martedì 18 febbraio 2020

Il cinema e la filosofia: esperienze sul campo

Aristotele e Spielberg montati su un fotogramma di "Stalker" (A. Tarkovskij)
 1. «Io ne ho viste di cose…»

Mi capita spesso di ripensare ad una sera del 1982 in cui andai a cinema per vedere, pensavo, un film di fantascienza, dello stesso regista di Alien, e questo era una garanzia. Frequentavo la prima liceale, corso B, del Giannone. 


Quell’evento, la visione di Blade Runner, mi avrebbe, in qualche modo, cambiato la vita. Fu un’esperienza estetica certamente dirompente. Quella Los Angeles futuribile eppure così realistica, battuta da una pioggia sporca e pesante, senza requie, e una commistione di razze, di usanze, le musiche elettroniche di un compositore greco, poi assurto a grande fama, Vangelis. Ma soprattutto il tema affrontato: androidi che si ribellano, che ricercano disperatamente un’identità, che pensano, che amano! Poi avrei scoperto che il film di Scott era tratto dal racconto di un geniale e sfortunato scrittore, Philip Dick, e che il titolo di quel racconto suona in italiano: Possono gli androidi sognare pecore elettriche?.[1] 


Fui talmente impressionato da quel film che, quando il nostro professore di italiano, Vittorio Cappelluzzo, ci chiese per il compito in classe di parlare di un avvenimento che ci aveva colpito, io sentii l’urgenza di parlare di ciò che quel film aveva prodotto in me. In particolare, riflettevo sulla possibilità inaudita che un essere artificiale potesse avere un anima… E risuonavano quelle parole straordinarie, pronunciate dal leader degli androidi in fuga, sotto la pioggia: «Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo... come lacrime nella pioggia. È tempo... di morire».
Quando decisi (sì, ricordo che lo decisi a diciassette anni) di diventare professore, presi solenne impegno di non tradire le mie passioni giovanili: il cinema ma soprattutto il fumetto. Come avrei letto in una poesia di Eluard, sognavo di stabilire rapporti «fra le grotte fatate e la valanga / fra gli occhi pesti e le risa allo stremo […] / fra l’araucaria e la testa di un nano» (La necessità).[2] Avevo l’oscura percezione che quei mondi fatati non erano il rifugio di fantasie adolescenziali. La mia esperienza di questi anni è stata una risposta a quella promessa: penso al corso di fumetto fatto per due classi ginnasiali, penso alle lezioni sulla spiritualità in Battiato (durante le giornate di LIC…enza) e l’opera di De André, penso, soprattutto, all’uso che faccio del cinema nel mio insegnamento tanto della storia quanto della filosofia. È possibile coniugare il lasciato straordinario degli antichi saperi, della cultura greca, della filosofia, l’indagine storica, con i mezzi espressivi creati nel corso del XX secolo.

2. La didattica filosofica e il cinema

Per fortuna, la riflessione sul rapporto tra cinema e filosofia si è consolidata negli ultimi anni anche a livello accademico. In un recente manuale di didattica filosofica, ad esempio, tra i vari contributi spicca quello di Umberto Curi dedicato, appunto, alla questione. Rileggendo e riattualizzando alcune indicazioni della Poetica aristotelica, Curi arriva a sostenere che «è possibile “imparare” e “ragionare” guardando le immagini, meglio e più facilmente, di quanto non possa accadere con l’esercizio filosofico tradizionale». [3] Per questo motivo preferisco rinviare ad una bibliografia di base quanti fossero interessati tanto agli aspetti teorici del problema quanto ad alcune possibili applicazioni pratiche, dedicandomi, invece, ad illustrare il lavoro sul campo svolto con le mie classi.[4]
Ho sempre considerato il cinema uno strumento prezioso nell’insegnamento della filosofia, seppure per motivi diversi. Non ho mai avuto in mente in particolare i film nati con una voluta connotazione “filosofica”, come ad esempio le pur pregevoli opere divulgative dell’ultimo Rossellini (Cartesio, Pascal, Agostino), quanto film che si prestano ad una lettura filosofica. Sin dall’inizio, dunque, del lavoro di sperimentazione che ho sempre cercato di condurre, soprattutto nell’insegnamento della filosofia, ho innestato, in momenti diversi dell’anno, dei momenti di visione di opere cinematografiche legate a problematiche affrontate attraverso gli autori canonici del “programma”. Negli ultimi anni ho provato, invece, ad inserire un vero e proprio modulo integralmente dedicato all’analisi “filosofica” di un film, con tanto di verifica finale.[5]

