venerdì 26 dicembre 2025

Antonio Martone su "Euthymios" (II parte) [𝒐𝒑𝒖𝒔 𝒎𝒆𝒖𝒎]

 

Il senso come ricerca permanente


Nella tua presentazione biografica parli di una “ricerca che non avrà mai fine”. Euthymios incarna perfettamente questa consapevolezza: non offre risposte definitive, non approda a certezze dogmatiche, ma mantiene viva l’interrogazione. Quest’apertura al possibile, questo rifiuto della chiusura sistemica, è profondamente filosofica. Richiama Socrate e la sua docta ignorantia, ma anche quella tradizione del pensiero che, da Nietzsche a Heidegger, da Wittgenstein a Derrida, ha messo in questione ogni pretesa di fondamento ultimo.

Tuttavia - e qui sta la peculiarità del tuo progetto - questa anti-dogmaticità non sfocia nel nichilismo. C’è un’etica, c’è un impegno, c’è una direzione di senso. L’assenza di certezze assolute non significa rinuncia alla ricerca del bene, del giusto, del bello. Anzi: è proprio perché il senso non è dato una volta per tutte che occorre cercarlo instancabilmente, costruirlo insieme agli altri, incarnarlo nelle scelte concrete.


La dignità dell’umano come stella polare


Se c’è un filo rosso che attraversa tanto la tua biografia intellettuale quanto il percorso di Euthymios, questo è la ricerca della dignità dell’umano.

Quest’espressione merita di essere soppesata. “Dignità” non è qui un concetto giuridico astratto o un principio morale formale, ma quella pienezza di vita, quella fioritura dell’essere umano in tutte le sue dimensioni (corporea, intellettuale, spirituale, affettiva, politica) che i Greci chiamavano eudaimonia e che tu - non casualmente - hai scelto come radice del nome del protagonista: Euthymios, il “buon animo”, che vive con rettitudine.

La dignità non si conquista nella solitudine dell’io pensante cartesiano ma nell’intreccio con gli altri, nella responsabilità verso il mondo. Per questo Euthymios diventa resistente, sceglie di morire con gli oppressi piuttosto che godere dei privilegi della sua posizione (medico di Pilato).


Conclusione critica


Euthymios è una “rosa necessaria” per il nostro tempo: un libro che propone un modello di umanità integrale, capace di tenere insieme ragione e fede, tradizione e apertura, fedeltà e libertà.

In un’epoca segnata dagli “Hitler e i Bush”, come tu stesso scrivi citando Simone Weil, in un tempo di nuovi nazionalismi e fondamentalismi, di conflitti identitari e chiusure, la figura di questo medico greco che abbraccia la spiritualità ebraica, che diventa amico del Cristo, che muore per un popolo non suo, rappresenta un’utopia concreta: la possibilità di un’umanità finalmente riconciliata con sé stessa.

Anche da questo punto di vista, Nicola Sguera conferma di essere un intellettua-le nel senso più nobile del termine: non un professore chiuso nella torre d’avorio del sapere, ma un cercatore di senso che usa la scrittura per interrogare il presente e immaginare un futuro diverso, più umano, più giusto.

Proprio perché Euthymios propone una visione alta, esigente e controcorrente dell’umano, è opportuno interrogarsi anche sui suoi punti di tensione, su ciò che il romanzo lascia volutamente aperto o espone al rischio della critica. L’intento non è quello di indebolire la proposta, ma di assumerla fino in fondo nella sua complessità.

Una prima questione riguarda lo statuto della verità. La scelta di una spiritualità aperta, non dogmatica, trans-tradizionale, fondata sull’Amore e sulla ricerca incessante del senso, solleva inevitabilmente il problema dei criteri. Se la verità non è mai posseduta ma sempre cercata, se essa “abita molte case”, come evitare che la pluralità stessa si trasformi in indeterminatezza? Il rischio, almeno teorico, è che il dialogo tra tradizioni si regga più su una consonanza etica che su un reale confronto epistemico, lasciando irrisolta la domanda su ciò che consente di distinguere una ricerca autentica da una semplice preferenza soggettiva.

