«Se c’è un aspetto del problema che vedo con
chiarezza, questo aspetto è l’inefficacia delle categorie con le quali
cerchiamo di interpretare il presente. Chi è cresciuto dentro una cultura di
sinistra, dentro una delle tante famiglie discorsive che compongono la cultura
di sinistra, chi è stato lettore di Marx, di Adorno, di Benjamin, di Bloch o di
Fortini, per esempio, sente che i concetti con cui ha provato a capire la
realtà oggi non lo aiutano più» (Mazzoni, I
destini generali, Laterza).
Inizio a scrivere questi appunti il 1 giugno
2018, nel giorno di insediamento del governo penta-leghista. Il mio stato
d’animo è funereo. «La notta sarà lunga e nera» ha scritto Tomaso Montanari.
Un cronista intelligente “di sinistra” come Gilioli ha sottolineato come il M5S,
nel quale ho militato negli ultimi quattro anni, per raggiungere il potere
abbia dovuto sacrificare tutto il nucleo centrale della propria ispirazione
politica.
La mia domanda è: come è stato possibile agire
per una “rivoluzione gentile” è avere oggi Matteo Salvini, un razzista, al
Ministero dell’Interno e al controllo del Governo italiano?
Non mi pongo domande sul futuro. Sono troppo
angoscianti. Né tanto meno mi va di ricorrere alla frusta immagine della
“traversata del deserto”. È come se andassimo, infatti, di deserto in deserto.
Ero un orfano della sinistra. Vidi, nel 2014,
nel Movimento 5 Stelle la possibilità di un modo nuovo di fare politica, con
contenuti forti, strumenti aggiornati e calati nel corpo dolente della società.
Oggi vedo quel corpo diretto verso azioni oscure inconsapevolmente, mentre
tutti giubilano sui social festeggiando l’inizio di una nuova era. Io solo sono
sceso dal carro del vincitore disgustato.
Ho obbedito al daimon. Anche se questo ai più è parso incomprensibile. Spero di
poterlo spiegare a mia figlia un giorno. Quante cose vorrei poter spiegare a
mia figlia un giorno!
«Due cose sono sicure: uno, ormai alla gente non
importa più nulla di quello che succede all’altra gente; due, nulla ha più
davvero importanza ormai (nothing makes
any real difference any longer)» (Carver, citato in Mazzoni, p. 19).
Quasi totale il rifiuto di leggere quotidiani o
seguire l’attualità politica in televisione. Poche eccezioni, tra cui l’antico
maestro, abiurato per qualche anno o visto con sospetto, quasi fosse lui in
errore e noi (come invece era), Marco
Revelli. Sul «Manifesto» del 2 giugno parla di «potenziale dirompente» del voto. Revelli ipotizza che in Italia si stiano fondendo vari
populismi in un conio nuovo. Anche lui parte dall’assunto, dunque, che quello
leghista e quello pentastellato siano populismi diversi. L’Italia, in tal caso,
sarebbe un laboratorio.
È chiaro che la mia
ambizione, mai esplicitata, è quella emersa nelle interviste a Domenico De Masi, non a caso uno dei
critici più feroci dell’accordo con la Lega.
«Sbagliano quanti
liquidano l’asse 5Stelle-Lega con le etichette consuete: alleanza rosso-bruna,
coalizione grillo-fascista, o fascio-grillina, o sfascio-leghista, e via ricombinando.
Sbagliano per pigrizia mentale, e per rifiuto di vedere che quello che va
emergendo dal lago di Lochness è un fenomeno politico inedito, radicato più che
nelle culture politiche nelle rotture epocali dell’ordine sociale. Altrimenti
dovremmo concludere che (e spiegare perché) la maggioranza degli italiani -
quasi il 60% - è diventata d’improvviso «fascista». E sarebbe assai difficile
capire come e per quale occulta ragione l’elettorato identitario della Lega si
è così facilmente rassegnato al connubio con la platea anarco-libertaria
grillina, e viceversa come questa si sia pensata compatibile con i tombini di
ghisa di Salvini...».
Quello che abbiamo di
fronte è un oggetto misterioso.
Il populismo è
l’ospite indesiderato che dice la verità sull’esproprio della sovranità
popolare.
Non ci sono più
“popoli”, appartenenze solide ad identità politiche.
Siamo lontani dai
fascismi e dai neofascismi. Perché? Quel mondo era fondato sul lavoro e la
fabbrica fordista. Oggi, in un mondo in cui il lavoro non c’è, sono mercato e
merce (informi per definizione) ad avere egemonia simbolica. Revelli parla,
dunque, di “disordine nuovo”.
Statuto
anarco-capitalista del nuovo disordine che viene portato, dall’alleanza
penta-leghista, nel cuore stesso del sistema politico.
Continuerà a dar voce
al disagio, scaricandola sul “capro espiatorio”.
Combatterà le
oligarchie senza mettere in discussione il sistema.
Che fare? Se vorremo
combatterli dovremo prepararci ad avere davanti un avversario proteiforme,
Affrontabile solo da
una forza e da una cultura politica che abbia saputo fare, a sua volta, il
proprio esodo dalla terra d’origine: che sia preparata a cambiarsi con la
stessa radicalità con cui è cambiato ciò che abbiamo di fronte. Non certo da un
fantasmatico «fronte repubblicano», somma di tutte le sconfitte».
Ovviamente quanto sta
accadendo, e le nuove preoccupazioni, non devono farci dimenticare anche la
fine di altre “minacce”. Assunto che il “berlusconismo” nella sua fase
virulenta può dirsi concluso con la rottura avvenuta tra Berlusconi e Fini in
uno dei governi con le maggioranze più schiaccianti della storia repubblicana,
sicuramente il governo penta-leghista segna la pietra tombale di qualunque
riscossa del Cavaliere, oramai ridotto ad elemento marginale del quadro
politico (considerando che i sondaggi danno ora la Lega sotto il 30%, il che
dimostra la “volatilità” dell’elettorato: elemento di rischio ma anche di
positiva possibilità per ribaltare gli scenari).
Secondo elemento
positivo: il PD è in liquefazione. Come ampiamento previsto da Revelli, essersi
legato ad un giocatore di poker, ad un “cazzaro” come Renzi, nel momento della
sconfitta ha fatto esplodere tutte le contraddizioni. La ridicolissima idea del
“fronte repubblicano” antipopulista che solo un altro [omissis] politico come Grasso poteva accogliere mi pare il sigillo
di cotanta sciente deficienza.