3. Matrix e Platone

Lo scorso anno, con una prima liceale, ad inizio anno, ho dedicato tre lezioni alla visione di Matrix, film di fantascienza uscito nel 1999 dei scritto e diretto dai fratelli Andy e Larry Wachowsky. Ho avuto cura, durante la visione, di dare una serie di chiarimenti e di stimolare nei ragazzi la riflessione su possibili significati “nascosti” del film. Credo che il vantaggio (rispetto ad un testo esplicitamente filosofico) di un film (oltre al medium stesso, il linguaggio del quale i ragazzi conoscono precocemente) sia soprattutto nella compresenza di più livelli di lettura. Matrix, ad esempio, può essere visto come uno spettacolare ed intrigante film fantasy, in questo paragonabile a molti altri “prodotti” dell’industria cinematografica, che per lo dedita all’intrattenimento. Ma, nello stesso tempo, come alcuni altri film di “genere” (ad esempio, I.A. di Spielberg), si presta ad una lettura molto più complessa. Questa la sintesi del film: «In un indeterminato futuro la specie umana è controllata e sfruttata dalle macchine che, in forza del livello tecnologico che hanno raggiunto, fanno credere agli esseri umani che questi vivano liberamente nel mondo del XX secolo mentre in realtà sono imprigionati in speciali contenitori, allevati unicamente allo scopo di ottenerne l’energia necessaria alla sopravvivenza meccanica».[6] Alla fine di un complesso lavoro di “conoscenza”, il protagonista, il cui nome da hacker è Neo, riuscirà (apparentemente, perché poi ci saranno due sequel che complicheranno la vicenda) a liberare gli uomini da Matrix. È evidente che il riferimento più esplicito è al “mito della caverna” (Repubblica, VII, 514 b – 520 a). I fratelli Wachowsky, dunque, illustrano in maniera innovativa l’antichissima credenza, tipica di alcune religioni orientali e del platonismo, che il mondo sia una “copia”, e che la maggior parte degli uomini vivano immersi nelle tenebre, e che solo attraverso un doloroso processo sia possibile liberarsi e accedere alla luce della verità. Altro tema portante del primo Matrix è la critica al macchinismo, che ha una nobile genealogia nella cultura fantascientifica, se pensiamo a molte opere di Asimov o, nel cinema, a film come Metropolis di Lang, per citare un classico, o Terminator, per citare un film di grande successo. I riferimenti filosofici in Matrix, però, sono tali e tanti che uno studioso americano, William Irwin, ha pubblicato un’opera collettanea (con la prestigiosa collaborazione di Zizek) tradotta in italiano con il titolo Pillole rosse,[7] titolo che si riferisce alla possibilità che viene offerta a Neo da Morpheus, leader della resistenza al mondo delle macchine, di scegliere (il tema della scelta e del libero arbitrio sarà il cuore del secondo Matrix, Reloaded) tra una pillola che lo liberi dall’illusione e una che gli faccia dimenticare tutto e tornare, come se nulla fosse successo, alla sua vita normale.