In secondo luogo, la sintesi greco-ebraico-cristiana che attraversa la figura di Euthymios, pur dichiaratamente non sincretica, può apparire a tratti armonizzante. Le grandi tradizioni che entrano in dialogo nel romanzo non sono solo portatrici di differenze complementari, ma anche di conflitti strutturali, di incompatibilità talvolta insanabili. La tensione tra logos e rivelazione, tra etica dell’alterità e onto-logia dell’essere, tra ragione filosofica e evento salvifico, rischia di essere attenuata in favore di una riconciliazione simbolica che, per alcuni lettori, potrebbe apparire troppo pacificata.

Dal punto di vista teologico, inoltre, la figura del Cristo che emerge dal romanzo - amico, maestro, rivelatore dell’Amore - può essere letta come una radicale riduzione etico-esistenziale del cristianesimo. In questa prospettiva, elementi centrali della fede cristiana tradizionale (Incarnazione, Redenzione, Risurrezione) sembrano arretrare a vantaggio di un umanesimo spirituale che potrebbe essere accusato di dire, in fondo, ciò che l’uomo direbbe anche senza Dio. È una scelta consapevole ma non priva di conseguenze teoriche.

Un ulteriore nodo critico riguarda il rapporto tra testimonianza e azione politica. La decisione finale di Euthymios di condividere il destino del popolo ebraico a Masada possiede una forza simbolica indiscutibile, ma solleva interrogativi sull’efficacia storica del sacrificio. Il rischio, qui, è quello di una possibile estetizzazione della testimonianza, in cui la purezza del gesto prevale sulla trasformazione concreta delle strutture di potere e di violenza.

Infine, si può interrogare l’antropologia sottesa al romanzo. Come già ricordato, Euthymios incarna una figura di umanità integrale, capace di tenere insieme cura dei corpi, ricerca del senso, amore, impegno politico e apertura spirituale. Questa figura, tuttavia, proprio nella sua coerenza e luminosità, può apparire come un ideale alto, forse difficilmente accessibile, che rischia di sottovalutare la dimensione oscura, conflittuale e talvolta irriducibile dell’umano: il negativo che non si lascia redimere e la violenza che non si lascia educare. In una parola: il male che non si lascia integrare in una sintesi armonica volta verso il bene.

E tuttavia, è proprio qui che Euthymios mostra la sua natura più autentica. Il romanzo assume il rischio della ricerca. Le criticità che ne emergono costituiscono il prezzo inevitabile di una proposta che rifiuta il dogma, il fondamentalismo e le certezze assolute. In questo senso, Euthymios invita a sostare nelle domande decisive e chiede soltanto confronto. Ed è forse in questa esposizione al rischio - teorico, etico, esistenziale - che risiede la sua più profonda onestà intellettuale [2. fine]


Antonio Martone insegna Filosofia politica presso l’Università di Salerno. 



giovedì 25 dicembre 2025

Antonio Martone su "Euthymios" (I parte) [𝒐𝒑𝒖𝒔 𝒎𝒆𝒖𝒎]

 


Una religiosità laica per il nostro tempo. Il viaggio come ricerca del senso


Euthymios si presenta come un romanzo di formazione che trascende i confini del genere letterario per diventare un’interrogazione filosofica sulla possibilità stessa di un’esistenza autentica. Il protagonista, Euthymios, medico greco formato alla scuola ippocratica e non immune da fascinazioni stoiche, intraprende un viaggio che è insieme geografico, intellettuale e spirituale: dalla Grecia all’antica terra d’Israele, da Roma a Gerusalemme, fino all’estremo sacrificio di Masada. Questo peregrinare costituisce una vera e propria paideia esistenziale, un percorso di formazione che ricorda le grandi narrazioni filosofiche dell’antichità. Come l’Odisseo omerico o il Socrate dei dialoghi platonici, Euthymios apprende attraverso l’incontro, il confronto, la disposizione all’ascolto dell’alterità.


La curiosità come virtù filosofica


Al centro del romanzo sta quella che potremmo definire, con Heidegger, una “cura” (Sorge) autentica: curiosità medica, filosofica e spirituale si intrecciano in un’unica tensione conoscitiva. Euthymios non si accontenta delle certezze della sua tradizione culturale; la medicina ippocratica, il pensiero stoico, la razionalità greca sono punti di partenza, non d’arrivo.

