Elemento complesso.
Non ci sono più “appartenenze”. Società liquida. Si può raggiungere il governo
in pochi anni e perderlo in pochi mesi. L’elettorato è come l’adolescente che
non riesce a rinviare la soddisfazione del desiderio (cfr. Recalcati)? E come
si supera la “liquidità”? La liquidità non è la forma post-moderna del
nichilismo? La domanda, allora, perterrebbe non solo la sfera politica ma
latamente tutta la condizione umana. Non c’è passato (è un bene!), non c’è
futuro (è un bene?). Allora... cosa c’è?
«Cavalcare la tigre».
È un motto orientale che Julius Evola riprese come titolo di uno dei suoi libri
più celebri del dopoguerra. Significa sostanzialmente non farsi annientare da
quanto non si può controllare direttamente, cercando invece di orientarne la
direzione. Mi hanno detto che questo ho cercato fare: la mia adesione al M5S
sarebbe stato il gesto disperato di un disilluso “di sinistra” che cerca
orientare “la tigre populista” (e irrazionale) verso scopi “buoni”. È possibile
che inconsciamente ci fosse questo (folle?) progetto (per altro perfettamente
riuscito su scala locale dove la mia “nemesi” pentastellata, ovviamente
proveniente dall’estrema destra, voleva che si parlasse solo di puttane e
negri). In realtà, come ho ripetuto spesso, la mia adesione è stata sincera e
su temi assolutamente condivisi.
A quei temi resto
assolutamente fedele. Probabilmente sono altri (tutti gli altri?) ad aver
tradito (se mai questa categoria ha senso in campo politico). Perché? Brama di
potere? Sarebbe risposta semplicistica. Anche se ho conosciuto tanti grillini,
anche sanniti, rosi da tale brama e per i quali vale l’antico detto: «Omnia
serviliter pro dominatione». No, credo che, per i più, in buona fede, sia stata
l’illusione (che già fu dei socialisti italiani negli anni Sessanta) che solo
entrando nella “stanza dei bottoni” si potessero cambiare radicalmente le cose.
Ricordo le parole di Valeria Ciarambino in questi anni sulla “fatica di Sisifo”
(l’espressione è mia, ma immagino renda bene il senso di quanto detto da lei)
dell’opposizione a De Luca, la frustrazione derivatane. Invece io, da
oppositore di Mastella, ho sempre avuto perfetta consapevolezza del ruolo che
con Marianna svolgevo, prezioso per la collettività, di controllo, proposta e
sprone.
A partire
dall’adesione al M5S, osservato con curiosità sin dal suo sorgere (come
testimonia il mio blog), come tutti i “neofiti” ho assunto un atteggiamento
acritico e abbastanza fideistico, selezionando, nella composita galassia
pentastellata, tutto ciò che era compatibile con la mia storia e la mia
sensibilità.
Momento difficile, ad
esempio, l’alleanza con Farage nel Parlamento Europeo. Ma si trattava di
un’alleanza funzionale e meramente tecnica, senza rilevanti risvolti politici.
Problemi ben più grossi, da sempre, anche a livello locale, sulle politiche
migratorie. Personalmente condivido un approccio “razionale” al problema che
tenga conto di tutti gli attori in campo (e il libro di Collier, Exodus, mi pare buona sintesi di questa
posizione “terza”), ma ho sempre detestato il razzismo strisciante presente
anche dentro il M5S. Mi auguravo che esso fosse strumento per moderare spiriti
che altrimenti avrebbero nutrito ben altre forze xenofobe. Grillo lo ha
ripetuto spesso: siamo stati argine al diffondersi dell’estrema destra in
Italia. È per questo che l’epilogo (almeno per me) della storia è ancora più
doloroso. È come se il M5S, insieme alla Lega, sia diventata una versione
presentabile di Alba Dorata! Eppure il mio atteggiamento (sminuire l’importanza
di alcune scelte del Movimento e amplificarla di altre) mi consente di capire
come facciano persone che si sono professate internazionaliste, anarchiche, che
hanno militato in SEL, ad accettare le parole-pietre di Salvini, Ministro degli
Interni, ad un giorno dall’insediamento del Governo.
«Il populismo aspira a una più diretta identificazione di quella che consente il governo rappresentativo elettorale perché considera la rappresentanza principalmente come forma e strategia di incorporazione fondativa del popolo in un leader, piuttosto che come una strategia che anima e regola la dialettica e il conflitto politico» (Urbinati, in AA.VV., La sfida populista, Feltrinelli, 2018.). Se questo è vero, anche solo in parte, il momento decisivo della “mutazione”
del M5S, paradossalmente (perché apparentemente la leadership carismatica
sarebbe stata esercitata ab origine
dai diarchi Grillo-Casaleggio, ma sempre in un organismo percorso da altre
tensioni) è stata l’incoronazione solitaria di Luigi Di Maio come “capo
politico” del Movimento (settembre 2017).
La cosa che più mi ha sconvolto in queste
settimane è l’assoluta normalità con cui il corpaccione del Movimento ha
accolto l’accordo con la Lega. Io ho spesso ricordato tutti gli interventi (da
Fo a Grillo, da Di Battista a Fico) in cui si diceva tutto il male possibile (e
a ragione!) di questo “movimento” che ha tutti i vizi della vecchia politica e
nessun pregio della nuova. Eppure le mie elencazioni non hanno mai fatto
breccia nel cuore degli attivisti. Perché? Trovo la risposta sempre in un
passaggio della Urbinati: «Il rappresentante populista è in effetti un leader
indivisibile e che vuole la fede del suo popolo, una identificazione emotiva
piuttosto che la richiesta di accountability».
La comunità grillina è mossa da una profonda “fede”. Sono persuaso che i miei
ex compagni di strada vivano nella persuasione che il “male” non possa
toccarli. In buona parte di loro (non dico nei pragmatici che ambivano solo ad
occupare poltrone e sistemarsi a vita), cioè nella parte “buona” del M5S, c’è
la segreta consapevolezza che tutto ciò che viene fatto è bene: «Omnia munda
mundis».
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