Il film è disseminato di citazioni esplicite: ad esempio, sulla porta della cucina dell’Oracolo (che è una donna di colore), campeggia la scritta del tempio delfico, in latino: «Temet nosce», che – come sappiamo – è uno dei fulcri dell’insegnamento socratico. E il percorso di scoperta di ciò che il protagonista è realmente (l’Eletto, chiamato a salvare l’umanità) definisce l’intero plot del film. Perché, dunque, un film come Matrix si presta bene ad un’operazione di innovazione nell’insegnamento della filosofia (a patto che esso si integri in un programma dove ci sia spazio per la lettura diretta dei testi filosofici e la discussione problematica sui grandi nodi del pensiero)? Perché, mentre il ragazzo si appassiona ad una storia intrigante, piena di colpi di scena, inseguimenti, sparatorie, lotte modellate sulle arti marziali, mentre entra ed esce dal per lui familiare mondo dei videogiochi, se opportunamente guidato può interrogarsi su alcune questioni capitali della filosofia: il mondo che io percepisco con i sensi esiste realmente? Esiste un mondo non percepibile con i sensi? Io sono libero o tutto ciò che faccio è “programmato”? Chi sono io? Mi conosco realmente o sono solo le maschere che la società mi ha costretto ad indossare? E posso liberarmi da queste maschere? Gli uomini sono realmente i “padroni” del mondo o hanno posto le basi per un dominio tecnico delle macchine, rischiando così di diventare “servi del proprio servo” (cioè le macchine che inizialmente lo servivano)? Le macchine possono “pensare”? I ragazzi, per approfondire queste tematiche, hanno avuto a disposizione anche un saggio di Diego Marconi[8] e il saggio di Irwin, “Computer, caverne e oracoli: Neo e Socrate” (tratto da Pillole rosse), un brillante confronto tra il protagonista del film e il fondatore della filosofia occidentale, in cui mostra come il messaggio finale del film riguardi l’invito a seguire la propria strada con coraggio e determinazione, anche rischiando la morte. La verifica del “modulo” è consistita, come mio costume, in una breve analisi testuale (tratta da un altro saggio dello stesso libro, “La simulazione di Matrix e l’epoca postmoderna” di David Weberman) e una serie di domande a risposta aperta del tipo: «Perché Cypher tradisce Morpheus?»; «Che cosa dice l’Oracolo a Neo? Che lui è l’Eletto? Che lui non è l’Eletto? Altro ancora? Motiva la tua risposta»; «Qual è il rapporto tra uomini e macchine in Matrix?»; «Quali sono le scelte decisive che Neo compie nel corso della vicenda?»; «Come si manifesta la consapevolezza acquisita da Neo di essere l’Eletto? Chi svolge il ruolo di tramite verso questa consapevolezza? In che modo?». La collocazione del lavoro tra ottobre e novembre ha consentito di utilizzare una serie di conoscenze realizzate attraverso questo modulo atipico per la prosecuzione del programma.

4. La “sottile linea rossa” tra la il fisico e il metafisico

Quest’anno, invece, ho innestato l’analisi di un film diverso sull’impianto radicalmente diverso della programmazione, avviata nella prima liceale con un modulo dedicato alle cosmogonie e alle cosmologie (da Esiodo a Vito Mancuso, un cui testo chiudeva la riflessione). Ho scelto un’opera molto complessa, sicuramente difficile per dei ragazzi: La sottile linea rossa di Terrence Malick.[9] In questo caso lo “zucchero” era costituito dalla parata di star presenti nel film, volti noti al pubblico giovanile: da John Travolta a Nick Nolte, da Sean Penn a George Clooney. Il film racconta della conquista di un campo d'aviazione giapponese posto in cima ad una collina dell'isola di Guadalcanal durante la seconda guerra mondiale. Il gruppo di militari è guidato dal mite capitano, agli ordini di un ambizioso colonnello: «durante il lungo assalto alla collina si consumeranno le vicende e i tormenti interiori di un gruppo di uomini costretti a confrontarsi con i propri doveri e la follia della guerra, mentre la natura, lussureggiante e indifferente, sembra cullarli e contrapporsi alla loro logica».[10] La complessità del film mi ha spinto a preparare una sorta di schema dei personaggi, ognuno dei quali incarna una possibile risposta alla grande domanda posta all’inizio: «Cos’è questa guerra stipata nel cuore della natura? Perché la natura lotta contro se stessa? Perché la terra combatte contro il mare?». Dunque, il film, che erroneamente fu interpretato – visto anche la quasi coeva uscita di Salvate il soldato Ryan – come un film “di guerra”, utilizza, come Matrix, un genere codificato per porre un interrogativo filosofico, antichissimo, se è vero che Eraclito l’Oscuro scriveva: «Il Conflitto (Polemos) è padre di tutte le cose e di tutti re».[11] 


