Alfred North Whitehead
ha affermato che «tutta la storia della filosofia occidentale non è che una
serie di note a margine su Platone». La venerazione che circonda il più celebre
degli allievi di Socrate impedisce, ha impedito (con rarissime eccezioni) di
criticarne il pensiero. Prendere la filosofia sul serio significa anche avere
l’ardire di mettere in discussione il pensiero dei giganti proprio
individuandone le responsabilità in relazione alla storia nella sua interezza,
non solo quella della cultura.
Hannah Arendt, la più
grande pensatrice politica del Novecento, la cui opera ancora attende di
dispiegare pienamente i suoi effetti liberatori, ha dedicato molte celebri
pagine a Platone. La responsabilità maggiore dell’ateniese è quella di aver
pensato sempre a partire dall’Uno (quindi in termini metafisici), dimenticando
che la vita umana si fonda sulla pluralità, sui Molti. Anche in campo politico
Platone ha applicato il suo schema “ideale”, pensando la sfera delle relazioni nella
polis sul modello di quello del pastore e del gregge. Pastore è colui che
detiene “la verità” ed è legittimato a guidare coloro che non la possiedono.
Alla base di questa scelta ci sarebbe un evento traumatico. La filosofia
politica, scrive la Arendt, «è provocata da un evento, un evento politico: il
processo contro Socrate, nato da un conflitto tra la polis e la filosofia
[...]. La nostra tradizione di pensiero politico ebbe inizio quando la morte di
Socrate diede motivo a Platone di perdere la fiducia nella polis, e al contempo
di dubitare di alcuni fondamenti della dottrina di Socrate. Il fatto che
Socrate non fosse stato capace di convincere i suoi giudici della sua innocenza
e dei suoi meriti, che per la parte più giovane e migliore dei cittadini di
Atene erano stati così evidenti, alimentò i dubbi di Platone sulla validità
della persuasiva. Dover assistere allo spettacolo di Socrate costretto a
esporre la sua doxa alle irresponsabili opinioni degli ateniesi, e vederlo
sconfitto da una maggioranza di voti, indusse Platone a disprezzare le opinioni
e a esigere criteri assoluti con i quali giudicare gli atti umani e conferire
alle azioni umane un certo grado di affidabilità». Questo, dunque, spiega
l’originaria inimicizia fra filosofia e politica, una delle grandi catastrofi
dell’Occidente, secondo la pensatrice ebreo-tedesca.
A mio avviso, il
pensiero platonico segretamente ha nutrito tutte le concezioni politiche
sviluppatesi nel corso dei secoli, tutte fondate da una parte sulla “reductio
ad Unum” della pluralità che gli uomini ontologicamente sono, dall’altra sulla
delega del potere al detentore del sapere ritenuto di volta in volta veritativo
(dai filosofi ai conoscitori delle leggi storiche ai “tecnici”). Insomma, il
platonismo tuttora è la filosofia politica dominante perché si accetta
pacificamente che il politico debba essere uno specialista, delegato dagli
altri affinché deliberi e conduca la polis, lo Stato.
Tra il XX e il XXI
secolo è maturata una svolta che potrebbe, dopo più di duemila anni, consentire
il superamento del paradigma “platonico” della politica e il recupero della
“pluralità” umana. La lettura, ad esempio, di Reti di indignazione e di speranza di Manuel Castells consente di
capire come la terza rivoluzione industriale e la nascita della “Rete” possa
modificare radicalmente la teoria e la pratica politica, e come in realtà la
cosa stia già accadendo.
Stefano Rodotà in Iperdemocrazia
scrive: «È indubbio che siamo di fronte a una vera crisi delle forme
tradizionali della democrazia rappresentativa che può tradursi (o già si
traduce) nel rifiuto delle istituzioni da parte di molti cittadini. Poiché una
possibile via d’uscita viene indicata in una integrazione tra forme della
democrazia rappresentativa e forme della democrazia diretta, diventa giusto
chiedersi se la tecnologia dell’informazione – rendendo tecnicamente possibile
una associazione più immediata dei cittadini alle fasi della proposta, della
decisione e del controllo – possa aiutarci a inventare la democrazia del XXI
secolo».
Dunque, innanzi a noi,
ma in saldo legame con alcune esperienze del passato, si apre la strada di un
superamento del platonismo politico. La polis, che valorizzava la pluralità
degli uomini e dei loro punti di vista, ma anche le assemblee che prepararono la
rivoluzione americana, i club del 1789 o i soviet del 1905 e del 1917, si
ripresentano a noi con le loro potenzialità ancora inesperite. Sta finendo il
tempo della delega, che già Rousseau irrideva come forma solo apparente di
libertà “per un giorno”.
Può iniziare il tempo in cui, come auspicava la
Arendt, l’attività politica, fondata sull’azione e sul discorso, non venga
ridotta al rango di “necessità” da delegare, per dedicarsi a presunte attività
superiori (che siano esse il lavoro o la contemplazione poco conta) ma torni ad
essere l’attività “umanizzante” per eccellenza, che ha il suo fine in sé,
nell’essere manifestazione di aspetti dell’umano che altrimenti resterebbero
inespressi (esattamente come l’arte) e non “strumento” atto a risolvere problemi.
Solo l’azione “politica” può rendere pienamente umana la vita nel suo splendore
tutto mondano.
(Apparso in «Economia & Diritto» nel maggio 2016)
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