Grazie,
come sempre, a chi mi ha voluto qui stasera all’interno di un confronto
stimolante su una questione che mi appassiona.
Sono
cresciuto all’interno di una famiglia in cui la pratica del volontariato era
una scelta di vita. Mia madre e mia sorella erano “vincenziane”, e sin da
piccolo ho assimilato una visione del cristianesimo fortemente improntata alle
tematiche sociali. In particolare, mi è stata inculcata, attraverso l’esempio,
l’immagine del povero e del bisognoso come “imago Christi”. Per questo motivo,
lo confesso, ancor oggi, ogni qual volta vedo una persona che, comunque la si
veda, sta peggio di me, avverto un oscuro senso di colpa e il bisogno di
aiutarla in qualunque maniera. Il “pauperismo” è una vocazione, lo confesso. E
i modelli che ad esso si ispirano (penso all’ex Presidente dell’Uruguay, Pepe Mujica mi affascinano). Lo sottolineo semplicemente perché ritengo fondamentale
l’esempio che noi adulti dobbiamo dare a ragazzi o bambini abituati al lusso e
al benessere. Sapete, oramai, avendomi invitato spesso, che ho l’abitudine di
radicare quanto dico sempre nella mia esperienza biografica. Non esistono
ortodossie (o, se esistono, non mi interessano). Esistono ortoprassi.
Il
libro dei Proverbi dice della persona (in questo caso una donna) giusta:
Apre
le sue mani al misero,
stende
la mano al povero.
Francesco
De Gregori, in una bellissima, recente canzone:
Qualcuno sta aspettando
all'uscita della chiesa.
Benedici il suo cappello vuoto,
la sua lunga attesa.
È una vita che si affanna
e cerca e ruba.
Illumina il suo tempo,
insegnagli la strada.
Che c’entra questo con
Gregoire, con il tema di questo incontro?
Ho letto la sue note autobiografiche, e mi ha colpito come nella sua vita si ripeta uno schema che
si ritrova in altre grandi esperienze biografiche. Potrei definirlo perdizione e
rinascita “nello Spirito”. Insomma, nella vita di Gregoire c’è stato l’incontro
folgorante con un’energia benefica che normalmente chiamiamo Dio, e che
descriviamo attraverso esperienze culturali diverse. Nel suo caso tale forma
culturale è il cristianesimo che ha una specificità che la rende se non diversa
sicuramente originale rispetto ad altre esperienze spirituali analoghe.
Per spiegarlo, devo fare
una breve digressione sul cristianesimo e sul Gesù storico, che è un tema
centrale nelle poche ore di studio che mi rimangano al netto dell’insegnamento
e, ora, dell’attività politica. Nel cristianesimo storico il povero, il malato,
l’escluso sono sempre state figure centrali, immagini di Cristo, almeno fino
alla riforma luterana e calvinista, che modificano radicalmente l’atteggiamento
nei confronti della povertà. Se andiamo a quel mistero complesso che è il Gesù “storico” tali figure diventano ancora più centrali. Secondo storici come Mauro
Pesce l’ebreo Gesù, figlio di Giuseppe, nato a Nazareth, era un predicatore
contadino che annunziava l’imminenza del Regno di Dio sulla terra e, non come
figlio di Dio (se non in senso metaforico), ma come suo emissario, esercitava
poteri come quello della guarigione, che erano manifestazione tangibile della
potenza del Dio che stava venendo. Il Gesù taumaturgo, guaritore, esorcista,
secondo Mauro Pesce riteneva che «la facoltà che pensava di
possedere fosse un qualcosa che egli stesso riteneva non originato
da sé», ma proveniente direttamente da Dio.