La curiosità espressa dal protagonista non è il vizio della curiositas condannata da Agostino alla fine dell’Impero romano, ma una virtù epistemica e morale: il desiderio di comprendere l’altro, di entrare in contatto con mondi spirituali differenti (gli Esseni, Giovanni Battista, Gesù), di lasciarsi trasformare dall’incontro. È questa stessa apertura che Sguera rivendica nella sua presentazione biografica quando parla di “abitare le frontiere” e di rifiutare l’ortodossia.


Il dialogo greco-ebraico: un messaggio di pace


Particolarmente significativa appare la scelta di far convivere nel protagonista - e attraverso di lui - la cultura greca con quella ebraica. In un tempo segnato da nuovi fondamentalismi e chiusure identitarie, nel nostro tempo, Euthymios propone un modello di identità aperta, porosa, capace di integrare senza annullare, di accogliere senza tradire.

Il medico greco che diventa amico di Gesù, che sposa un’ex prostituta discepola del Cristo, che alla fine sceglie di morire con il popolo ebraico a Masada, incarna quella che Simone Weil chiamava la necessità di un radicamento unita alla possibilità di una spiritualità aperta. Non si tratta di sincretismo superficiale o di eclettismo intellettuale, ma di quella profonda comprensione per cui tutto si fonda sull’Amore.

La sintesi greco-ebraica operata da Euthymios richiama quella grande stagione del pensiero in cui Filone di Alessandria tentò di far dialogare Torah e Logos, prefigurando quella che sarà la patristica cristiana. Ma qui non c’è volontà di subordinare una tradizione all’altra: c’è piuttosto il riconoscimento che la verità è sempre plurale, che la sapienza abita molte case.


L’equilibrio esistenziale come conquista


Il percorso di Euthymios non è solo intellettuale ma esistenziale. La sua ricerca mira al rinvenimento di un ritmo esistenziale adeguato alla dignità dell’umano.

Questa espressione - “ritmo esistenziale” - è filosoficamente densa. Richiama l’idea greca di métron, di giusta misura; l’equilibrio stoico tra passioni e ragione; ma anche quella dimensione temporale dell’esistenza che Heidegger poneva al centro della sua analitica esistenziale. Euthymios cerca un modo di abitare il tempo che sia all’altezza dell’umanità, che non riduca l’esistenza a mera sopravvivenza biologica o a funzionamento sociale.

L’equilibrio raggiunto non è statico ma dinamico: il protagonista medico cura i corpi, filosofo interroga il senso, amico accoglie l’altro, amante scopre l’eros, resistente si schiera con gli oppressi. Ogni dimensione trova il suo posto senza annullare le altre, in quella che potremmo chiamare, con Sguera, un’ecosofia esistenziale.


L’amore come apertura all’alterità


L’incontro con l’ex prostituta discepola di Cristo e il successivo matrimonio rappresentano un momento filosoficamente cruciale. L’amore è forma suprema di conoscenza e apertura all’altro.

Questo tema riecheggia Lévinas: è nel volto dell’altro, nella sua irriducibile alterità, che si manifesta l’istanza etica fondamentale. L’amore per questa donna - segnata dalla marginalità sociale, dalla vita dissoluta, ma trasformata dall’incontro con il Cristo - rappresenta la capacità di Euthymios di vedere oltre le convenzioni, di riconoscere la dignità umana là dove la società la nega.

È significativo che Sguera nella sua autobiografia citi Etty Hillesum, la giovane ebrea che «cantava mentre il suo treno viaggiava verso il lager.» Anche in Euthymios l’amore non è negazione della tragedia ma capacità di affermazione della vita e della bellezza anche di fronte all’orrore (la crocifissione, la rivolta giudaica, Masada).


Una religiosità laica, una laicità religiosa


Caro Nicola, la tua è religiosità laica o laicità intessuta di religiosità. Il tuo romanzo - e la tua stessa figura intellettuale - incarnano quella terza via che sfugge tanto al fondamentalismo religioso quanto al laicismo astratto.

Quando ti professi «cristiano ma fuori dalla Chiesa cattolica», quando cerchi quel “Quinto Vangelo” fondato sull’Amore, quando integri “pensiero-poetante ecosofico, spiritualità transreligiosa, agire politico non-violento”, stai operando quella che Bonhoeffer chiamava la ricerca di un cristianesimo adulto: una fede che non ha bisogno delle stampelle dell’Istituzione, che non si rifugia nel dogma, ma si confronta con la complessità del reale.

