Antonio Martone mi ha fatto un dono prezioso e inatteso.
Ha dedicato pagine densissime al mio romanzo, mostrando nel contempo di conoscere in maniera approfondita i miei scritti precedenti, segno di un’attenzione amicale profonda. Glie ne sono grato.
Nella prima, lunga parte del suo scritto, assai analitico, individua gli assi portanti del romanzo e le caratteristiche peculiari del protagonista, illuminando anche me. La critica, quando esercitata con passione e rigore, è di immensa utilità a chi scrive, soprattutto se si tratta, di fatto, di un “esordiente” come me, avido di riflessioni su ciò che ho fatto provenienti da altri sguardi, altri saperi. Soprattutto quando sono “alti”, come quelli di Martone.
Nell’ultima parte del suo scritto, il filosofo e scrittore – di origini sannite ma oramai radicato da anni a Napoli – pone una serie di riflessioni critiche cui sento il dovere di rispondere.
La verità
«Una prima questione riguarda lo statuto della verità. La scelta di una spiritualità aperta, non dogmatica, trans-tradizionale, fondata sull’Amore e sulla ricerca incessante del senso, solleva inevitabilmente il problema dei criteri. Se la verità non è mai posseduta ma sempre cercata, se essa “abita molte case”, come evitare che la pluralità stessa si trasformi in indeterminatezza? Il rischio, almeno teorico, è che il dialogo tra tradizioni si regga più su una consonanza etica che su un reale confronto epistemico, lasciando irrisolta la domanda su ciò che consente di distinguere una ricerca autentica da una semplice preferenza soggettiva.»
Premesso che la scelta della narrativa non è un refugium peccatorum per evitare le asperità del pensiero rigoroso ma sicuramente non obbliga l’autore a “soluzioni” univoche, potendo appellarsi all’aporia connaturata in fondo alla vita stessa, l’evocazione di Socrate, di quello che ho definito una volta il “mio” Socrate, mi consente di rispondere. Per me il filosofo ateniese, forse l’unico vero o uno dei pochissimi filosofi (nel senso etimologico della parola) della storia, fu – contro il relativismo sofistico ma anche contro l’assolutismo dei pensatori come Parmenide – il teorico (incarnando, però, tale teoresi, facendola diventare carne e, purtroppo, sangue) di una “verità debole”. La verità esiste, è la stella polare della nostra vita, ma noi non la possiederemo mai tutta intera. Quale la differenza con il relativismo (nelle sue varianti)? Che il dialogo, fondato sul “sapere di non sapere”, dovrebbe spingere ad un confronto permanente tra i parlanti, capace di costruire una verità condivisa all’interno di una dimensione relazionale.
Una religiosità pacificata?
«In secondo luogo, la sintesi greco-ebraico-cristiana che attraversa la figura di Euthymios, pur dichiaratamente non sincretica, può apparire a tratti armonizzante. Le grandi tradizioni che entrano in dialogo nel romanzo non sono solo portatrici di differenze complementari, ma anche di conflitti strutturali, di incompatibilità talvolta insanabili. La tensione tra logos e rivelazione, tra etica dell’alterità e onto-logia dell’essere, tra ragione filosofica e evento salvifico, rischia di essere attenuata in favore di una riconciliazione simbolica che, per alcuni lettori, potrebbe apparire troppo pacificata.»
Quel che ho detto della “verità” vale anche sul piano religioso, superando la conflittualità figlia dei fondamentalismi. È una via rischiosa, fondata non su ortodossie ma su ortoprassi. Mi viene sempre in mente il Bonhoeffer del carcere, che sentiva più vicini alcuni atei che i “religiosi”. Quindi, non una visione “irenica” del dialogo interreligioso ma uno spostamento d’asse. Credo che Euthymios sia tutto tranne che un inno alla pacificazione! Il protagonista resta in “tensione” con l’amico Yeshua, facendogli intravedere crepe nella sua predicazione (in particolare, in relazione ai “gentili”).
Un Gesù maestro di etica?
«Dal punto di vista teologico, inoltre, la figura del Cristo che emerge dal romanzo - amico, maestro, rivelatore dell’Amore - può essere letta come una radicale riduzione etico-esistenziale del cristianesimo. In questa prospettiva, elementi centrali della fede cristiana tradizionale (Incarnazione, Redenzione, Risurrezione) sembrano arretrare a vantaggio di un umanesimo spirituale che potrebbe essere accusato di dire, in fondo, ciò che l’uomo direbbe anche senza Dio. È una scelta consapevole, ma non priva di conseguenze teoriche.»