La guerra, chiede interrogativamente Malick, è non solo ciò che rende l’uomo tale ma principio nascosto dell’intera vita naturale, che non lascia scampo a nessun possibile “paradiso”? Il protagonista del film, una sorta di “idiota” dostoevskijano, un personaggio mite e gentile, sembra aver trovato questo paradiso in un villaggio aborigeno, salvo scoprire alla fine che anch’esso è minato dallo stesso oscuro male del conflitto e della violenza, e, dunque, accettare il destino del conflitto, morendo da eroe. Non esiste salvezza nell’amore, se un altro personaggio, che dialoga incessantemente con la donna amata al di là delle acque dell’oceano, divenute una sorta di Acheronte, evocative del mito di Orfeo ed Euridice, scopre alla fine che ella lo ha abbandonato. L’unica risposta positiva sembra essere quella tutta umana del sergente duro con i suoi uomini ma intimamente lacerato dalle loro sofferenze e del capitano che sacrifica la sua carriera alla salvezza dei suoi. Risposte etiche, per così dire, che si contrappongono al cinismo di altri ufficiali, sospinti da volontà di potenza, speranza di ascesa sociale. Alla fine, però, il film sembra ribaltare questa cupa visione del mondo, perché una voce recita questa sorta di preghiera panteistica: «Dove eravamo insieme, chi eri tu? Quello col quale ho vissuto, camminato, il fratello, l'amico. Buio dalla luce, conflitto dall'amore. Sono il frutto di una sola mente, i tratti di un solo volto. Oh anima mia, fa che io sia in te adesso, guarda attraverso i miei occhi, guarda le cose che hai creato. Tutto risplende». A rimarcare questa torsione religiosa del film, ho fatto leggere e commentare ai ragazzi una pagina del Baghavad-Gita, dove, in particolare, Krhsna erudisce Arjuna: «Tu non desiderare, non domandare;  agisci, ma lascia il frutto delle tue azioni. Cerca rifugio in questa disciplina, senza attaccamento alcuno. Il successo e l’insuccesso sono uguali».[12] Mi è parso, infatti, che il comportamento del protagonista nasca dall’illuminazione sulle cose del mondo, e dalla consapevolezza che bisogna agire senza curare il frutto delle azioni. Perché? Perché questo mondo è “apparenza”, Maya. Altrove c’è la risposta alla domanda iniziale, in una dimensione sovratemporale, meta-fisica, che solo attraverso la purificazione e la morte si può raggiungere. E, sempre in una prospettiva “religiosa”, ho letto una celeberrima poesia di Montale, Spesso il male di vivere ho incontrato,[13] dolente meditazione, senza illuminazione finale, se non il “distacco”, l’atarassia, sulla sofferenza cosmica. Infine, i ragazzi hanno letto alcuni saggi critici dedicati al film, alcuni densi di riferimenti letterari e filosofici.[14] Nella verifica di fine modulo chiedevo, ad esempio, di schematizzare le vari opzioni “esistenziali” (cioè le scelte di vita) dei personaggi principali del film, di descrivere la vicenda amorosa del film, i simboli e i miti ad essa connessi, di analizzare il rapporto padre/figlio che viene ripetutamente evocato, di discutere criticamente i testi letti e i saggi critici analizzati. In riferimento alle cosmologie classiche e ai primi filosofi greci, ho chiesto, ad esempio, di analizzare gli elementi presenti nel film. Un’allieva ha scritto: «Il loro compito è quello di concentrare l’attenzione sul rapporto uomo-natura. L’elemento più presente è l’acqua. Quella del mare rappresenta il grembo materno, la perfezione che ognuno di noi ha provato almeno una volta e di cui avverte la mancanza. Non a caso rappresenta il raggiungimento finale della “gloria” da parte del protagonista.[15] Al fuoco sono riconducibili sia le scene di distruzione (bombe, capanne in fiamme) sia il rapporto con Dio. Il capitano prega e si vede una candela come simbolo mistico, porta attraverso la quale la realtà divina entra in rapporto con quella umana (con evocazione di una simbologia biblica). La terra è, invece, il simbolo della mortalità: “Siamo polvere, siamo solo polvere…”».
La risposta dei ragazzi è stata molto interessante in entrambi i casi. È stato per me possibile veicolare contenuti complessi, densi, spesso oscuri, utilizzando la forza suggestiva delle immagini, che hanno grande importanza nella filosofia studiata il primo anno.



