domenica 8 maggio 2016

San Cumano sono io


Il 1 maggio l’ho trascorso con mia sorella, a San Cumano. Tornano spesso Rosa e Anna, soprattutto da quando Maria, la nostra anziana tata, non è più autonoma.
La casa, che nostra madre, già malata, sognò come dimora di quattro famiglie, è il “centro” dove riusciamo a ritrovarci, loro oramai vivendo a Roma, io rimasto, con le radici sprofondate nel suolo, nella mia città d’origine.
Ci trasferimmo nel 1984 in quella casa. All’epoca non c’erano moltissime case in una piana ora prediletta dai runner o dalle famiglie che cercano aria pulita.
Dopo pranzo ho fatto due passi nel cortile. E mi sono accorto, come una folgorazione, di un anniversario imminente: davanti l’ingresso principale una mano che non saprò mai di chi sia incise rudimentalmente una data per indicare la fine di alcuni lavori che rendessero quello che era diventato un rudere almeno abitabile. Era il 15 maggio 1976.

Quello fu l’anno in cui, per la prima volta, trascorremmo l’estate in campagna. E fino all’84, con faticosissimi traslochi, alternammo inverni cittadini ed estati campestri.
Fra pochi giorni, dunque, saranno trascorsi quarant’anni da quella data incisa imperitura nel cemento.
San Cumano è  la mia dimora. Ed è lo specchio della mia anima. Sono io quella struttura chiusa eppure aperta alla vastità delle terre. Sono io il pezzo di cielo stellato che si può contemplare dal cortile. Sono io il legame misterioso fra il pozzo, le sue acque primordiali, e il crocifisso che campeggia sulla piccola chiesa oramai diroccata dove mia madre volle celebrare le nozze d’argento e mia sorella Rosa si sposò. Sono io l’antichità delle pietre romane innestate nelle pareti ma anche l’incompiutezza irrimediabile dell’insieme.
San Cumano sono io.
Solo lì mi rigenero. Non solo perché divenni ciò che sono nell’essere figlio, fratello, marito. Ma anche perché solo lì rinasco ogni estate, purificando l’anima da un eccesso di relazioni bellissime ma faticose. Lì riesco a scendere nelle profondità più recondite di me stesso, nei miei “inferi” benigni, e risalirne risanato, di nuovo fiducioso nella vita e nel potente spirito che la nutre. Se non avessi quel luogo di salute mi spegnerei giorno dopo giorno diventando un guscio vuoto e sterile.
E per questo prego che il Signore dei trapassi, quando sarà giunta la mia ora, conceda che mi colga lì: seduto su una sdraio, nel campo dove Rosaria pianta rose e lavanda, con un libro accanto, i piedi nudi sulla terra, una mano che sfiora un filo d’erba succhiandone per l’ultima volta i suoi umori vitali, guardando mia moglie e i suoi capelli bianchi mentre stende i panni. E ascoltando la musica del vento negli alberi alle mie spalle mentre la luce del sole svanisce. 

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