Insomma, anche se so che sconcerterò i più presenti in sala,
io ritengo che se non c’è un canale di comunicazione, articolato culturalmente,
con ciò che per convenzione chiameremo “Dio” sia assolutamente difficile
portare “salute”, termine che, non a caso, nella lingua latina indica tanto la
salute propriamente detta quanto la “salvezza” in senso spirituale. È possibile
scindere questi due aspetti? Nelle note autobiografiche di Gregoire mi ha
colpito l’ossessivo ripetere che, se Cristo si manifesta nei malati, nei
derelitti, allora è necessario agire per loro, secondo quanto insegnato da Gesù
stesso nel centro della sua “lieta novella”, secondo Ivan Illich, cioè la
parabola del buon Samaritano, che è appunto esaltazione di ortoprassi, non di
ortodossie. Bonhoeffer nella sua maestosa Etica
scrive che il Cristo è l’essere-per-l’altro.
Esiste un circolo in cui è impossibile discernere il punto
iniziale, una “dinamica”: incontrare l’altro significa incontrare l’Altro,
quando si incontra l’Altro non è possibile non vederlo nell’altro...
Ma che fare quando si entra in questa dinamica? Quando un
accadimento improvviso ci “impone” imperativamente e senza possibilità di
replica di agire per l’altro? Io credo che qui si dischiuda la questione più
interessante.
Permettetemi un altro inciso autobiografico. Quando mia
sorella, adolescente, diceva in famiglia che il suo sogno era andare a fare volontariato
in Africa, mia madre, che allora non capivo, che consideravo una
piccolo-borghese intimorita da scelte troppo radicale, le diceva: la tua Africa
è qui... Ecco, io credo, molto anni dopo, di aver capito che mia madre aveva
ragione. È meraviglioso che ci siano persone come Giacomo che investano energie
e risorse per iniziative come quelle descritte. Che Dio li benedica! Ma
ciascuno di noi, qui ed ora, può entrare in quell’essere-per-l’altro senza
bisogno di cambiare habitat. Ovviamente questo ci dice anche qualcosa di
drammatico, che preferiamo non vedere: che la malattia, la povertà,
l’esclusione sono anche in una piccola e apparentemente tranquilla città del
Sud.
A Benevento esiste un disagio spaventoso che necessita di nuovi “guaritori” che annunziano il
regno di Dio sulla terra.
Lo so che vi può sembrare una forzatura fuori luogo, ma io ho
il bisogno di pensare la mia vita come un tutto coerente. Ebbene, io ritengo
che oggi, in una città come Benevento, lo stesso impegno politico debba
scaturire da questa radice, come sta ripetendo più volte il vescovo Felice
Accrocca. E lo dico, badate bene, da “diversamente credente”, non da cristiano
né tanto meno da cattolico. Questa città, insomma, cambierà quanto tante
persone, non necessariamente legate tra loro, scopriranno, ascolteranno ἐν τῷ κρυπτῷ, nel "segreto", nel silenzio del cuore, un imperativo categorico e
agiranno di conseguenza, ciascuno prima di tutto nella sua missione specifica
e, pian piano, ampliando la sfera del della cura dell’altro, in un tempo che
conosce solo la cura ossessiva del sé, la deriva egolatrica, l’autismo corale.
Permettetemi, ancora una volta, di chiudere con dei versi
mie, che cercano di dire, con parole sghembe ma sincere tutto questo.
La poesia si chiama Emmaus, ed evoca un celebre episodio
descritto nel Vangelo di Luca... L’agnizione di Gesù resa, per altro,
celeberrima in opere pittoriche come quelle di Caravaggio o Rembrandt.
Sei tu che cammini al mio fianco
nell’arso passaggio di aprile?
Ma come saperlo davvero?
E se fossi soltanto un miraggio
del cuore assediato?
Poi, stanco, seduto alla mensa,
quando le ombre inghiottono i sogni,
rammento parole sgorgate da labbra
di salda dolcezza.
E, dunque,
prendo il pane e lo spezzo,
guardando il compagno di viaggio
inconsapevole, prego,
e riconosco il tuo volto.
Intervento tenuto il 14 novembre 2016 presso l'Ordine dei Medici.
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