5. Il cinema, linguaggio universale del mito contemporaneo

Il mio percorso molto anomalo probabilmente spiega l’ansia di sperimentare nuove strategie e nuovi approcci alla disciplina. Infatti, il mio incontro con la filosofia non ha avuto un passaggio, se non marginale e, per certi versi, casuale, accademico.[16] Diciamo (questo ripeto il primo anno agli alunni) che sono un autodidatta. Probabilmente questo consente maggiore libertà rispetto ai “programmi” canonici. Soprattutto nei primi due anni del triennio (il terzo con l’esame di Stato pone problemi particolari, ovviamente), pur mantenendomi nei limiti cronologici previsti e con ampi riferimenti agli autori canonici, cerco di impostare moduli alternativi. Quello sul cinema è una dei possibili, ma certamente quello più intrigante per un adolescente, quello che lascia tracce maggiori nel tempo. Io spero che, oltre ad avere positivi effetti per lo studio della filosofia, tale scelta sviluppi anche una maggiore attitudine critica nella fruizione del cinema, che – anche grazie alle pay tv – è diventato uno degli strumenti primari di formazione di coscienza etica e gusto dei giovani. Inoltre è mia persuasione che il bagaglio di “miti” che ogni civiltà presuppone nei suoi membri (il mondo degli dei e degli eroi omerici per la Grecia, ad esempio) oggi sia plasmato, appunto, dall’immaginario cinematografico. È mia persuasione che la funzione “modellizzante” un tempo svolta da Achille, Enea, Orlando, dai tre moschettieri, oggi venga svolta dagli eroi di celluloide. È molto più facile stabilire un ponte comunicativo con i ragazzi utilizzando il codice filmico e tutto l’immaginario ad esso connesso che sforzandosi di inculcare loro modelli e miti “fuori tempo”. Sia chiaro: non sto dicendo che quel mondo vada abbandonato. Non dobbiamo, però, illuderci che esso funzioni come trenta o quaranta anni fa.
Conto, dunque, di proseguire questo tipo di esperimenti: penso, in particolare, a Spielberg e al suo cinema “etico”, a Bergman e al suo “esistenzialismo”, a Tarkovskij e al “mistero” che egli indaga.[17] Ma non necessariamente deve trattarsi di film “difficili”. Ad esempio, ritengo che La guerra dei mondi di Spielberg, apparentemente solo un film di fantascienza, sia una perfetta esemplificazione dell’etica della responsabilità.[18]
Il cerchio si chiude: quell’adolescente che per la prima volta fu indotto a pensare da un film, oggi cerca di spronare al pensiero i suoi allievi utilizzando macchine spettacolari, attualizzando antiche ricette pedagogiche: «Cosí a l'egro fanciul porgiamo aspersi / di soavi licor gli orli del vaso: / succhi amari ingannato intanto ei beve, / e da l'inganno suo vita riceve».



