venerdì 12 giugno 2020

Incontri [σχολή]




Una chiacchierata a volo con un ex allievo, ora docente (precario, per poco), già autore di due romanzi, uno dei quali volle prefato da me. Divertente la richiesta: «Scrivo al Nicola di Lettere…». Ci ho pensato, e sono venute fuori alcune considerazione apparentemente slegate.

1. Esistono il “Nicola di Lettere”, quello che avrei dovuto essere per storia familiare e formazione universitaria, e il “Nicola professore di Filosofia”, frutto del caso o, meglio, della complessità della vita nei suoi spesso imperscrutabili disegni (l’unico esame di Filosofia, e che mi avrebbe consentito di accedere al concorso, mi fu letteralmente imposto dalla docente con cui mi sarei laureato). Ci sarà mai un modo di sanare questa frattura? Un luogo, ad esempio, in cui le mie passioni possano fluire liberamente, dove la poesia potrà dialogare con il pensiero senza essere “ospite”?

2. Con Davide abbiamo parlato del Programma concorsuale. Rimanendo al Novecento, ho notato l’inserimento di Rebora, Campana, Luzi, Sereni, Zanzotto e Caproni nel “canone” dei grandi (benissimo!). Mi ferisce l’assenza di Fortini (sanguinosa!), autore destinato ad essere rivalutato nel corso dei decenni, quando la sua opera sarà diventata “ben morta”.

3. Mi sono permesso, in un’appassionata divagazione, di sollecitare Davide, quando presto avrà la sua cattedra, di valorizzare l’approccio diretto con i testi, soprattutto quelli poetici. Purtroppo la maggior parte dei docenti vive la poesia come genere d’un altro tempo. Quanti conoscono e leggono la poesia contemporanea? Una delle esperienze per me più frustranti è sentire i ragazzi leggere un testo in versi senza coglierne minimamente la ricchezza sonora. In tal senso laboratori di poesia potrebbero servire: non a produrre altri poeti ma a rendere consapevoli di cosa accada nel laboratorio di un autore (non nel senso deteriore, però, della critica formalista e strutturalista che già troppi danni ha fatto nel quarantennio alle spalle educando a relazionarsi ai testi come a giochi).

4. In tal direzione, l’unico testo critico da leggere obbligatoriamente sarebbe Vere presenze di Steiner, di cui ho già scritto in diverse circostanze.

5. Da cinque anni non utilizzo libri di testo per la storia e per la filosofia. Se fossi docente di italiano farei lo stesso per liberarmi sia dal vincolo dei testi da leggere (perché di Leopardi si legge sempre Il dialogo della Natura e mai, ad esempio, Il frammento apocrifo di Stratone di Lampsaco?) sia perché l’apparato di introduzioni, note, spiegazioni soffoca la creatività e la spontaneità dell’atto ermeneutico. La scuola dovrebbe essere il luogo in cui accadono esperienze (estetiche, etiche, conoscitive), non la palestra di critici letterari in erba! È il docente che deve “far parlare” il testo, partendo dalla sua lettura. Quanti docenti sanno “leggere” un testo, lo sanno interpretare (come un musicista fa con lo spartito)?

6. Chiudo, dunque, con auspicio. Che la nuova generazione di docenti che entrerà nella scuola coltivi in prima persona la passione per la poesia (l’Italia nel XX secolo ne ha prodotta di straordinaria). E educhi, attraverso la lettura diretta, all’incontro trasformativo con una bellezza che, da sempre, è anche (direi soprattutto) verità.

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