Io e Nicola ci conosciamo da più di vent’anni e, quando ci siamo incontrati, ci siamo subito ri-conosciuti. Ci rispettiamo e, proprio per questo, non ci risparmiamo reciproci rilievi critici: non lo fa lui quando presenta i miei libri, non lo faccio io quando presento i suoi. La verità è che non riusciamo a spegnere questo spirto “speculativo” ch’entro ci rugge!, anche perché siamo consapevoli dell’autenticità e resistenza della nostra amicizia intellettuale e affettiva.
Euthymios è un romanzo storico, e già questo denota una precisa scelta, quella di avventurarsi in un campo pericoloso, minato dalle trappole storiche e dagli anacronismi in cui si rischia di cadere. Come se non bastasse, Nicola sceglie temi sulla cui storicità non ci sono notizie certe, essendo le fonti per lo più testi evangelici, ma non poteva collocarne la narrazione in un tempo diverso, la cui conoscenza non è certo da tutti. Un po’ se ne compiace, considerando l’ardimento dell’impresa, e a ragione, perché anche per chi è poco avvezzo a muoversi in quegli anni, c’è il parere autorevole di Paolo Cesaretti, che ne ha curato la Prefazione, ad attestarne l’attendibilità. Più lontano nel tempo è il contesto, più difficile è ricostruirlo: dobbiamo destrutturarci culturalmente, bonificare la mente dai nostri idola.
Il perfezionismo di Nicola non poteva non spingerlo, perciò, a verificare con scrupolosa attenzione i vari riferimenti (con qualche, suppongo, licenza letteraria, come per Ponzio Pilato, sulla cui gotta non ci sono informazioni se non in un racconto di Joyce Lussu Le Sibille, Maria e Ponzio Pilato o per la presenza di Celsus a Yafa). Nicola dialoga con personaggi mica di poco conto: Celso, appunto, Giovanni il Battezzatore, Seneca, Pietro e Paolo, Ponzio Pilato, addirittura con Gesù. Lo fa consapevolmente, sceglie cioè lui con chi interloquire, per dimostrare la tesi che attraversa il romanzo e che riguarda la personale visione che ha della fede.
Sin dalle prime pagine ci si immerge in un contesto di raffinata cultura e attenta cura delle parole e dei pensieri: dietro ogni elemento introdotto, ogni termine usato, ogni cibo, bevanda, alimento citati, si intravede uno studio attento. La ricerca è minuziosa sia riguardo agli oggetti che agli eventi storici. Emerge anche la passione per l’alimentazione naturale dell’autore che lo ha portato nel tempo ad acquisire una conoscenza dettagliata delle proprietà benefiche delle erbe, cosa che si rivela funzionale all’essere medico nel periodo antico.
Nella scelta delle parole affiora la qualità del poeta, di chi è abituato a smontarle, ricomporle, smussarne le asprezze o farle esplodere, rivederle, purificarle dalle scorie della banalità, raffinarle, “aforismando” i periodi: in ogni parola c’è il lirismo della poesia e la pregnanza concettuale della riflessione filosofica. Forse c’è anche una punta di elitaristico compiacimento linguistico nell’usare tutti i nomi originali, in greco o in ebraico antico, certo per fedeltà al periodo e per suscitare curiosità, come è sottolineato nella Prefazione, ma anche per marcare la propria identità. Ciò non toglie una qualche difficoltà nel dover interrompere il flusso della lettura per andare a ricercare il corrispettivo in italiano, opportunamente presente nel glossario.
Il tono è irenico, ma i contenuti inquietanti e disturbanti. Nicola li definisce eterodossi, giacché non vuole riconoscersi eretico, ma lo è perché, e chi leggerà il libro lo capirà, mette in dubbio non qualche verità di fede ma il fondamento stesso del cristianesimo, anzi del Nuovo Testamento, l’evento, cioè, che inaugura una nuova era di salvezza per l’umanità.
In questo romanzo c’è tutto Nicola. Nella prefazione Cesaretti lo dice quasi come se avesse avuto un’intuizione da verificare, ma chi ne ha seguito il percorso intellettuale, professionale, politico, umano, poetico riconosce immediatamente l’identificazione Euthymios-Sguera, che peraltro egli stesso confessa. Personalmente ritengo che questo romanzo sia l’espressione più matura, più fedele e anche più irripetibile di Nicola perché ci ha messo tutto quello che ha studiato, tutto quello che sa. Soprattutto tutto quello che è. E lo ha fatto con perizia e onestà, senza la preoccupazione di apparire a volte eccessivo quando scrive (a p. 71), come Euthymios, di sentirsi insostituibile e che «Non ero solo un medico. Ero, forse, un ponte. Tra saperi, tra popoli, tra corpo e spirito.» Oppure: «Pare che io solo sia il depositario della verità…» (p. 188).
Cosa cerca Euthymios?, un greco di nascita e ebreo di adozione, non circonciso, timorato di Dio, medico, figlio della scuola ippocratica, attratto dalla filosofia stoica, che odia profondamente Roma, «il ventre della bestia, sazia di sangue e incapace di giustizia», e i Romani? Aspira alla megalopsychìa, la grandezza d’animo, e a diventare cittadino del mondo.
Caduti i legami affettivi con la sua terra (muoiono i genitori e Konon) parte per l’Egitto, per Alessandria, sede della Biblioteca e del Museo. E qui l’autore mi appare come una falena che, disorientata dalla luce artificiale, finisce per avvicinarvisi, pericolosamente, pensando al Nicola che criticava le scienze e la filosofia. Nella finzione letteraria che, non dimentichiamo, è lui a costruire, sceglie di essere proprio uno scienziato, un medico, curatore dell’anima e del corpo, come sono i bravi medici che dovrebbero guardare l’interezza della personalità, la forza vitale e applicare anche l’uso lenitivo della parola, e un filosofo. La filosofia? La definisce un’armatura dell’anima, non un lusso da studioso. Sono felice di trovare, finalmente, un Nicola che non dissacra più in maniera tranchant la filosofia, di cui annunciava, quasi compiacendosene, la morte, sedotto dalla critica pungente di quei pensatori, uno tra tanti, forse il più grande, Heidegger, che la profetizzavano. A me pare che Euthymios faccia esplodere - e comporre - tutte le contraddizioni di Nicola: lui anti-scienza, contrario alla medicina ufficiale e critico della filosofia, sceglie di andare ad Alessandria, culla della scienza, e lo fa da medico che interviene anche chirurgicamente sui corpi e presentandosi come filosofo. È davvero, il suo romanzo, un viaggio dentro di sé.
Importante è la rivendicazione della scelta vegetariana che ritorna in molte pagine e che Euthymios-Nicola radica nell’empatia con gli animali che soffrono: non può cibarsi di viventi, afferma, perché anche in loro respira il divino. La sua è una scelta di alto significato etico che rinnova ogni giorno. Una scelta che pochi possono fare e sostenere per così lungo tempo e che richiede fatica e perseveranza. (1. Continua)
Teresa Simeone è docente di Storia e Filosofia, scrittrice.

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