“CHI DICONO GLI UOMINI CHE IO SIA?”(Mc, 8-27)
Leggendo il libro di Nicola questa domanda - che Gesù rivolge ai suoi discepoli e che risuona attraverso i secoli fino ad oggi, conservando sempre la medesima attualità – è di nuovo ritornata. Gesù e il suo messaggio sono il fondamento della storia da una ventina di secoli a questa parte. Non possiamo immaginare di smontare, dalla storia di gran parte del mondo, la sua figura. Che ha generato fedi profonde, straordinarie nelle vite di milioni e milioni di persone, umili o coltissime, ma anche multiformi posizioni di dubbio, di rigetto, di rifiuto. Ma anche chi si è mosso o si muove in questa linea non potrà mai smettere di farci i conti. Completamente umanizzandolo, certo, come Tolstoj, per il quale è l'incarnazione di un ideale morale altissimo, o come il giovane Hegel che calibra il suo Leben Jesu sul kantismo e dunque Gesù è presentato come un supremo maestro di etica, vero simbolo dello spirito umano, o come un perfetto e superiore Socrate in Rousseau, o la figura “dolce e semplice” contrapposta alla rude e severa intolleranza dell'istituzione per Voltaire, o, infine, il portabandiera dei cuori puri, dei sofferenti e dei falliti secondo Nietzsche.
Nicola fa i conti con questa domanda, ricordandoci che il suo libro, benché scritto in pochi mesi, è il frutto di un ventennio di studi e di letture approfondite sulle questioni del “Gesù storico”.
Allora mi sembra utile offrirvi alcune indicazioni, qualche linea-guida, come nelle ordinanze ministeriali dell'Istruzione e, ahimè, del merito, che per me sono indicative per affrontare l'opera di Sguera.
Quali sono le differenze tra il Gesù storico e il Cristo della fede?
Il teologo evangelico Rudolph Bultmann le riassume nei seguenti punti:
1) Invece della figura storica di Yeshua, la predicazione apostolica – il kerygma - ha scelto la figura mitica del Figlio di Dio;
2) La predicazione escatologica sul regno di Dio, fatta da Yeshua, è sostituita con l'annuncio del Cristo morto in croce e risuscitato da Dio per la nostra salvezza. “Se Cristo non fosse risorto vana sarebbe la nostra fede” (1 Cor) Aggiunge Leonardo Boff: Gesù predicò il Regno, la Chiesa predica il Cristo. Il predicatore è ora predicato.
3) E all'obbedienza radicale e alla vita fondata sull'amore totale voluti da Gesù, subentrò la dottrina sul Cristo, sulla Chiesa, sui sacramenti.
Ciò significa in breve che l'unica cosa che conta, per quest'approccio, l'unica cosa che vale è che Gesù visse e che morì in croce. Soltanto ciò interessa alla fede. La storicità oggettiva non interessa.
E tuttavia, per quanto suggestiva possa essere questa visione, è indubbio che tanti problemi apre. Su cosa si fonda il kerygma, ossia l'annuncio? E' possibile distinguere la predicazione su Yeshua dalla visione di un gruppo che si costruisce, si struttura intorno alla sua figura? Nella sua introduzione al volume Le parole dimenticate di Gesù, Mauro Pesce – opportunamente citato da Nicola come uno dei suoi principali riferimenti – si chiede: “Che cosa hanno significato per la chiesa antica le parole di Gesù? E, ancor prima che cosa hanno significato quelle parole per le prime generazioni di discepoli che non lo avevano conosciuto?
Dal punto di vista storico un groviglio di problemi su cui tuttavia gli storici continuano e continueranno a lavorare.
Prendo come riferimento il lavoro dello storico napoletano Giorgio Jossa, già docente della Federico II e della Pontificia Facoltà Teologica dell'Italia meridionale. Jossa ha dedicato studi importanti alle origini del cristianesimo, alla figura storica di Gesù, e alla nascita della cristologia. Di particolare rilevanza sono i suoi studi sui gruppi giudaici al tempo di Gesù e sulla ricostruzione dell'ambiente della sua predicazione, soprattutto in merito al problema del Gesù messia. Dunque i suoi contributi si inseriscono nella complessa e articolata ricerca delle relazioni tra storia e fede, ossia tra ricostruzione storica e costruzione dogmatica.
