lunedì 19 marzo 2012

padre

Mi sto rimettendo lentamente da un’influenza “complessa”, partita probabilmente da una stanchezza di fondo su cui ha attecchito il virus portato da mia figlia a casa. Venerdì sono dovuto fuggire da scuola per trascorrere in deliquio giorno e notte seguente a letto. Stanotte la tosse mi impediva di rimanere a letto. Per evitare di svegliare moglie e figlia, mi sono accomodato in salotto, con gli occhi ben aperti. Mi capita raramente, ma se accade non c’è speranza che prenda sonno fino al mattino. In questi casi, due sole saluti: i libri e i film. Ho optato per il mio multimedia, preso per i cartoni di Caterina, ma riempitosi anche dei film perduti a cinema in questi anni. Scelta ardua… Alla fine della notte avrei visto anche il lisergico Paranoid Park di Van Sant e la prima parte de I Vicerè di Faenza. Il pezzo forte è stato, però, L’alba del pianeta delle scimmie. Il film è appassionante, uno di quelli che vorresti continuassero per ore e ore, e affronta un tema per me fondamentale, il rapporto dell’uomo con gli altri esseri viventi e sofferenti, ponendo quesiti importanti, come spesso capita ai film di “fantascienza”, problemi di tipo filosofico. Ma a colpirmi è stata la coincidenza che nel film, nella notte tra il 18 e il 19 marzo, festa del papà, ci fosse una intensa relazione tra il protagonista e suo padre, ammalato di Alzheimer. Anzi, tutte le sue scoperte, destinate a trasformare radicalmente la vita sulla terra, nascono dal desiderio di trovare una cura per questa terribile malattia. Ho rivisto, dunque, scene vissute con mio padre, in particolare la sua ossessione per le macchine.

[Una volta, per accontentarlo, in una fase avanzata della malattia, lo feci guidare su un rettilineo che porta a San Cumano… Restituii in parte ciò che mi aveva dato, affidandomi le prime macchine già a sedici anni, per le strade della campagna, quando non era ancora stata presa d’assalto dalla ricca borghesia cittadina, che di lì a poco l’avrebbe riempita di ville].

Che strana coincidenza, pensavo ieri sera. È destino che continui a tornare, a ondate successive, sulle mie relazioni fondanti. C’è ancora tanto da capire, evidentemente, malgrado il mio “giudizio” sia sempre più netto e negativo sull’uomo che fu mio padre. Eppure, come non riconoscergli che quelle certezze che rendono possibile una vita sensata, che un bambino succhia dai genitori, una mescolanza di calore, tenerezza, sicurezza, lui me le ha date, negli anni decisivi? Quest’anno compirò quarantacinque anni. Quando lui aveva questa età, io ne avevo undici… Se lo incontrassi ora, come un estraneo, ne sarei certamente irritato, per le idee qualunquiste dal punto di vista politico, per la mistica dell’impresa (che l’ha condotto alla rovina, insieme al suo carattere), per il suo carattere rissoso. Ma io ricordo il senso di protezione che mi ispirava quando il mondo mi appariva gravido di pericoli innominabili. Ecco: questa sicurezza che mi ha trasmesso, l’idea che ci fosse, comunque, qualcuno che mi avrebbe protetto, unita alla tenerezza accogliente di mia madre (e della sua vicaria, Maria), hanno costruito in me un nucleo resistente, che mi ha permesso, paradossalmente di resistere alle stesse furiose onde che i suoi disastri successivi avrebbero scagliato contro di me e le mie sorelle, rischiando di spazzarci via.
C’è un momento preciso in cui io sono “divenuto” padre, dismettendo per sempre la mia “filialità” (se ciò è possibile)? Un giorno, lo ricordo bene, lo accompagnai all’Ospedale Civile per la visita di controllo, che serviva a tenerlo all’interno di un programma di assistenza per gli ammalati di Alzheimer (i farmaci sono costosissimi). Era un periodo di alterna consapevolezza, pochi sprazzi di lucidità e tanti frammenti sparsi, rovine senza costrutto. Gli dissi: «Papà, lo sai che sta per nascere Caterina?» Lui, come faceva sin dalla nostra infanzia, disse che mi doveva dire una cosa nell’orecchio. Accostò la bocca e mi diede un bacio. Credo che questo sia stato il mio congedo da una condizione durata più a lungo del dovuto. Cresciuto tardi ma in fretta, per fronteggiare l’avversa fortuna, divenuto uomo, padre di mio padre e, infine, padre vero, finalmente, individuo responsabile. Non più beneficiario di sicurezza e tenerezza ma dispensatore, consapevole di quanto arduo sia il lavoro di ostentare certezze non avendone alcuna perché è necessario costruire quel nucleo di forza ed energia con cui Caterina dovrà affrontare la vita, che non so quali pericoli, anche a causa mia, potrà portarle. Siamo a metà del faticoso transito, credo. Con tanta adolescenza dentro che vorrebbe esplodere e ridere e ubriacarsi, con tante vite che reclamano di essere esplorate, tanti desideri che vorrebbero essere esauditi, e l’uomo, che anche mio padre mi ha insegnato ad essere, il “padre”, che sorride, con una piega amara, e resta sul molo, «a guardare lo sfondo del mare più in là».
Per la vita che mi hai dato, per ogni sicurezza, ogni carezza. E anche per ogni tua assenza, per ogni fuga, per ogni spavento. E, infine, per la tenerezza che ho potuto, se ho saputo, ricambiare, senza che tu, perduto nel male, sapessi. Grazie. E se qualche filo della mia delusione t’ha tenuto legato, ora riposa in pace, nel giorno in cui noi padri celebriamo il nostro esistere, il nostro resistere.

1 commento:

silvia giuliano ha detto...

sei riuscito a maturare mantenendo l'obiettività e il distacco dell'intellettuale dal materalismo e dalle sue espressioni,pronto a cogliere invece negli affetti familiari quanto di tenero ma anche di profondamente etico essi hanno saputo inculcarti,facendo di te quella splendida persona e quel validissimo padre che oggi sei.