Craig Venter, scienziato che rappresenta bene
la pericolosa commistione della tecnoscienza contemporanea con l’imprenditoria,
ha annunziato di aver sintetizzato il primo batterio sintetico, «primo passo
verso la creazione della vita artificiale».
Pensare il futuro è stato un compito affidato
in passato a filosofi (penso a Francesco Bacone) o scrittori, nel Novecento,
detti di “sci-fi”. Tra questi il maggiore è sicuramente quel Philip K. Dick,
visionario saccheggiato da registi, che scrisse un racconto dal titolo
apparentemente enigmatico: Gli androidi
sognano pecore elettriche? da cui
Ridley Scott trasse nel 1982 Blade Runner.
Nel racconto e nel film si narra di un mondo le cui industrie producono
serialmente androidi, in tutto e per tutto simili agli uomini, seppur
potenziati, e addirittura capaci di provare sentimenti ed emozioni. Usati come
strumento di piacere o di lavoro nelle colonie, alcuni di essi, ribellatisi,
vengono eliminati dal “cacciatore di androidi”, che si innamora, però, proprio di
un androide. L’opera si chiude con interrogativi filosofici senza risposta.
La scoperta di Venter è un altro passo,
decisivo, verso il superamento di un limite invisibile che l’umanità dovrebbe
imparare, invece, attraverso la pubblica discussione a riconoscere. Nelle
epoche precedenti della storia umana il concetto di limite è stato fondante: si
pensi all’idea di ὕβϱις (hybris) dei Greci,
si pensi al «folle volle» condannato da Dante nella figura di Ulisse. Il limite
è evidentemente mobile, e ogni civiltà ha il dovere di stabilirlo se non vuole
perdere se stessa.
A me pare preoccupante che si possa
delegare la solo tecnoscienza a normare quest’ambito. Günther Anders, nel suo
capolavoro (L’uomo è antiquato) mi ha
insegnato che, purtroppo, ciò che può essere fatto sarà fatto. Ovvero: la
tecnoscienza, che non è solo l’ultima fase di sviluppo del sapere scientifico
prodotto dall’umanità ma una ben precisa forma di “metafisica” (direbbe
Heidegger), e dunque di comprensione (o incomprensione) dell’Essere, non ha,
per statuto, limite. La sua essenza, al contrario, è il costante superamento di
ogni limite. Tutto il XX secolo e il suo prosieguo mostrano questa incredibile
tensione all’autosuperamento, spesso sganciata da bisogni reali (e penso in
particolare alla corsa alla conquista dello spazio).
La creatura che si
fa creatore, per altro, evoca alcuni miti moderni di straordinaria potenza, in
primis quello dello scienziato Victor Frankenstein, immaginato in una notte
buia e tempestosa dalla scrittrice Mary Shelley.
La facile obiezione è che
limitare la ricerca avrebbe impedito e impedirebbe il progresso dell’umanità.
Bisognerebbe dimostrare, però, che di reale progresso di sia trattato (e non è
scontato). Soprattutto esiste una posizione terza fra l’idolatria
tecnoscientifica e il suo opposto, e cioè lo sforzo sempre rinnovato di
statuire confini, fondati su bisogni umani discussi “politicamente, su ciò che
l’uomo può e ciò che non può fare. La totale “anomia” in questo ambito può
produrre disastri, evocati nel celebre racconto di Goethe sull’apprendista
stregone, privando l’umanità della sua stessa umanità.
Come suggeriva IvanIllich, dunque, appare quanto mai necessario affiancare all’uomo prometeico,
quello che ha scoperto il fuoco ed elaborato oggi il primo batterio
artificiale, l’uomo epimeteico, che mettendo al centro del proprio progetto non
il dominio aumenti «la propria capacità di assistere,
curare e aiutare gli altri, sapendo che “ognuno ha un mondo misterioso tutto
suo / e in esso c' è l’attimo più bello / e l'ora più angosciosa, / solo che
noi non ne sappiamo niente». Epimeteo,
dunque, sia il simbolo di un’umanità “del limite” di contro a Prometeo, per
troppo tempo modello positivo di una ricerca affannosa e ottusamente
inconsapevole dei rischi di disumanizzazione cui espone.
(Apparso in «Economia & Diritto»)
Nessun commento:
Posta un commento