra dell’intero Occidente. Purtroppo per mia
deformazione tendo a pensare che le strutture economiche e sociali debbano
essere prima “pensate” in qualche modo. Insomma, se non ci fosse stato un
pensiero preliminare non ci sarebbe stato un dominio così pervasivo. E, dunque,
la logica immaginaria maschile sottesa
alla filosofia si concretizza poi per le donne in determinate strutture del
sociale, di subordinazione e violenza patita “senza voce”.
Dunque, tutto segreto filo rosso del
pensiero occidentale è quello dell’identità, che culmina, come già dicevo, nel
sistema hegeliano, figlio della svolta “soggettivistica” impressa da Cartesio
nel XVII secolo.
Grazie a pensatori che pure non furono
teneri con le donne (penso a Nietzsche) questa centralità del Logos e dell’Uno
è stata incrinata, riscoprendo le ragioni telluriche del corpo e di quella che
poi sarà chiamata “differenza”, che ha prodotto finalmente un pensiero “al
femminile” capace di andare ben oltre le rivendicazioni di uguaglianza che partirono
con la rivoluzione francese, per poi proseguire con il movimento delle
suffragette e il femminismo novecentesco. Personalmente sono convinto che solo
un pensiero capace di declinare fino in fondo la differenza (e non solo quella
fra maschile e femminile) possa cancellare la radice potenzialmente totalitaria
che si annida in ogni pensiero dell’Uno (che la Irigaray ovviamente associa al
fallo maschile). Questo pensiero dovrà avere la forza di inventare un nuovo
linguaggio (perché il linguaggio è inevitabilmente sessuato), di rielaborare la
mitologia religiosa, diventando capace, ad esempio, di pensare un Dio
Padre/Madre (è possibile recitare il Padre nostro declinandolo al femminile?
«Madre nostra, che sei nei cieli...»), di pensare la differenza non come un
rischio ma come una possibilità, facendola diventare il paradigma di ogni
possibile comportamento umano nei confronti di un assolutamente altro che non
diventa alter-ego, come nel pensiero falloegocentrico che mira all’Uno, alla
sintesi. Insomma, si tratterebbe di un immenso lavoro culturale, che dovrebbe
partire dalle scuole, per educare alla differenza. Questo ci costringerebbe a
riscrivere i programmi scolastici. Pensate, e io provo talvolta a farlo, ad una
storia riletta dal punto di vista delle donne, dove centrale diventa la
riproduzione della vita che ha consentito a Cesare o a Napoleone di poter
andare in guerra. Non più Farsàlo o Waterloo al centro dei programmi, ma come
le donne gestivano la vita quotidiana nel I secolo avanti Cristo o nel XIX.
Purtroppo i programmi scolastici, come dicevo all’inizio, sono ancora,
inconsapevolmente, patriarcali e la maggior parte dei docenti non riesce
neanche a tematizzare questa questione dirompente.
Un pensiero della differenza che produca,
dunque, atteggiamenti nuovi, di apertura e accoglienza dell’altro, che si
presenta primariamente (ma non solo) come l’altro sesso. Tutto ciò è possibile,
e chiudo, grazie ad una grande rivoluzione del pensiero che è ancora in atto,
malgrado i tentativi di bloccarla, e che parte da un pensatore oggi al centro
di nuovo del dibattitto, Martin Heidegger. Con lui le strutture metafisiche del
pensiero occidentale entrano in crisi. Sull’idea di verità si è fondato il
dominio maschile. Se finisce la metafisica, se la “verità” diventa un accadere,
un evento, se il mondo si “liquefa” senza più struttura identitarie
totalizzanti (e totalitarie) allora è possibile davvero ripensare in chiave non
violenta il rapporto fra diversi, a partire proprio dal rapporto
maschio-femmina.
(Intervento tenuto presso l'Ordine dei Medici di Benevento il 28 novembre 2015)