Euthymios è la personificazione narrativa di questo progetto. La sua è una spiritualità senza Dio (nel senso delle rappresentazioni teologiche tradizionali) ma non per questo meno profonda; o meglio, è una spiritualità in cui il divino si manifesta nell’incontro umano, nell’impegno etico, nella scelta di stare dalla parte degli oppressi (la decisione finale di morire a Masada con il popolo ebraico è emblematica) [1. Continua]


Antonio Martone insegna Filosofia politica presso l’Università di Salerno. 


venerdì 12 dicembre 2025

Simone Savoia su "Euthymios" [𝒐𝒑𝒖𝒔 𝒎𝒆𝒖𝒎]

 


Ho trovato la scrittura di Euthymios calda, accogliente, mi ha dato un senso di pace mentre leggevo.

Penso che la fase di ricerca prima della stesura abbia richiesto pazienza certosina: il lessico tecnico di alcuni utensili o ambienti, gli odori, i sapori, le usanze, i posti, le strade, le rotte, sono tutti descritti in maniera credibile, evocativa  di un mondo altro rispetto al nostro e comunque così storicamente legati.

È visibile una volontà di approdare a un punto che in qualche modo accolga e sintetizzi l’esperienza di vita nonostante penso che la stagione dell’“in/quieta ricerca” non sia ancora conclusa.

Ho avuto l’impressione leggendolo all’incirca in un mese che quest’opera al di là dell’intento di ridiscutere la figura del Gesù storico sia stata un pretesto anche per un personale bilancio dell’autore

La vita di Euthymios è la vita (spirituale s’intende) di tutti noi che siamo sempre in conflitto o meglio in ricerca di sé e del divino che sono un po’ la stessa cosa per chi crede che abiti dentro di noi.

Penso sia un tentativo ben riuscito di approdo alla quiete, di rendersi conto e far rendere conto al lettore che alla fine fa parte tutto del viaggio, i dubbi, la fede in qualcosa o qualcuno (il logos per esempio) e la messa in discussione della stessa, strumenti per provare a conoscere e leggere il mondo.

Si riconosce l’autore anche (per chi lo conosce) nell’ansia di giustizia, nella rabbia contro il potere e i suoi soprusi, nell’astensione dalla carne. 

Il genere del romanzo storico mi sembra una scelta felice per trattare temi universali volendo dare un proprio contributo.

Ho un unico dubbio sulla scelta di lasciare i nomi traslitterati all’antica: è vero che costringono il lettore a indugiare e a farlo entrare in una dimensione altra rispetto alla nostra ma penso anche a quella fetta di lettori che potrebbe avvertire poca scorrevolezza nella lettura.

Mi auguro che il libro sia letto da più persone possibili: ciascuno di noi ha bisogno di comprendere e riunire in comunione con le proprie contraddizioni il proprio io.

Simone Savoia*


* Simone Savoia ha studiato con Nicola Sguera e si è diplomato nel 2010.

Ora insegna in una scuola media di Legnano.




giovedì 4 dicembre 2025

Amerigo Ciervo su "Euthymios" (II parte) [𝒐𝒑𝒖𝒔 𝒎𝒆𝒖𝒎]

 

“CHI DICONO GLI UOMINI CHE IO SIA?”(Mc, 8-27)

Leggendo il libro di Nicola questa domanda - che Gesù rivolge ai suoi discepoli e che risuona attraverso i secoli fino ad oggi, conservando sempre la medesima attualità –  è di nuovo ritornata. Gesù e il suo messaggio sono il fondamento della storia da una ventina di secoli a questa parte. Non possiamo immaginare di smontare, dalla storia di gran parte del mondo, la sua figura. Che ha generato fedi profonde, straordinarie nelle vite di milioni e milioni di persone, umili o coltissime, ma anche multiformi posizioni di dubbio, di rigetto, di rifiuto. Ma anche chi si è mosso o si muove in questa linea non potrà mai smettere di farci i conti. Completamente umanizzandolo, certo, come Tolstoj, per il quale è l'incarnazione di un ideale morale altissimo, o come il giovane Hegel  che calibra il suo Leben Jesu  sul kantismo e dunque  Gesù è presentato come un supremo maestro di etica, vero simbolo dello spirito umano, o come un perfetto e superiore Socrate in Rousseau, o la figura “dolce e semplice” contrapposta alla rude e severa intolleranza dell'istituzione per Voltaire, o, infine, il portabandiera dei cuori puri, dei sofferenti e dei falliti secondo Nietzsche.