No, dico ad Antonio. Il mio Yeshua (non Cristo, perché chiamarlo così significa, come dice ripetutamente Vito Mancuso nel suo ultimo, fondamentale libro in merito) non è il “Cristo” (creazione – meravigliosa – di Pietro, che lo vede “risorto”, e di Paolo, che ne fa essere “divino”): è un profeta (escatologico) ebreo (“marginale”) che annunzia l’imminente venuta del Regno di Dio sulla terra. Non ho tenuto in nessun conto gli «elementi centrali della fede cristiana tradizionale» proprio perché il nocciolo da cui è nato il libro era proprio la volontà di rendere in maniera narrativa le acquisizioni degli storici (di ogni confessione, atei o agnostici) sul Gesù “storico”. In ogni caso, mi pare che il mio Yeshua non sia «amico» o «rivelatore dell’Amore», ma, lo ripeto, nunzio del Regno (mondano!) di Dio, di un eone che modifica il mondo a partire da Israele. Invito Antonio a rivedere il capitolo 27 (Comunione) che è abbastanza esplicito sulla questione.
Esaltazione della “bella morte”
«Un ulteriore nodo critico riguarda il rapporto tra testimonianza e azione politica. La decisione finale di Euthymios di condividere il destino del popolo ebraico a Masada possiede una forza simbolica indiscutibile, ma solleva interrogativi sull’efficacia storica del sacrificio. Il rischio, qui, è quello di una possibile estetizzazione della testimonianza, in cui la purezza del gesto prevale sulla trasformazione concreta delle strutture di potere e di violenza.»
Assolutamente corretta come obiezione. Il rischio è concreto. Capisco la diffidenza di una “mistica del sacrificio”, presente in tanta cultura di destra ad ogni latitudine del pianeta. Nel mio caso, però, credo valga sottolineare come ai poveri Ebrei (come ai Palestinesi di oggi) rimanessero ben poche strade da percorrere. In ogni caso, Masada accadde! Mi è sembrato giusto che un uomo che vive una lenta, tormentata conversione che, hegelianamente, pretende di conservare tutto il suo passato, nel compimento dei suoi giorni, persa la sua principale ragione di vita, l’amata compagna, decida di immolarsi con il popolo che aveva imparato ad amare. In ogni caso, l’obiezione di Antonio mi sarà prezioso monito per il futuro. E lo ringrazio (come per tutto quanto ha scritto).
Un personaggio troppo perfetto
«Infine, si può interrogare l’antropologia sottesa al romanzo. Come già ricordato, Euthymios incarna una figura di umanità integrale, capace di tenere insieme cura dei corpi, ricerca del senso, amore, impegno politico e apertura spirituale. Questa figura, tuttavia, proprio nella sua coerenza e luminosità, può apparire come un ideale alto, forse difficilmente accessibile, che rischia di sottovalutare la dimensione oscura, conflittuale e talvolta irriducibile dell’umano: il negativo che non si lascia redimere e la violenza che non si lascia educare. In una parola: il male che non si lascia integrare in una sintesi armonica volta verso il bene.»
Qualcosa del genere ha detto anche Teresa Simeone, nel corso della prima presentazione – quella del 1 dicembre – nella sua riflessione che spero di pubblicare quanto prima, piena di spunti assai preziosi. A me, però, Euthymios pare una personalità in continua evoluzione, che vive la sua vita come messa in discussione di certezze acquisite. Di qui la sua curiosità per esperienze spirituali “estreme”. In altre opere (racconti e romanzi ancora nel cassetto) esploro le dimensione “oscure” e violente che Antonio evoca.
Perché non possiamo immaginare una vita che, con fatica, riesca volare al di sopra dei suoi demoni? O che “integra” la sua Ombra? Mi auguro possa essere, sì, un modello ma non irraggiungibile: modello di una vita di ricerca, di continuo perfezionamento consapevole che mai si darà la perfezione, di dedizione, di sforzo al bene, sempre da conquistare, mai dato. In generale, la mia fede peculiare, eterodossa, si fonda sulla consapevolezza del Bene che regge l’Universo, un bene fragile, che esiste proprio attraverso gli uomini, nella loro fatica quotidiana. È chiaro che un’antropologia profondamente diversa, come quella che, ad esempio, si rinviene nelle (belle, dense) opere narrative di Antonio Martone difficilmente può convenire con tale visione dell’uomo.
Auguro a me stesso di avere tanti lettori come Antonio Martone, dotati della stessa profondità e della stessa onestà intellettuale. Se potrò evolvermi come scrittore lo dovrò a loro.

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