Bene
ha fatto l’onorevole Giovanni Zarro nella sua rubrica di ieri a rimarcare come
il referendum del 4 dicembre vada inquadrato in un’ottica europea. Sarebbe
pericoloso, scrive, pensarlo come una vicenda che riguarda solo l’Italia,
stante l’integrazione sempre più spinta e, soprattutto, la delega all’Unione su
grandi questioni. La conclusione di Zarro è che solo il Sì garantisca la
prosecuzione della spinta riformatrice che “piace” all’Europa. Se dovesse
vincere il No, al contrario, Grillo diventerebbe il «monarca d’Italia».
Proviamo
a chiederci, sulla scorta di queste riflessioni, due cose.
La
prima: davvero vogliamo che sia l’Europa a continuare la sua opera di
“stabilizzazione” e “contenimento”, come sostiene Zarro? Questa Europa che è
parsa tutelare soprattutto gli interessi dei grandi potentati economici,
l’Europa “delle banche”, se volessimo usare una semplificazione (ma efficace)
dei media? E se, dunque, questo referendum non fossa la prima vera, seria
occasione per mettere in discussione un modello “carolingio” che ha fatto
dell’euro una moneta franco-tedesca e ha drenato capitali dai paesi
mediterranei a quelli del centro-nord, come dimostrato da Emiliano Brancaccio
da diversi anni? L’onorevole Zarro ci dà il destro per ribadire che il No del 4
dicembre sarà non contro l’Europa ma contro questa
Europa che non ci piace, che ha prodotto (o amplificato) le povertà e nessun
beneficio ha portato all’economia italiana. Lo vogliamo dire con le autorevoli
parole di Gustavo Zagrebelsky: «Noi
diciamo che dovrebbe essere questa l’ora di una riscossa democratica
per liberarci dalle costrizioni della finanza e della speculazione
finanziaria che impone riforme come le vostre, riforme che pesano
sui più deboli per garantire gli interessi dei più forti: l’ora per riprendere
seriamente, e con largo coinvolgimento democratico, il discorso
sull’Unione europea come federazione di popoli. A chi dice “ce lo
chiede l’Europa”, poniamo a nostra volta la domanda: qual è l’Europa
alla quale volete dare risposte?».
La seconda: il rischio di un Grillo «monarca
d’Italia». Da questa notazione emerge la “cattiva coscienza” dei riformatori
nostrani, tripla addirittura: 1) da una parte si riconosce come il “combinato
disposto” abbia creato un monstrum
(nella eccezione corrente e in quella etimologica), con il premio di
maggioranza sproporzionato che falsa completamente la rappresentanza popolare
(chiunque ne benefici nelle elezioni del 2018); 2) parlando di Grillo, che non
ha cariche e non ne avrà mai, si riconosce implicitamente che il sistema che
produce l’Italicum dà enorme peso di scelta dei candidati a chi detiene le leve
dei soggetti politici (partiti o movimenti che siano); 3) si accusa di personalizzare
la campagna elettorale dimenticando non solo che Renzi è stato il primo a farlo
(«È sacrosanto non solo
che il governo vada a casa ma che io consideri terminata la mia esperienza
politica, marzo 2016), ma che a vederla come una questione “personale” sono
proprio gli esponenti del PD. Insomma, la paura che sempre di più (soprattutto
ora che i bookmaker hanno ritoccato al ribasso le quote
del "no", da 1,73 a 1,67, mentre il "sì", da quota 2,00 a
2,10, e tutti i sondaggi danno per stabili i 4 punti percentuali di distacco
tra il No e il Sì) attanaglia il partito di governo è che il 4 dicembre possa
essere un “dies Alliensis”, un giorno sciagurato, una sconfitta il cui
“utilizzatore finale” sia il “barbaro” Grillo con la sua orda “ignorante e
fascista”. Ecco la personalizzazione condotta al suo parossismo. Moltissimi
militanti del PD non voteranno per il Sì ad una riforma che per lo più ignorano
ma contro il loro spauracchio. Per altro la sconfitta del 4 dicembre potrebbe
far cadere in un devastante effetto domino la spinta riformatrice, il governo e
il PD stesso. Marco Revelli nel suo ultimo, lucidissimo saggio (almeno per ciò
che pertiene il renzismo...) Dentro e
contro. Quando il populismo è di governo, mostra come Renzi sia come un
giocatore di poker, costretto a rilanciare continuamente la posta a ogni
mano perduta. Egli ha creato un rapporto
verticale, si è voluto “uomo solo al comando”. Ciò che risulta sconcertante
(per un attimo dismetto gli abiti dell’attore politico e indosso quelli dell’osservatore)
è come un intero gruppo dirigente, anche locale, si sia legato mani e piedi a
questa “avventura” (mai termine fu più appropriata). Simul
stabunt vel simul cadent?
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