Nicola fa i conti con questa domanda, ricordandoci che il suo libro, benché scritto in pochi mesi, è il frutto di un ventennio di studi e di letture approfondite sulle questioni del “Gesù storico”.

Allora mi sembra utile offrirvi alcune indicazioni, qualche linea-guida, come nelle ordinanze ministeriali dell'Istruzione e,  ahimè, del merito, che per me sono indicative per affrontare l'opera di Sguera.    

Quali sono le differenze tra il Gesù storico e il Cristo della fede?

Il teologo evangelico Rudolph Bultmann le riassume nei seguenti punti:

1) Invece della figura storica di Yeshua, la predicazione apostolica – il kerygma -  ha scelto la figura mitica del Figlio di Dio;

2) La predicazione escatologica sul regno di Dio, fatta da Yeshua, è sostituita con l'annuncio del Cristo morto in croce e risuscitato da Dio per la nostra salvezza.      “Se Cristo non fosse risorto vana sarebbe la nostra fede” (1 Cor) Aggiunge Leonardo Boff: Gesù predicò il Regno, la Chiesa predica il Cristo. Il predicatore è ora predicato.  

3) E all'obbedienza radicale e alla vita fondata sull'amore totale voluti da Gesù, subentrò la dottrina sul Cristo, sulla Chiesa, sui sacramenti.

Ciò significa in breve che l'unica cosa che conta, per quest'approccio, l'unica cosa che vale è che Gesù visse e che morì in croce. Soltanto ciò interessa alla fede. La storicità oggettiva non interessa.

E tuttavia, per quanto suggestiva possa essere questa visione, è indubbio che tanti problemi apre.  Su cosa si fonda il kerygma, ossia l'annuncio? E' possibile distinguere la predicazione su Yeshua  dalla visione di un gruppo che si  costruisce, si struttura intorno alla sua figura? Nella sua introduzione al volume Le parole dimenticate di Gesù, Mauro Pesce – opportunamente citato da Nicola come uno dei suoi principali riferimenti – si chiede: “Che cosa hanno significato per la chiesa antica le parole di Gesù? E, ancor prima che cosa hanno significato quelle parole per le prime generazioni di discepoli  che non lo avevano conosciuto?

Dal punto di vista storico un groviglio di problemi su cui tuttavia gli storici continuano e continueranno a lavorare.

Prendo come riferimento il lavoro dello storico napoletano Giorgio Jossa, già docente della Federico II e della Pontificia Facoltà Teologica dell'Italia meridionale. Jossa ha  dedicato studi importanti alle  origini del cristianesimo,  alla figura storica di Gesù, e alla nascita della cristologia. Di particolare rilevanza sono i suoi studi sui gruppi giudaici al tempo di Gesù e sulla ricostruzione dell'ambiente della sua predicazione, soprattutto in merito al problema del Gesù messia. Dunque i suoi contributi si inseriscono nella complessa e articolata ricerca delle relazioni tra storia e fede, ossia tra ricostruzione storica e costruzione dogmatica.

