Caro Nicola,
la tua risposta è, a tutti gli effetti, un testo teorico che prosegue il lavoro del romanzo su un altro piano. È una sorta di esplicitazione filosofica. In questo senso, la considero parte integrante dell’opera stessa.
Il nodo dello statuto della verità è, a mio avviso, il punto archimedeo dell’intero impianto. La tua rivendicazione di una “verità debole”, socraticamente orientata e mai posseduta, effettivamente, segna una distanza netta tanto dal relativismo, quanto da ogni forma di fondazionalismo. Ciò che resta problematico - e filosoficamente fecondo - è il criterio. Il dialogo permanente, fondato sul “sapere di non sapere”, produce una verità condivisa, ma tale condivisione rimane esposta a una domanda ulteriore: è solo il risultato di una convergenza etica e relazionale, o implica anche una qualche resistenza del reale, un attrito che non dipende dai parlanti? Il romanzo, coerentemente, non risolve questa tensione; la tua risposta la tematizza, ma senza dissolverla. È qui, credo, che Euthymios si colloca in una linea socratica autentica: non come dottrina della verità, ma come esercizio del vero.
Sul piano religioso, il tuo chiarimento conferma che non siamo di fronte a una sintesi armonizzante, bensì a uno spostamento di paradigma. L’asse non passa più dalla verità delle credenze, ma dalla verità delle pratiche. L’ortoprassi diventa il luogo in cui le tradizioni si espongono al giudizio della storia. Ciò comporta, inevitabilmente, una riduzione del conflitto dogmatico, ma non una sua rimozione: il conflitto si ricolloca sul terreno della vita vissuta e delle conseguenze di azioni spesso irrevocabili. In questo senso, la tua posizione è particolarmente esigente: chiede alle religioni di rispondere non della loro coerenza interna, ma della loro capacità di generare umanità.
Da questo punto di vista, il tuo rifiuto di leggere Yeshua come “Cristo” è decisivo. Capisco: qui il romanzo opera una vera e propria epochè teologica. La sospensione degli elementi centrali della fede cristiana tradizionale costituisce una scelta metodologica precisa: attenersi al Gesù storico. Yeshua non è il rivelatore dell’Amore in senso metastorico, ma il nunzio di un Regno imminente e mondano, che irrompe nella storia e la giudica. In questo quadro, la categoria di “umanesimo spirituale” risulta inadeguata: ciò che emerge è un annuncio situato, radicale, carico di attese e di fallimenti.
Si potrebbe tuttavia obiettare che questa epochè teologica, proprio nella sua radicalità metodologica, rischia di produrre un effetto collaterale non del tutto controllabile. La rigorosa adesione al Gesù storico, sottratto programmaticamente a ogni rilettura cristologica, garantisce senza dubbio una maggiore fedeltà storiografica; ma al tempo stesso solleva una questione di statuto filosofico dell’annuncio.
Se Yeshua è esclusivamente il nunzio di un Regno situato integralmente entro l’orizzonte escatologico del giudaismo del I secolo, allora il suo messaggio resta strutturalmente vincolato a un’attesa storicamente determinata - e in larga misura fallita. In tal caso, ciò che si trasmette non è tanto una verità che eccede il contesto, quanto un evento simbolico il cui senso dipende da una promessa non compiuta. Il rischio è che l’annuncio, privato di ogni trasfigurazione metastorica, venga confinato in una singolarità irripetibile, potente ma non normativamente vincolante per chi non condivide quell’orizzonte escatologico.
Paradossalmente, proprio il rifiuto dell’“umanesimo spirituale” potrebbe allora risultare problematico. Se l’annuncio non è universalizzabile in senso etico-esistenziale, se non può essere tradotto - pur senza riduzioni - in una grammatica umana condivisibile oltre il suo contesto originario, che cosa lo rende ancora filosoficamente e antropologicamente operante nel presente? In altri termini: che cosa consente a Yeshua di parlare a noi, e non solo di sé?
Si potrebbe sostenere che è stata proprio la rilettura cristologica - storicamente certo costruita, ma concettualmente feconda - a rendere possibile una trasposizione dell’evento gesuano oltre il fallimento dell’attesa immediata del Regno. La figura del Cristo risorto, al di là del suo statuto teologico, ha funzionato come dispositivo ermeneutico capace di salvare il senso dall’insuccesso storico, sottraendo l’annuncio alla pura contingenza e rendendolo traducibile in forme etiche, simboliche e politiche ulteriori.
Da questo punto di vista, la sospensione totale della dimensione metastorica potrebbe indebolire, più che rafforzare, la portata critica del messaggio di Yeshua. Un annuncio radicalmente situato, privo di ogni eccedenza simbolica, rischia infatti di restare prigioniero del proprio tempo, mentre ciò che ha reso Gesù una figura ancora pensabile è forse proprio la tensione - mai pacificata - tra storia ed eccedenza, tra fallimento empirico e rilancio di senso.
La questione di Masada resta, a mio avviso, il punto più scopertamente tragico del romanzo. Accolgo la tua osservazione: il rischio dell’estetizzazione del sacrificio non può essere eluso, ma nemmeno può essere dissolto con un’alternativa pratica che, storicamente, non esisteva. Qui Euthymios si misura con il limite estremo dell’agire politico: il punto in cui la trasformazione delle strutture è preclusa e resta solo la testimonianza. Che questo gesto sia inefficace sul piano storico non lo rende insignificante sul piano simbolico; ma proprio questa sproporzione tra simbolo e storia resta una ferita aperta.
Infine, l’antropologia. La tua difesa di Euthymios come figura in divenire, capace di integrare la propria ombra senza negarla, chiarisce l’intento profondo del romanzo. Resta, tuttavia, una divergenza di fondo. La tua visione assume che il Bene, pur fragile, regga l’Universo e si dia attraverso la fatica umana. La mia obiezione non riguarda la coerenza interna di questa posizione ma il suo rapporto con il negativo irriducibile: con ciò che non si lascia integrare, educare, redimere. Euthymios tenta una vita che vola sopra i demoni; io continuo a interrogarmi sull’abisso. Dall’abisso. In fondo tutta la mia opera saggistica e letteraria, da Un’etica del nulla a Icaro, da Alla corte dei Feaci al prossimo Il fasciosistema libertario, tenta di concentrarsi su ciò che resta (o che precede) quando il volo fallisce - su quale sia, cioè, il senso metafisico e etico-politico del volo e della caduta di Icaro. È precisamente in questa distanza fra noi, tuttavia, che il dialogo acquista spessore.
Euthymios accetta il rischio di un’antropologia orientata al Bene senza garanzie metafisiche, e lo espone al giudizio critico del lettore. In questo senso, il romanzo apre alla domanda filosofica. E la tua risposta lo conferma: il pensiero continua, anche contro sé stesso.
Se la critica ha ancora una funzione, forse è forse questa: non stabilire chi abbia ragione, ma rendere più esigente la domanda. In questo spirito considero il nostro confronto non un epilogo, ma una soglia.

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