Mi sto rimettendo lentamente da
un’influenza “complessa”, partita probabilmente da una stanchezza di fondo su
cui ha attecchito il virus portato da mia figlia a casa. Venerdì sono dovuto
fuggire da scuola per trascorrere in deliquio giorno e notte seguente a letto.
Stanotte la tosse mi impediva di rimanere a letto. Per evitare di svegliare
moglie e figlia, mi sono accomodato in salotto, con gli occhi ben aperti. Mi
capita raramente, ma se accade non c’è speranza che prenda sonno fino al
mattino. In questi casi, due sole saluti: i libri e i film. Ho optato per il
mio multimedia, preso per i cartoni di Caterina, ma riempitosi anche dei film
perduti a cinema in questi anni. Scelta ardua… Alla fine della notte avrei
visto anche il lisergico Paranoid Park di Van Sant e la prima
parte de I Vicerè di Faenza. Il pezzo forte è stato, però,
L’alba del pianeta delle scimmie. Il film è appassionante, uno di quelli che
vorresti continuassero per ore e ore, e affronta un tema per me fondamentale,
il rapporto dell’uomo con gli altri esseri viventi e sofferenti, ponendo
quesiti importanti, come spesso capita ai film di “fantascienza”, problemi di
tipo filosofico. Ma a colpirmi è stata la coincidenza che nel film, nella notte
tra il 18 e il 19 marzo, festa del papà, ci fosse una intensa relazione tra il
protagonista e suo padre, ammalato di Alzheimer. Anzi, tutte le sue scoperte,
destinate a trasformare radicalmente la vita sulla terra, nascono dal desiderio
di trovare una cura per questa terribile malattia. Ho rivisto, dunque, scene
vissute con mio padre, in particolare la sua ossessione per le macchine.
[Una volta, per accontentarlo, in una
fase avanzata della malattia, lo feci guidare su un rettilineo che porta a San
Cumano… Restituii in parte ciò che mi aveva dato, affidandomi le prime macchine
già a sedici anni, per le strade della campagna, quando non era ancora stata
presa d’assalto dalla ricca borghesia cittadina, che di lì a poco l’avrebbe
riempita di ville].
Che strana coincidenza, pensavo ieri
sera. È destino che continui a tornare, a ondate successive, sulle mie
relazioni fondanti. C’è ancora tanto da capire, evidentemente, malgrado il mio
“giudizio” sia sempre più netto e negativo sull’uomo che fu mio padre. Eppure,
come non riconoscergli che quelle certezze che rendono possibile una vita
sensata, che un bambino succhia dai genitori, una mescolanza di calore,
tenerezza, sicurezza, lui me le ha date, negli anni decisivi? Quest’anno
compirò quarantacinque anni. Quando lui aveva questa età, io ne avevo undici…
Se lo incontrassi ora, come un estraneo, ne sarei certamente irritato, per le
idee qualunquiste dal punto di vista politico, per la mistica dell’impresa (che
l’ha condotto alla rovina, insieme al suo carattere), per il suo carattere
rissoso. Ma io ricordo il senso di protezione che mi ispirava quando il mondo
mi appariva gravido di pericoli innominabili. Ecco: questa sicurezza che mi ha
trasmesso, l’idea che ci fosse, comunque, qualcuno che mi avrebbe protetto,
unita alla tenerezza accogliente di mia madre (e della sua vicaria, Maria),
hanno costruito in me un nucleo resistente, che mi ha permesso, paradossalmente
di resistere alle stesse furiose onde che i suoi disastri successivi avrebbero
scagliato contro di me e le mie sorelle, rischiando di spazzarci via.
C’è un momento preciso in cui io sono
“divenuto” padre, dismettendo per sempre la mia “filialità” (se ciò è
possibile)? Un giorno, lo ricordo bene, lo accompagnai all’Ospedale Civile per
la visita di controllo, che serviva a tenerlo all’interno di un programma di
assistenza per gli ammalati di Alzheimer (i farmaci sono costosissimi). Era un
periodo di alterna consapevolezza, pochi sprazzi di lucidità e tanti frammenti
sparsi, rovine senza costrutto. Gli dissi: «Papà, lo sai che sta per nascere
Caterina?» Lui, come faceva sin dalla nostra infanzia, disse che mi doveva dire
una cosa nell’orecchio. Accostò la bocca e mi diede un bacio. Credo che questo
sia stato il mio congedo da una condizione durata più a lungo del dovuto.
Cresciuto tardi ma in fretta, per fronteggiare l’avversa fortuna, divenuto
uomo, padre di mio padre e, infine, padre vero, finalmente, individuo
responsabile. Non più beneficiario di sicurezza e tenerezza ma dispensatore,
consapevole di quanto arduo sia il lavoro di ostentare certezze non avendone
alcuna perché è necessario costruire quel nucleo di forza ed energia con cui
Caterina dovrà affrontare la vita, che non so quali pericoli, anche a causa
mia, potrà portarle. Siamo a metà del faticoso transito, credo. Con tanta
adolescenza dentro che vorrebbe esplodere e ridere e ubriacarsi, con tante vite
che reclamano di essere esplorate, tanti desideri che vorrebbero essere
esauditi, e l’uomo, che anche mio padre mi ha insegnato ad essere, il “padre”,
che sorride, con una piega amara, e resta sul molo, «a guardare lo sfondo del
mare più in là».
Per la vita che mi hai dato, per ogni
sicurezza, ogni carezza. E anche per ogni tua assenza, per ogni fuga, per ogni
spavento. E, infine, per la tenerezza che ho potuto, se ho saputo, ricambiare,
senza che tu, perduto nel male, sapessi. Grazie. E se qualche filo della mia
delusione t’ha tenuto legato, ora riposa in pace, nel giorno in cui noi padri
celebriamo il nostro esistere, il nostro resistere.