Secondo Jossa Gesù inizia la sua missione pubblica come discepolo del Battista, in Giudea. Ne condivide le posizioni escatologiche e apocalittiche sul giudizio imminente di Dio e la necessità della penitenza e del battesimo. Probabilmente anche l'attesa di un Masiah incaricato del giudizio. Quando Giovanni è arrestato,  dà vita in Galilea ad una missione autonoma molto diversa da quella del Battista, incentrata sull'annuncio della venuta imminente del regno - terreno  -  di Dio. Ricordate  una delle scene del Vangelo secondo Matteo di Pasolini, con un Gesù che cammina tra i campi ripetendo: Ravvedetevi,  il regno è vicino. A causa del successo della sua predicazione, unito alla sua attività taumaturgica, con le varie guarigioni, Gesù assume posizioni sempre più radicali nei confronti della legge di Mosè, ne motiva il fondamento con i farisei e si presenta come l'ultimo e decisivo inviato da Dio prima dell'avvento del suo regno. Ma dalla Galilea, terra costituita da piccoli artigiani, contadini e pescatori, molto poco influenzata dalla cultura greca, e senza alcun potere economico e politico, Gesù va a Gerusalemme, dove però le cose precipitano e dove comprende  che l'avvento del regno non è poi così vicino e che Dio vuole che egli debba prima passare attraverso la morte. Durante l'ultima cena  riafferma la sua fede nell'avvento del regno celeste  e indica nel suo sangue il segno della nuova alleanza che Dio stabilisce con il suo popolo. Questa la possibile ricostruzione del Gesù storico.   

Euthymios è testimone di tutto questo. Discute con Yeshua e, nel racconto, ha un ruolo chiave che qui non vi ovviamente svelerò.           

La prima prova di romanziere è brillantemente superata. Lo sviluppo del suo racconto  ha un  fascino tutto particolare. Per esempio con la ricostruzione, quasi da etnologo, della vita quotidiana dei suoi personaggi,   con la profonda conoscenza  dell'erbario medico, con la descrizione delle pratiche mediche del protagonista.  La scrittura è pacata, dolce, senza barocchismi. Curata come può curarla chi ha un'antica dimestichezza con la poesia. Che, immagino,  resta la vera vocazione di Nicola. .

La  storia si dipana tra l'orgogliosa ricchezza della civiltà greca, con le sue vette ineguagliate, in ogni disciplina possibile, dalla filosofia alla medicina e quella ebraica, con tutte le sue sfaccettature  politico-religiose.  E la medicina ippocratica è la base di partenza. Con l'affermazione tra le altre di entrare in ogni casa “per il sollievo dei malati, e di astenersi  da ogni offesa e danno volontario, e da ogni atto libidinoso sul corpo delle donne e degli uomini, liberi e schiavi.”

Dunque attenzione al corpo e alla coscienza delle persone. Due “mondi” che la modernità  e la tecnica hanno scisso, separato, sulla scia della separazione tra res extensa e res cogitans individuata dal Cartesio non a caso indicato, da Hegel,  come il  fondatore della filosofia moderna. Ma, in realtà -  è l'aspirazione del medico greco -  dovrebbero procedere insieme. Per un medico il dialogo è fondamentale, pensa Euthymios. Si cura una persona, non si cura un corpo, o un arto.

Ma chi è veramente Euthymios? Credo di conoscere molto fondo l'Autore per pensare che dietro  molti dei pensieri-guida del medico ci sia lui, Nicola. La sua particolare visione del mondo, le sue scelte anche radicali, i suoi tagli, il suo procedere in avanti si fondano su ciò su cui, per  Joseph Ratzinger, Benedetto  XVI, che cita Salomone, deve basarsi “il regno di Dio che viene”: il cuore docile. Nicola ha davvero un cuore docile, come Euthymios.

Concludo: sabato pomeriggio mi sono fatto coraggio e sono andato a visitare un mio amico ricoverato  in una clinica vicino Napoli. Devastato dalla SLA. Una condizione terribile. Mi sono passati davanti i momenti più belli che abbiamo vissuti insieme, facendo musica. Ma è stata anche l'occasione di meditare, alla maniera di Pascal, sulla nostra condizione. E così continuo, misteriosamente,  a rispondere, a differenza di Nicola, come Pietro,  all'altra domanda che Gesù pone ai suoi -  “VOLETE ANDARVENE ANCHE VOI?” - Domine, ad quem ibimus? Verba vitae aeternae habes.  Da chi andremo, Signore? Tu solo hai parole di vita.

