domenica 11 marzo 2012

denaro


Nella mia vita, il rapporto col denaro è cambiato in maniera radicale, pur conservando una sorta di nocciolo identico. Sono cresciuto in una famiglia ricca. Mio padre era un imprenditore di successo. Ne ho scritto altrove. Ne scriverò ancora. In fondo, non facciamo che riscrivere la nostra storia in relazione ai padri e alle madri, onnipresenti. Nella prima parte della mia vita, dunque, il rapporto col denaro è stato scandito dalle fasi dell’attività imprenditoriale paterna. 

[Quando rimettevo a posto la stanza di mamma, dopo la sua scomparsa, a San Cumano – era il 1990 -, alla ricerca di tracce significative, trovai un biglietto in cui mamma dava indicazioni a noi tre figli, me e le mie due sorelle, su come risparmiare in un momento di crisi dell’azienda di papà. Doveva risalire all’incirca al 1980. A me scriveva di non spendere troppo per i miei fumetti. ]

Quando mi trasferii a Roma per l’università, ricordo che portavo sempre parecchi soldi con me. Io non ero in grado di notarlo, per me era un dato “naturale”. Per fortuna incontrai Tullio, che viveva alla Casa dello studente. Ora è un affermato giornalista. Ma lui era il mio grillo parlante. Grazie al suo sarcasmo o alle sue prediche, divenni consapevole. Può sembrare banale, ma “tradire” la propria classe, come avrei fatto in seguito, richiede una vero e proprio ribaltamento di prospettiva, che può verificarsi solo grazie ad uno sguardo “altro”. Altrimenti alcune cose sembrano naturali. Grazie a Tullio, dunque, iniziai a percepire come “colpa” la mia appartenenza di classe. Iniziai a ripensare alle differenze radicali fra la mia vita e quella, ad esempio, del mio compagno di giochi d’infanzia, Antonio, in campagna, che viveva in una casa senza bagno, con la stalla attaccata alla stanza da pranzo… Ho avuto tanti maestri nella mia vita, cui sono riconoscente. Tullio, anche se non lo sa, è stato tra questi. È stato il mio sguardo “altro” sulla vita di ricco borghese, uno sguardo, però, a differenza di quello muto di Antonio, loquace, “giudicante”. Dalla sua vicenda di “paesanotto” in cerca di riscatto (poi ampiamente raggiunto), venivo inchiodato alla mia “colpa” d’essere ricco, di non dover preoccuparmi per il mio futuro, di non dover mai chiedermi se qualcosa la potessi comprare oppure no. Nel 1991 mi sono laureato. Iniziò una drôle de guerre, in cui nulla sembrava accadere. Poi iniziai a lavorare in improbabili scuole private. Ma lo facevo quasi come passatempo. Avevo la garanzia, pur scomparsa mia madre, che nostro padre avrebbe provveduto a me fino a quando fossi diventato autonomo del tutto (le mie sorelle già lavoravano a Roma da tempo). E, per motivi che forse un giorno vorrò ripensare, decisi anche di sposarmi. Era il 1994. Pochi mesi dopo, mio padre fallì. Una catastrofe. In quel momento mi sentii, probabilmente, come i russi a Stalingrado… Ero solo. Non c’era più alcuna rete a proteggermi. Il lavoro era una cosa seria, non più un passatempo. Bisognava tirare la cinghia. Ricordo in maniera vivida la sofferenza che provavo nel non poter comprare alcuni libri. Ricordo tempi di lavoro matto e disperatissimo, tra lezioni a domicilio, scritture di tesi, scuole private, addirittura per alcuni mesi la direzione di una pagina culturale di un quotidiano napoletano… E, poi, improvvisamente, oramai quasi inattesa, la vittoria del concorso, l’immissione in ruolo, i millequattrocento euro assicurati sul conto postale… Un’altra vita. Ho conservato, però, una certa parsimonia appresa negli anni del nostro scontento, negli anni in cui guardavo i libri con desiderio. Ogni volta che compro un bene “voluttuario”, ad esempio le scarpe da calcio, sento ritornare un po’ di colpa, ma nello stesso tempo, a contraddire quel sentimento, l’orgoglio di chi ha saputo divenire adulto. La vita è stata prodiga d’insegnamenti con me. Ero il figlio viziato di una borghesia ricca. Ho attraversato una terra desolata in cui ciò che avevo imparato all'università poteva essere comprato a poco prezzo e messo al servizio di quei ragazzi a cui ero stato identico nella mia adolescenza. Non l’ho vissuto come umiliazione, ma come giusto contrappasso. La mia vita è ricolma di "catastrofi pedagogiche". Essere adulti significa, in fondo, sapere che nessuno ci metterà una pezza se non ti muovi, sapere che sei "responsabile". Ora vivo del mio stipendio, spesso arrivo al 20 del mese con cinquanta euro sul conto. Ne sono felice. E ringrazio il Signore perché, tradendo la mia classe e non provando alcun rimpianto per la Fagianella e per le settimane bianche, per le macchine di grossa cilindrata e i vestiti di marca, ho trovato la mia dimensione. E, quindi, sarò perdonato se, facendo una follia, ho preso a rate l’opera di Nietzsche dell’Adelphi, due paia di scarpini di calcetto, il megafono da prestare agli alunni per le manifestazioni, la pizza il venerdì sera, l’abbonamento Sky per vedere l’Inter.

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