martedì 9 giugno 2020

Nel groviglio degli anni Ottanta. 2. Gli anime giapponesi


L’eccellente libro di Adolfo Scotto di Luzio non si poneva come obiettivo la ricognizione delle idee, degli stili di vita, dell’immaginario che ha dominato gli anni Ottanta. Per questo, stimolato dalla lettura del libro, ho intrapreso una breve anamnesi autobiografica relativa al decennio, partendo dalla scuola.
Ora vorrei occuparmi del peso che ebbe su quella generazione la prima invasione degli anime giapponesi. Chi aveva circa dieci anni nel 1978 fu travolto da due shock: Heidi e Goldrake, con stili e temi diversissimi, riplasmarono un mondo fantastico fino ad allora abitato per lo più da Silvestro, Will Coyote (Warner Bros) e Yogi e Muttley (Hanna & Barbera), molti telefilm (Zorro, Furia, Woobinda). Avemmo tutti la percezione di qualcosa di completamente nuovo (che per molti si intrecciò all’emozione del primo televisore a colori). Personalmente, in un tempo in cui non esistevano apparecchi di registrazione, ricordo l’ansia di non voler perdere neanche un episodio, l’amore per le sigle imparate a memoria, la progettazione di tute e robot che alimentavano la passione per il disegno. Se Goldrake e Actarus restano un mito fondativo per noi italiani, anche gli altri che seguirono (da Mazinga a Jeeg Robot, da Daitarn a Gundam, che per me fu una sorta di congedo da quel mondo) ebbero un peso decisivo nella formazione del nostro immaginario. Io mi svegliavo presto la mattina per poter vedere, su Telecapri, Jeeg Robot prima di andare a scuola. Un ricordo vivido in un tempo in cui la televisione non pervadeva le giornate e il televisore aveva  una sua precisa collocazione domestica.
Provo, per la prima volta, a dare un senso a questa passione travolgente e innestarla nel quadro di una Bildung generazionale. Il dato che spicca è che si tratta di un mondo semplice dove non ci sono zone grigie tra il bene e il male, che è (nella stragrande maggioranza dei casi), letteralmente, l’Altro, l’Alieno («Va… distruggi il male e va / va… distruggi il male e va / mille armi tu hai, non arrenderti mai / perché il bene tu sei, sei con noi»)





Questa quasi assoluta mancanza di sfumature, questo “manicheismo morale”, avrebbe lasciato una traccia profonda. Credo, insomma, che la dimensione “etica” che Scotto di Luzio evoca ripetutamente nel suo libro, spesso in sotterranea contrapposizione a quella squisitamente politica delle generazioni precedenti, trovi anche in questa formazione la sua giustificazione. 
Il secondo elemento che mi pare di poter cogliere riguarda l’idea di una violenza “difensiva”. Elaborato il rifiuto della violenza offensiva (personalmente la morte di Moro fu lo spartiacque), saremmo cresciuti con l’idea che solo una guerra “partigiana” sarebbe stata legittima e “giusta”. Anche in questo caso, le marce per la pace, le icone “pacifiste” scelte a modello trovano qui un possibile antecedente. 
Il terzo elemento è quella fascinazione (mista a terrore) per lo spazio che, nel corso degli anni Ottanta, si sarebbe dispiegata pienamente, preceduta da serie televisive come Star Trek e Spazio 1999. Da questo punto di vista, mi pare che opera chiave, con la sua estetica dark, sia Capitan Harlock. Questi versi potrebbero essere un vero manifesto generazionale, una riattualizzazione del mito di Robin Hood in versione sci-fi:
Fammi rubare capitano un'avventura
Dove io son l'eroe
Che combatte accanto a te
Fammi volare capitan senza una meta
Tra i pianeti sconosciuti
Per rubare a chi ha di più.





Se faccio un salto indietro, nella mia storia (ma la so condivisa solo da un pezzo della mia generazione), colgo l’importanza del fumetto (soprattutto quello Marvel) come apertura al fantastico. E, dunque, se ne potrebbe complessivamente trarre l’impressione di una “infantilizzazione” dell’esperienza. Mi chiedo se i brividi che ancora mi danno le sigle di quei cartoni sono solo legati alla nostalgia o se in essi trovo le radici semplificate del mio agire, del mio ethos. E rispondi che, sì, «corri, ragazzo, laggiù» è ancor oggi rivolto a me… «corri in aiuto di tutta la gente, dell’umanità».





Postilla

La generazione cresciuta con i robot  ha introiettato l'idea che il rapporto con il reale fosse sempre mediato dalle macchine, che non fosse mai diretto. Esattamente come per la pornografia (cui vorrei dedicare una riflessione a parte), a differenziarci era una necessaria "distanza". Noi siamo letteralmente la prima telegenerazione, non solo per la centralità che il medium (la televisione ha avuto) ma perché tutte le nostre esperienze sono state "a distanza".



P.S.
La mia sigla preferita


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