martedì 12 giugno 2018

Frantumi II


Elemento complesso. Non ci sono più “appartenenze”. Società liquida. Si può raggiungere il governo in pochi anni e perderlo in pochi mesi. L’elettorato è come l’adolescente che non riesce a rinviare la soddisfazione del desiderio (cfr. Recalcati)? E come si supera la “liquidità”? La liquidità non è la forma post-moderna del nichilismo? La domanda, allora, perterrebbe non solo la sfera politica ma latamente tutta la condizione umana. Non c’è passato (è un bene!), non c’è futuro (è un bene?). Allora... cosa c’è?


«Cavalcare la tigre». È un motto orientale che Julius Evola riprese come titolo di uno dei suoi libri più celebri del dopoguerra. Significa sostanzialmente non farsi annientare da quanto non si può controllare direttamente, cercando invece di orientarne la direzione. Mi hanno detto che questo ho cercato fare: la mia adesione al M5S sarebbe stato il gesto disperato di un disilluso “di sinistra” che cerca orientare “la tigre populista” (e irrazionale) verso scopi “buoni”. È possibile che inconsciamente ci fosse questo (folle?) progetto (per altro perfettamente riuscito su scala locale dove la mia “nemesi” pentastellata, ovviamente proveniente dall’estrema destra, voleva che si parlasse solo di puttane e negri). In realtà, come ho ripetuto spesso, la mia adesione è stata sincera e su temi assolutamente condivisi.


A quei temi resto assolutamente fedele. Probabilmente sono altri (tutti gli altri?) ad aver tradito (se mai questa categoria ha senso in campo politico). Perché? Brama di potere? Sarebbe risposta semplicistica. Anche se ho conosciuto tanti grillini, anche sanniti, rosi da tale brama e per i quali vale l’antico detto: «Omnia serviliter pro dominatione». No, credo che, per i più, in buona fede, sia stata l’illusione (che già fu dei socialisti italiani negli anni Sessanta) che solo entrando nella “stanza dei bottoni” si potessero cambiare radicalmente le cose. Ricordo le parole di Valeria Ciarambino in questi anni sulla “fatica di Sisifo” (l’espressione è mia, ma immagino renda bene il senso di quanto detto da lei) dell’opposizione a De Luca, la frustrazione derivatane. Invece io, da oppositore di Mastella, ho sempre avuto perfetta consapevolezza del ruolo che con Marianna svolgevo, prezioso per la collettività, di controllo, proposta e sprone.


A partire dall’adesione al M5S, osservato con curiosità sin dal suo sorgere (come testimonia il mio blog), come tutti i “neofiti” ho assunto un atteggiamento acritico e abbastanza fideistico, selezionando, nella composita galassia pentastellata, tutto ciò che era compatibile con la mia storia e la mia sensibilità.
Momento difficile, ad esempio, l’alleanza con Farage nel Parlamento Europeo. Ma si trattava di un’alleanza funzionale e meramente tecnica, senza rilevanti risvolti politici. Problemi ben più grossi, da sempre, anche a livello locale, sulle politiche migratorie. Personalmente condivido un approccio “razionale” al problema che tenga conto di tutti gli attori in campo (e il libro di Collier, Exodus, mi pare buona sintesi di questa posizione “terza”), ma ho sempre detestato il razzismo strisciante presente anche dentro il M5S. Mi auguravo che esso fosse strumento per moderare spiriti che altrimenti avrebbero nutrito ben altre forze xenofobe. Grillo lo ha ripetuto spesso: siamo stati argine al diffondersi dell’estrema destra in Italia. È per questo che l’epilogo (almeno per me) della storia è ancora più doloroso. È come se il M5S, insieme alla Lega, sia diventata una versione presentabile di Alba Dorata! Eppure il mio atteggiamento (sminuire l’importanza di alcune scelte del Movimento e amplificarla di altre) mi consente di capire come facciano persone che si sono professate internazionaliste, anarchiche, che hanno militato in SEL, ad accettare le parole-pietre di Salvini, Ministro degli Interni, ad un giorno dall’insediamento del Governo.


«Il populismo aspira a una più diretta identificazione di quella che consente il governo rappresentativo elettorale perché considera la rappresentanza principalmente come forma e strategia di incorporazione fondativa del popolo in un leader, piuttosto che come una strategia che anima e regola la dialettica e il conflitto politico» (Urbinati, in AA.VV., La sfida populista, Feltrinelli, 2018.). Se questo è vero, anche solo in parte, il momento decisivo della “mutazione” del M5S, paradossalmente (perché apparentemente la leadership carismatica sarebbe stata esercitata ab origine dai diarchi Grillo-Casaleggio, ma sempre in un organismo percorso da altre tensioni) è stata l’incoronazione solitaria di Luigi Di Maio come “capo politico” del Movimento (settembre 2017).


La cosa che più mi ha sconvolto in queste settimane è l’assoluta normalità con cui il corpaccione del Movimento ha accolto l’accordo con la Lega. Io ho spesso ricordato tutti gli interventi (da Fo a Grillo, da Di Battista a Fico) in cui si diceva tutto il male possibile (e a ragione!) di questo “movimento” che ha tutti i vizi della vecchia politica e nessun pregio della nuova. Eppure le mie elencazioni non hanno mai fatto breccia nel cuore degli attivisti. Perché? Trovo la risposta sempre in un passaggio della Urbinati: «Il rappresentante populista è in effetti un leader indivisibile e che vuole la fede del suo popolo, una identificazione emotiva piuttosto che la richiesta di accountability». La comunità grillina è mossa da una profonda “fede”. Sono persuaso che i miei ex compagni di strada vivano nella persuasione che il “male” non possa toccarli. In buona parte di loro (non dico nei pragmatici che ambivano solo ad occupare poltrone e sistemarsi a vita), cioè nella parte “buona” del M5S, c’è la segreta consapevolezza che tutto ciò che viene fatto è bene: «Omnia munda mundis».



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