[1] P. K. Dick, Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, Fanucci, 2007.
[2] Cit. in A. Gnisci, Spighe. Saggi di letteratura comparata, Carucci 1986, p. 43.
[3] U. Curi, Cinema e filosofia, in AA.VV., Insegnare filosofia. Modelli di pensiero e pratiche didattiche, a cura di L. Illetterati, Utet, 2007, p. 292.
[4] G. Deleuze, L’immagine-movimento, Ubulibri, 1985; G. Deleuze, L’immagine-tempo, voll. 1 e 2, Ubulibri, 1989 e 2004; U. Curi., Lo schermo del pensiero. Cinema e filosofia, Raffaello Cortina, 2000; J. Cabrera, Da Aristotele a Spielberg. Capire la filosofia attraverso i film, Bruno Mondadori, 2000; A. Sani, Il cinema tra storia e filosofia, Le Lettere, 2002; J. A. Rivera, Tutto quello che Socrate direbbe a Woody Allen,. Cinema e filosofia, Frassinelli, 2005; U. Curi, Un filosofo a cinema, Bompiani, 2006.
[5] Ottimi spunti per la sperimentazione di moduli su cinema e filosofia si trovano negli articoli che Andrea Sani va pubblicando sulla rivista «Diogene. Filosofare oggi», edita dalla Giunti (si veda anche il sito: http://www.diogenemagazine.eu). Ecco alcuni titoli: Dalla robotica alla robotica. L’etica nel mondo dei robot (n. 1, ottobre 2005), Frank Capra e il migliore dei mondi (n. 3, maggio 2006), Kubrick, Nietzsche e il Superuomo (n. 7, maggio 2007)
[6] Voce “Matrix” di Wikipedia, http://it.wikipedia.org/wiki/Matrix.
[7] AA.VV., Pillole rosse. Matrix e la filosofia, a cura di W. Irwin, Bompiani, 2002.
[9] Malick è una delle figure più originali dell’attuale panorama cinematografico. Autore di soli quattro film nell’arco di trent’anni, laureato in filosofia ad Harvard, nel 1969 ha tradotto in inglese l'opera di Martin Heidegger, Vom Wesen des Grundes - The Essence of Reasons, (Evanston, Northwestern University Press).
[10] http://it.wikipedia.org/wiki/La_sottile_linea_rossa_(film_1998)
[11] È il celebre frammento 53, in H. Diels-W. Kranz, I Presocratici (a cura di G. Reale), Bompiani, 2006, p. 353.
[12] http://www.guruji.it/bhagavadgita/gita.htm
[13] E. Montale, L'opera in versi, Einaudi, 1980.
[14] A. Piccardi, “Lo sguardo disumano: La sottile linea rossa”, B. Fornaia, “In viva morte morta vita vivo”, P. Vecchi, “Il regista che cadde sulla terra”, F. La Polla, “Soldati e filosofi”, in «Cineforum» n. 382, marzo 1999.
[15] « Un uomo guarda un uccello morente e pensa che la vita non sia altro che dolore senza risposta, ma la morte che ha l’ultima parola ride di lui. Un altro uomo vede lo stesso uccello e sente la gloria, sente nascere la gioia eterna dentro di sé». Era uno degli aforismi tratti dal film che abbiamo analizzato.
[16] Per “imposizione” della mia docente di letteratura italiana contemporanea, Bianca Maria Frabotta, con la quale mi sarei laureato con un tesi sull’opera poetica di Franco Fortini, seguii un esame di filosofia (Estetica, Emilio Garroni), che poi mi avrebbe consentito l’acceso al concorso a cattedra.
[17] Considero l’opera di Andrej Tarkovskij uno dei grandi lasciti dell’arte novecentesca tout court, e le sue riflessioni sul cinema un libro fondamentale di estetica, poesia e spiritualità (Scolpire il tempo, Ubublibri, 2002).
[18] Molto interessante l’esperienza didattica svolta al Carducci di Roma sul rapporto tra il cinema di Kieslowski e l’etica di Lévinas, descritta in http://www.swif.uniba.it/lei/scuola/scuole/etica.pdf.

[Apparso in «Api ingegnose», 2016]

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