Ci sono giorni in cui ti svegli con il senso del tempo alterato. È la tua infanzia che ti siede accanto con gli occhi di una bambina che ti guarda senza parlare: adolescenza sgraziata, immagini sporche di riviste rubate, tremore e rossore ed un cielo sconosciuto che diventa distanza; o quella nel buio nella stanza sei tu che mi segui sempre, come un’ombra seconda che carezza l’anima e dice «ancora, ricorda ancora, più giù, fin nel fondo, e ripeti con me…». (E se fosse paura o senso di colpa che mi sospinge sempre a vele spiegate verso l’elegia?). Ed eccoti qui:
Sorriso a labbra strette,
occhi sospesi nel tramonto prima della sera,
la paura che ci prende al confine del buio.
Sul far dell’alba, lo sguardo attento e le labbra sottili, tratto di matita sul foglio, e il sorriso che esplode improvviso, baci sul collo indifferente e occhi indiscreti, la mano sul pube, il tuo corpo bambino e la voce che ripete il mio nome. Dov’è ora il tuo sguardo triste e il cristallo della risata che s’infrange? Ho aspettato per anni, davanti a telefoni muti, uno squillo e la tua voce distante, fino a quando hai detto «non posso…». Chissà se, attaccando, pensasti: «Finalmente, non ne potevo più di tanta poesia…», baciando quell’altro, più giovane. Sei davvero tu che vivi nel ricordo? O è un simulacro di te che faccio parlare? Ma tu non rispondi…
Basta a salvare quel volo abortito
un gesto improvviso che erode certezze?
Se solo rimane la fame oscena di amore, se ritorni, nel mio deragliare, a cercare un varco, lo scarto dai binari, oppure di nuovo mi tendi un sorriso, quale parola possiamo trovare che non sappia di marcio?
Eppure ancora la luna illumina chiara
quel grido d’amore sul volo caduto.
Tu lo sai. Ci sono parole che dilaniano, parole che cambiano ogni giorno e ci cambiano, metamorfiche…
La luna piena e tu inebriata
ballavi tra i rami di noce.
O forse no, forse non c’era la luna, ma era un giorno di pioggia, di quelli grigi, inutili, in cui niente vorremmo che accadesse ed invece cambia il mondo, e tu (ma chi tu?) non eri che un’ombra di me stesso che ascoltavi senza parlare mimando i miei gesti... (Cosa diresti ora tu? Che forse ero io a non essere altro che un’ombra, il riflesso di te che parlavi, parlavi sempre, ed io ad ascoltare, assentire, smarrito in un dedalo, prigioniero d’ossessioni senza futuro).
È il vizio antico della memoria che torna e reclama per le mie dimenticanze, richiede un valore alle assenze, le azioni incompiute, il bacio tentato nella penombra degli occhi. Macina, macina, macina quella polvere, i fogli bagnati, i segnali mancati, le delusioni...
Chi sei? La donna delle stelle cadute, delle mille parole che aspettavano l’alba? Li ri-cordi ancora quei baci? Ma tu non ricordi… E parole, sempre più distanti, di un amore perduto. Quanto seme gettato, amore dissipato… Ma non sei sola nell’informe ventre della notte. Sguardi diversi, lacrime, parole...
La quotidianità trascorsa con te, gli anni che passano, la semplicità dei gesti, la famiglia e le vacanze. Ma parole sempre più rare, difficili addii nella stanchezza dell’oggi. E quanta miseria... Certe volte bisogna essere spietati, come solo un maschio sa essere, per salvare futuro e speranza.
Oh, donna gentile: fughe e rincorse, sesso cercato con foga, sguardi da cui nascondersi, giorni rubati, amplessi gioiosi fino alle lacrime di rabbia e violenza. Infine la durezza dello sguardo. Eppure ancora ne ardo…
Tu, sempre tu, che corri ragazza sul ponte, ma tacchi a spillo ti tengono in equilibrio instabile e sorridi triste sui capelli perduti nella penombra della casa mentre ti guardo stupito e ti bacio. Tu che torni come un vizio. Meraviglia che balli tra rami e pioggia e gridi la tua rabbia di vita. La morte, il suo volto e improvviso la notte ai tuoi occhi.
Eppure io non capivo il gesto del capo,
- piegandosi piano al raggio di sole
stanco di penombra ammuffita -
che chiedeva ragione di silenzi improvvisi,
di occhi smarriti
che cercavano altri sguardi,
un segno di vita
che a te lentamente mancava.
