Caro Antonio,
ti ringrazio per la lettura così attenta e concettualmente densa della mia risposta su Euthymios. Il confronto critico che proponi non solo coglie molte delle questioni filosofiche centrali che mi stanno a cuore, ma le espone con una chiarezza che merita un rilancio e un approfondimento ulteriore.
Statuto della verità e “verità debole”
Concordo con te che il nodo fondamentale sia lo statuto della verità e il modo in cui essa entra in gioco nel romanzo e nella mia risposta. Ho parlato di “verità debole”, ispirandomi a un orientamento socratico che non pretende fondamenti assoluti né relativismi illimitati.
Su questo punto vorrei precisare due aspetti.
La questione del criterio non è un errore epistemologico ma un’esigenza riflessiva: riconoscere che non possediamo la verità in senso forte, non implica la rinuncia a criteri discriminanti. Piuttosto, chiede che questi criteri siano eticamente e relazionalmente motivati, non dogmaticamente imposti.
La verità così intesa non è mera convergenza etica: essa si situa nella tensione tra soggettività e reale, nello spazio dove il dialogo e la prova del reale si incrociano. Se la verità fosse solo il risultato di una convergenza relazionale, verrebbe meno quel “residuo di resistenza del reale” che tu giustamente metti in evidenza.
In altre parole: la verità non è né totalizzabile né arbitraria, ma richiede costantemente una verifica dialettica tra soggetto conoscente e ciò che resiste alla pura negoziazione.
Sul piano religioso e sull’epochè teologica
La tua osservazione sulla sospensione metodologica degli elementi cristologici è acuta e merita una chiarificazione.
La scelta di leggere Yeshua come figura storica e non come Cristo teologico non è un’operazione di impoverimento. È un gesto di onestà intellettuale, oramai doveroso, che nulla toglie alla possibilità che Yeshua/Gesù diventi (come è accaduto) il Cristo. Il punto è che tale accadimento è reso possibile dal combinato di “visione” petrina (del Risorto) e “visione” (ed elaborazione) paolina (di Gesù “Cristo”). È la tesi del romanzo che ritrovo anche nel libro recentissimo di Vito Mancuso (Gesù e Cristo, Garzanti, 2025). Il protagonista del mio romanzo, che ha conosciuto un profeta tutto dentro la cultura ebraica, spingendolo a riflettere sulla contraddizione di un Dio buono che stabilisce un “patto” privilegiato con Israele, non si “converte” alla fede nel “Cristo”. Euthymios, in questo certamente mia proiezione, elabora una fede sicuramente sincretica e molto libera, fondata sulla prassi più che su una teo/logia (un sapere razionale su Dio) che sarà storicamente il prodotto dell’incontro (meraviglioso ma da comprendere storicamente e, quindi, trascendibile) tra Gerusalemme e Atene, tra eresia ebraica (tale è storicamente il “cristianesimo” petrino e paolino) e filosofia greca, soprattutto neoplatonica.
Ti prego di rivedere, in ogni caso, i capitoli del libro in cui Euthymios decide di conoscere la comunità “cristiana”. Credo di aver utilizzato un'immagine di cui (lo confesso!) sono assai orgoglioso: quella dell'innesto. E proprio tale innesto ha reso universale (cattolico!) alcuni aspetti del messaggio gesuano, a costo, però, di smarrirne il nucleo genetico. Quanti cristiani attendono il Regno seriamente?
Universalità e funzione del messaggio
Hai sollevato un punto decisivo: se il messaggio di Yeshua rimane legato a un’esperienza di Regno storicamente determinata, perché dovrebbe ancora parlare?
La mia risposta è che la dimensione filosofica del messaggio non coincide con la sua riduzione storica né con una sua trasformazione dogmatica: rimane un’esperienza critica dell’umano, un modo di porre la domanda sul senso, sull’etica dell’alterità e sulla responsabilità nella relazione con l’altro.
Inoltre, io credo che l’attesa (procrastinata sine die), se rimessa al centro di una fede che diventa soprattutto “speranza”, possa produrre posture attivamente trasformatrici, atteggiamenti di disponibilità all’altro, carità non come “elemosina” quanto apertura ai bisogni degli altri uomini (e, per quanto mi riguarda, ad altri esseri viventi e senzienti). E, soprattutto, un cristianesimo “fedele alla terra”, che si libera delle scorie neoplatoniche che l’hanno caratterizzato per secoli.
Masada, gesto estremo e simbolo tragico
Hai ragione: Masada è una ferita tragica, e non intendo minimizzare la sproporzione tra simbolo e storia.
Il gesto di Masada non può essere compreso soltanto come atto inefficace storicamente. La sua potenza simbolica non è un surrogato della storia ma un indizio della polarità tra vita, testimonianza e libertà radicale.
Come dettoti, però, non sottovaluto la tua riflessione, che mi interpella, perché mi rendo conto che nella mia cultura è radicato il brivido per il gesto eroico e testimoniale, sin dall’infanzia. Il prossimo romanzo (Il potere del canto) che, se Dio vuole, uscirà in primavera (e di cui ti parlai in una cena di diversi anni fa, quindi scritto prima di Euthymios e continuamente poi riscritto negli anni), parlerà anche, in fondo direi soprattutto di questo.
Il negativo irriducibile e l’antropologia dell’abisso
È il cuore della differenza tra le nostre prospettive: tu poni l’accento sull’irriducibilità del negativo, sull’abisso come esperienza che non si lascia integrare, addomesticare o redimere.
Accetto la tua provocazione filosofica: il negativo è irriducibile, e ogni progetto umano di redenzione deve confrontarsi con questa irriducibilità.
Tuttavia, Euthymios non nega l’abisso. Piuttosto, lo tiene in conto nel movimento stesso della sua fatica etica.
La scelta, a mio avviso, non è tra oblio dell’abisso e sua totalizzante accettazione ma tra una antropologia che guarda l’abisso come condizione e una che tenta di pensarlo senza restarne consumata.
Il dialogo come rischio e come soglia
Se c’è una convergenza con la tua posizione, essa sta proprio nell’idea che il senso non è dato una volta per tutte né risolto in un sistema coerente, ma si costruisce dentro il rischio. L’obiettivo è rendere più esigente la domanda, come tu stesso proponi.
In questo senso, accolgo la tua (assai preziosa) critica come un allargamento della prospettiva, una soglia in cui il pensiero dialogicamente continua.

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