“Non mi ribellerò mai alla Chiesa perché ho bisogno più volte alla settimana del perdono dei miei peccati, e non saprei da chi altri andare a cercarlo quando avessi lasciato la Chiesa”,  scrisse don Lorenzo Milani,  nell'ottobre del 1958. È una scommessa? È una speranza? Non so. Certo siamo travolti da un senso  profondo del mistero. Del mysterium fidei. Intanto però – e chiudo davvero – tra le parole non dette di Gesù un frammento riportato dal Papiro di Ossirinco  recita: “Se vi è luce in un uomo illuminato, splenderà in tutto il mondo. Se non darà luce, è un uomo di tenebra.” So per certo che Nicola Sguera è un uomo illuminato. E, con il  suo libro, splende. Non so se in tutto il mondo. Di sicuro splende nel nostro mondo. E ciò potrebbe essere già sufficiente.  






mercoledì 3 dicembre 2025

Riflessioni su "Euthymios" [𝒐𝒑𝒖𝒔 𝒎𝒆𝒖𝒎]

 


1. Ringrazio chi ha reso possibile che questo evento accadesse proprio qui, in uno dei luoghi della memoria che mi sono cari: nella chiesa che sorgeva un tempo qui sopra i miei genitori si sposarono, qui io, fanciulletto, stonai e ricevetti medaglie dorate per i miei discutibili successi scolastici. 

2. Grazie a lettori di eccezione. Il fatto stesso che Euthymios sia stato letto da queste quattro persone già in qualche modo ne giustifica l’esistenza, anche se nessun altro dovesse leggerlo. I quattro sono stati preceduti da una lettrice speciale, che mi ha sostenuto nei mesi complessi che vanno dalla redazione alla pubblicazione: Paola Maglione, amica e collega, il cui valore per me non posso definire. 

3. Euthymios è nato da un accadimento: da una piccola catastrofe che si è rivelata essere, probabilmente, la più grande opportunità della mia vita. Pensavo di appartenere esclusivamente alla scuola, ora sento di appartenere – oltre che a mia figlia e a mia moglie – quasi esclusivamente alla scrittura. E spero non suoni per voi come una minaccia! Senza disertare nessuno dei “mandati” che ho abitato per anni, continuando dunque ad essere auspicabilmente un marito presente ai bisogni dell’altra, un padre attento, un educatore responsabile, ho deciso che il “quarto tempo” della mia vita sarà dedicato a scrivere consapevolmente, rimanendo fedele all’opera, alla parola, al bisogno di verità e bellezza che da sempre mi hanno ispirato. Nulla dies sine stilo

4. Euthymios fa i conti con una rovello ventennale.  Chi è stato veramente Gesù?  Da questo domandare è fiorita una storia, largamente autonoma dal suo nucleo genetico. A voi giudicarla. Non posso aggiungere nulla a ciò che ho scritto.

5. Io sono intimamente “cristiano”, fecondamente ed ereticamente cristiano. La mia lingua è intrisa delle parole della Bibbia, il mio ethos filia dalle parole meravigliose di Gesù. Ma io non credo. Spero. 

6. Euthymios non nasce da una riflessione sul senso dello scrivere narrativa oggi. È nato di getto, come detto, in mesi “matti e disperati” (in senso buono) con i tratti del “furor” bruniano e dell’“eroismo” platonico. Ci sarà il tempo per questa riflessione. 

7. Scrivere un romanzo (e cimentarsi oramai quasi quotidiana-mente con la scrittura di racconti) impegna anche la mia scrittura poetica da cui sparirà ogni riferimento autobiografico a partire dalla prossima raccolta, cui sto lavorando. A proposito: a Pomezia, la settimana prossima, sarà premiata Una luce che risplende in luoghi oscuri. Il premio sarà la pubblicazione. La mia quinta raccolta di versi.

8. Sto partecipando, come molti di voi sanno, a premi: di ogni tipo, con risultati discreti. Non è vanagloria. Vi prego di credermi. Solo la volontà di “mettermi a bottega”, non avendo tempo né voglia di frequentare scuole di scrittura in cui un sessantenne apparirebbe abbastanza ridicolo. Nel contempo, è necessario sotto-porsi al giudizio: la provincia, non solo la nostra, è piena di scrittori e artisti che si autoproclamano tali. Vorrei provare ad evitare questo rischio.

9. Sarò felice se qualcuno mi scriverà riflessioni, anche (direi soprattutto critiche) e mi farebbe piacere poterle pubblicare sul mio blog. 

10. E quindi, per concludere, grazie a tutti voi che avete sacrificato tempo prezioso per essere qui. Nella sfida di andare oltre in confini confortevoli in cui per tredici anni, da quando, ancora qui, presentai alla città il mio primo libro, ho vissuto, sapere che c’è un nucleo saldo di amici che mi supporta è forza.