E quando ballavi scomposta
tra alberi erosi dal vento
mentre pioggia inattesa bagnava i tuoi resti,
ancora mi fermavo stupito
- e ridevo.
Parole - che tu non volevi sentire -
il mio unico dono,
oppio che stordiva la mente
di te che gridavi,
che chiedevi la mano di me
- misero arbusto a cui ti attaccavi
mentre il giorno moriva -
che chiedevo la vita.
Ma qui non c’è elegia che tenga. È solo che passano gli anni e posso parlare. Perché di tutto alla fine riusciamo a parlare, per fortuna. Anche di ciò che ci ha annichilito. È che d’improvviso mi manchi, mentre cerco le tue ceneri stanche tra questi visi anonimi in mezzo a cui giro a vuoto nella ricerca disperata di ciò che era. Ma cos’era, cos’è?
Sì, sì, lo confesso, non è te che ricerco guardando nomi e lumini tra il caldo che in-ghiotte ogni odore, ogni speranza che sia fresco questo giorno, la penombra di te smarrita nell’oggi... Sì, è vero, non è il presente ma nemmeno il ricordo di ieri che scavo tra volti stranieri, nomi, vite, speranze deluse («sarai sempre nei nostri cuori»). Ma dove sono finiti tutti quei volti? Solo le parole che vivevo, la radice del sorriso nascosto di te, a cui ancora tendo anelante la vita perduta... Un urto, qualcosa che brucia nel sangue, il freddo che assale. Ma qui è un’altra vita, un altro luogo.
D’accordo, passo a passo, anche se non rispondi ed io non chiamo, nel vuoto, il ru-more come un cancro che corrode, e rode, rode il cuore e più niente rimane, se non l’errore, la paura. Odi? Sì, è così, il perdersi tra queste tombe, dove non ci sei, oramai naufragata nell’abisso del cuore.
E trovo: te, sgraziato stupore, che mi cammini accanto e mi rechi ancora un sorriso e un rimprovero, e mi chiedi di essere ora, infine, adulto, senza più infingimenti, e mi strappi ancora di bocca timide parole d’amore, dagli occhi un pianto che vorrei tenero, dal cuore il desiderio di tranquillità. Porti via, intanto, gli altri visi che compongono il mosaico del tuo volto: quelli sottili e attenti che chiedevano parole e cuore o solo un maestro, un compagno, un amico; quelli luminosi ma segnati dal tempo, che chiedevano un ultimo soffio di vita; quelli ridenti o pallidi, solcati dal pianto, che chiedevano spiegazione del silenzio e cercavano solo risposte; quelli rossi di desiderio; quelli in cui c’era solo una domanda; quelli muti… Di tutti, oggi, sei tu il senso e la risposta. Questo mi ripeto ostinatamente. Poi, però, mi accorgo che la sintesi è solo mia, come sempre. E che questo è consolatorio, perché è un modo per illudermi che ogni tessera amorosa componga un disegno finale. E se invece ogni storia che ho vissuto fosse una possibilità esperita solo in parte, e di cui non saprò mai la conclusione? E perché avverto il bisogno di una sintesi finale, di un volto che ricapitoli tutti i volti? Ho amato volti diversi, sono stato molti io diversi. Ora abito un volto, sono quest’io. Domani non so:
Dal vertice dei monti mi lancio
nel lago leggero dei tuoi occhi,
al vento confidando,
che è amico degli amanti, e alle ali
d’un cuore rinnovato dal tuo sguardo.
Da tronchi inceneriti docile
m’affido ad altre leggi.
E se la morte avrà il tuo volto
io benedirò cadendo.
Alla fine mi chiedo a chi ho parlato. A tutti i “tu” (al TU) della mia memoria o della mia speranza? O solo a me stesso o ai fantasmi che custodisco geloso?
«Ripeness is all». Un’altra voce (davvero altra, stavolta) ripete da giorni lontani. Ma tu non ci sei…
Questo "esperimento" nacque all'interno dell'esperienza di "Soglie", webzine creata da me, Luca Rando, Enzo Pellegrini, Maria Domenica Savoia e Nunzio Castaldi. Io e Luca provammo a scrivere a partire dai testi dell'altro... Attribuimmo l'opera a Michael Sendivogius, alchimista.
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