mercoledì 24 giugno 2020

Nel groviglio degli anni Ottanta. 4. La musica



Nel suo bel libro sugli anni Ottanta Adolfo Scotto di Luzio dedica una densa pagina a Vasco Rossi, considerandolo un cantante “generazionale”, anche in virtù della sua provenienza “provinciale”, anche se questo significava che, in qualche modo, l’americanizzazione penetrava nelle profondità del Paese, e non più solo nei grandi centri.
Ricordo un me stesso buffo che, deodorante stick a simulare un microfono, davanti allo specchio e profittando dell’assenza delle mie pestifere sorelle, nella loro stanza, dove c’era lo stereo, oggetto dei desideri con giradischi, mangianastri e radio, cantava Vita spericolata (1983), probabilmente ricevuta in 45 giri per qualche festa organizzata a casa.
Se, però, devo suggerire un cantante generazionale, per motivi non solo squisitamente soggettivi di gusto, farei il nome di Franco Battiato.
Proveniente da un’esperienza interessante che aveva mescolato studi “alti” ed esperimenti pop, Battiato nel 1979 aveva pubblicato L’era del cinghiale bianco e l’anno successivo (all’età di 35 anni) Patriots. Si tratta di due dischi importanti ma profondamente incompiuti, con oscillazioni che vanno dal capolavoro al divertissement. Nel 1981, invece, pubblica una pietra miliare nella storia della musica tout court, a parere di chi scrive (che pure non avrebbe la competenza musicale per farlo e ne è ben consapevole) il più importante album della storia della musica italiana, cioè La voce del padrone. Opera perfetta, caratterizzata da una compattezza di temi e stile musicale mai più eguagliata neanche dal suo creatore, La voce del padrone è, si magna licet (componere maioribus), La terra desolata della mia generazione (così come Fisiognomica ne saranno i Quattro quartetti). Avrei difficoltà ad indicare un’opera musicale che meglio incarni il concetto di “post-moderno” (sebbene Battiato rivendichi spesso tratti “pre-moderni” che sono parte del suo fascino). Lontanissima dalla koinè dell’impegno civile ma anche dai temi abituali del grande cantautorato italiano, quasi tutto filiato da Bob Dylan (e dagli chansonneur francesi), la tessitura musicale dell’album distilla il meglio degli esperimenti seguiti al punk, la cosiddetta new-wave (citata in Bandiera bianca), senza mai, però, scadere in quell’effetto di suono “sintetico” (che per esempio ritroviamo in Orizzonti perduti).
Sebbene il mio «razzismo» (cit.) all’inizio mi facesse guardare con diffidenza un album che polverizzò tutti i record di vendita, forse con un anno di ritardo divenne un’esperienza totalizzante. Credo che sia l’unico di cui conosca tutte le canzoni a memoria. E ancora oggi quando lo riascolto, come in questo momento, rimango sconcertato per la perfezione degli arrangiamenti, per l’uso originalissimo delle percussioni e, in genere (provate a riascoltare la parte finale di Sentimento nuevo), della sezione ritmica, per i cori, per gli inserti organistici (ascoltate la chiusa de Gli uccelli), della chitarra che stria Bandiera bianca.
Perché ho paragonato La voce del padrone al capolavoro poetico di T.S. Eliot? Perché mi pare il segno, nel contempo, il racconto di una sconfitta ma anche l’apertura ad una ricerca che sarebbe culminata, a mio avviso, in Fisiognomica, in una spiritualità dalle più molteplici suggestioni (dalla mistica sufi a Gurdieff). E nei testi, che apparvero assolutamente irriducibili a qualunque modello, capaci di tenere insieme la cultura alta e lacerti solo apparentemente casuali di cultura pop, c’era di tutto: dall’autobiografia sognante di Cuccuruccù al breve racconto tardo-esistenziale di Summer on a solitary beach, dal lirismo misticheggiante de Gli uccelli all’inno coribantico di Sentimento nuevo. Bandiera bianca è un vero e proprio manifesto che fa i conti, in maniera sprezzante, con tutto il mondo che ci girava intorno, dichiarando la fine di ogni possibile impegno. Su tutto domina il sentimento (gnostico?) di un tradimento: «Siamo figli delle stelle e pronipoti di sua maestà il denaro». Forse era chiaro per chi lo conosceva già, per molti lo fu nel prosieguo, ma Battiato è uno spirituale. E credo che questa sua eliotiana ricerca di senso si manifesti pienamente in Centro di gravità permanente e in Segnali di vita, dove emerge la fascinazione cosmica che si sarebbe poi dispiegata in Mondi lontanissimi.
Ho amato moltissimo anche gli album successivi, che pure appaiono incompiuti per molti versi. Mi è piaciuta l’apocalissi annunziata in L’arca di Noè, l’esistenzialismo pieno di autobiografia di Mondi lontanissimi. Il periodo aureo di questo Maestro, a cui serberò eterna gratitudine (commossa in questo periodo in cui lo sappiamo malato e silente), si chiude, al volgere del decennio, con Fisiognomica, dove predomina un sinfonismo talvolta sublime (penso a Oceano di silenzio). Quando cerco pace torno a quelle canzoni ognuna delle quali è divenuta una mia personalissima preghiera. Mi ha indicato la possibilità di una spiritualità libera, capace di attingere a molte tradizioni senza mai diventare melassa new-age. Anche questa credo possa essere definita una cifra generazionale.
Di lì a poco l’incontro con Sgalambro avrebbe portato Battiato altrove, pur producendo cose talvolta bellissime, ma diverse per scelte musicali (impareggiabile resta l’eleganza degli arrangiamenti nelle cover dei Fleurs) e, soprattutto, contenutistiche.
Per tornare al libro di Scotto di Luzio, gli avrei suggerito di utilizzare Povera patria (1991) come canto funebre del decennio. Un autore che aveva rifuggito qualunque impegno politico, moralisticamente, cantava, in note dolenti, quel senso di sfacelo che accompagnò il tentativo originale della nostra generazione di cambiare la realtà al di fuori delle categorie (non) ereditate dai fratelli maggiori. Quella canzone, come Show di Caproni (1983), altro autore totalmente impolitico, maestro di poesia per la nostra generazione, diede parole alla mia indignazione, più morale, appunto, che politica. Stava iniziando un altro tempo, un'altra storia, un’altra musica.




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