(Teatro “De La Salle”, 1 dicembre 2025)





martedì 2 dicembre 2025

Amerigo Ciervo su "Euthymios" (I parte) [𝒐𝒑𝒖𝒔 𝒎𝒆𝒖𝒎]

 

Una sera di dicembre, nel 2012,  ero su questo palco, a presentare il primo libro di Nicola. Il fatto che siamo ancora qui, tredici anni dopo, in un certo senso ci rassicura e ci dà coraggio perché – immagino – tutti amiamo la vita e nonostante praticare la filosofia – come si dice  nel Fedone platonico, equivalga ad un apparecchiarsi alla morte -  magari ve lo scrivete, come suggerisce Massimo Troisi -  l'augurio è di restare saldamente afferrati al suo contrario cercando di godere, il più efficacemente possibile, dei doni che essa ogni giorno ci offre. E così dovremmo cercare di  imparare, giorno dopo giorno,  ad attraversarne la tragicità, a reagire sempre all'insensato, all'assurdo che c'è nel mondo, di cui una buona parte di responsabilità è giusto farla ricadere su di noi e sui nostri simili. In ogni caso questo tempo c'è dato da vivere e  questo tempo dobbiamo vivere. Un libro come questo serve innanzitutto a questo.  

Quand'eravamo giovani spesso ci capitava di dare vita a un gioco divertente. Ci domandavamo a vicenda: Quale situazione,  in un tempo lontano, ti sarebbe piaciuto vivere?

Di solito avevo quattro – cinque risposte.   

Essere ad Atene nelle Grandi Dionìsie del 423 a.C. Seduto accanto a Socrate durante la prima delle Nuvole di  Aristofane per vedere le reazioni del filosofo mentre gli attori si divertivano con  spietatezza satirica, a “percularne” la figura pubblica.       

Oppure, nel 1252,  a Parigi, per assistere alle lezioni di   Tommaso d'Aquino che principiava a commentare il fino a qualche anno prima vietatissimo Aristotele.

O ancora, sul finire del Quattrocento,   attraversare con Giovanni Bockeneim, il maestro delle cerimonie papali, le sale dell'appartamento Borgia, e incontrare il  papa Alessandro VI, di cui si disse “Mai si vide il più carnale homo”,     magari in compagnia di Giulia Farnese, la donna più bella di Roma, sorella di quell'Alessandro Farnese, poi Paolo III, a più riprese amministratore dell'arcidiocesi di Benevento.  

O infine assistere, il 3 dicembre del 1792,  al discorso di Robespierre alla convenzione:  “Qui non c'è da fare un processo. Luigi non è un imputato; voi non siete dei giudici; Voi siete e non potete essere altro che uomini di Stato e rappresentanti della nazione.”

Lo scrittore che mette mano a un romanzo storico – in fondo – fa un gioco simile. Si sceglie un tempo storico, ne seleziona dei personaggi, alcuni li inventa, con la sua fantasia creativa,   altri sono realmente esistiti.  Con loro gli sarebbe piaciuto condividere tempo e storie. Di essi scandaglia in profondità il carattere, ne ripercorre  i passaggi le loro azioni più significative, specialmente quelle in grado di modificare in profondità le vite e le esistenze degli altri uomini. Le azioni che non ci  fanno tornare indietro. A nessuna età dell'oro, se mai ci sia stata una qualche età dell'oro nelle vicende umane. O magari a pensare follemente di costruirla.

Il libro di cui parliamo stasera è un romanzo storico. E chi lo ha scritto è un mio amico carissimo. E per il suo primo romanzo storico ha mirato in alto. Altro che Socrate – che nel libro più volte è ricordato, anche in una delle scene-madri che non rivelerò per non togliervi il gusto di scoprirla da voi leggendolo, il libro – ; altro che Tommaso o papa Borgia – ma anche un futuro papa nel libro c'è, e pour cause, o Robespierre. Nella storia di Euthymios, medico greco di grandissime qualità e profonda esperienza, il vero personaggio principale, sottotraccia, è Yeshua, cioè Gesù.

Nicola Sguera con il suo libro mette le mani in una materia assolutamente incandescente.