Secondo Jossa Gesù inizia la sua missione pubblica come discepolo del Battista, in Giudea. Ne condivide le posizioni escatologiche e apocalittiche sul giudizio imminente di Dio e la necessità della penitenza e del battesimo. Probabilmente anche l'attesa di un Masiah incaricato del giudizio. Quando Giovanni è arrestato, dà vita in Galilea ad una missione autonoma molto diversa da quella del Battista, incentrata sull'annuncio della venuta imminente del regno - terreno - di Dio. Ricordate una delle scene del Vangelo secondo Matteo di Pasolini, con un Gesù che cammina tra i campi ripetendo: Ravvedetevi, il regno è vicino. A causa del successo della sua predicazione, unito alla sua attività taumaturgica, con le varie guarigioni, Gesù assume posizioni sempre più radicali nei confronti della legge di Mosè, ne motiva il fondamento con i farisei e si presenta come l'ultimo e decisivo inviato da Dio prima dell'avvento del suo regno. Ma dalla Galilea, terra costituita da piccoli artigiani, contadini e pescatori, molto poco influenzata dalla cultura greca, e senza alcun potere economico e politico, Gesù va a Gerusalemme, dove però le cose precipitano e dove comprende che l'avvento del regno non è poi così vicino e che Dio vuole che egli debba prima passare attraverso la morte. Durante l'ultima cena riafferma la sua fede nell'avvento del regno celeste e indica nel suo sangue il segno della nuova alleanza che Dio stabilisce con il suo popolo. Questa la possibile ricostruzione del Gesù storico.
Euthymios è testimone di tutto questo. Discute con Yeshua e, nel racconto, ha un ruolo chiave che qui non vi ovviamente svelerò.
La prima prova di romanziere è brillantemente superata. Lo sviluppo del suo racconto ha un fascino tutto particolare. Per esempio con la ricostruzione, quasi da etnologo, della vita quotidiana dei suoi personaggi, con la profonda conoscenza dell'erbario medico, con la descrizione delle pratiche mediche del protagonista. La scrittura è pacata, dolce, senza barocchismi. Curata come può curarla chi ha un'antica dimestichezza con la poesia. Che, immagino, resta la vera vocazione di Nicola. .
La storia si dipana tra l'orgogliosa ricchezza della civiltà greca, con le sue vette ineguagliate, in ogni disciplina possibile, dalla filosofia alla medicina e quella ebraica, con tutte le sue sfaccettature politico-religiose. E la medicina ippocratica è la base di partenza. Con l'affermazione tra le altre di entrare in ogni casa “per il sollievo dei malati, e di astenersi da ogni offesa e danno volontario, e da ogni atto libidinoso sul corpo delle donne e degli uomini, liberi e schiavi.”
Dunque attenzione al corpo e alla coscienza delle persone. Due “mondi” che la modernità e la tecnica hanno scisso, separato, sulla scia della separazione tra res extensa e res cogitans individuata dal Cartesio non a caso indicato, da Hegel, come il fondatore della filosofia moderna. Ma, in realtà - è l'aspirazione del medico greco - dovrebbero procedere insieme. Per un medico il dialogo è fondamentale, pensa Euthymios. Si cura una persona, non si cura un corpo, o un arto.
Ma chi è veramente Euthymios? Credo di conoscere molto fondo l'Autore per pensare che dietro molti dei pensieri-guida del medico ci sia lui, Nicola. La sua particolare visione del mondo, le sue scelte anche radicali, i suoi tagli, il suo procedere in avanti si fondano su ciò su cui, per Joseph Ratzinger, Benedetto XVI, che cita Salomone, deve basarsi “il regno di Dio che viene”: il cuore docile. Nicola ha davvero un cuore docile, come Euthymios.
Concludo: sabato pomeriggio mi sono fatto coraggio e sono andato a visitare un mio amico ricoverato in una clinica vicino Napoli. Devastato dalla SLA. Una condizione terribile. Mi sono passati davanti i momenti più belli che abbiamo vissuti insieme, facendo musica. Ma è stata anche l'occasione di meditare, alla maniera di Pascal, sulla nostra condizione. E così continuo, misteriosamente, a rispondere, a differenza di Nicola, come Pietro, all'altra domanda che Gesù pone ai suoi - “VOLETE ANDARVENE ANCHE VOI?” - Domine, ad quem ibimus? Verba vitae aeternae habes. Da chi andremo, Signore? Tu solo hai parole di vita.
“Non mi ribellerò mai alla Chiesa perché ho bisogno più volte alla settimana del perdono dei miei peccati, e non saprei da chi altri andare a cercarlo quando avessi lasciato la Chiesa”, scrisse don Lorenzo Milani, nell'ottobre del 1958. È una scommessa? È una speranza? Non so. Certo siamo travolti da un senso profondo del mistero. Del mysterium fidei. Intanto però – e chiudo davvero – tra le parole non dette di Gesù un frammento riportato dal Papiro di Ossirinco recita: “Se vi è luce in un uomo illuminato, splenderà in tutto il mondo. Se non darà luce, è un uomo di tenebra.” So per certo che Nicola Sguera è un uomo illuminato. E, con il suo libro, splende. Non so se in tutto il mondo. Di sicuro splende nel nostro mondo. E ciò potrebbe essere già sufficiente.




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