Sul finire degli anni Novanta io militavo in Rifondazione Comunista, che a Benevento contava poco (pochissimo…). Nell’ottobre del 1999 organizzammo un seminario (non memorabile, detto con l’onestà dei miei cinquantasei anni) con l’allora responsabile “cultura” di RC, Bruno Morandi, che aveva da poco scritto una Introduzione a Marx (Datanews, 1996). Il seminario si tenne a San Cumano, a casa mia, che qualche anno prima aveva ospitato gli incontri de “la rosa necessaria”. Sulla torre mettemmo una grande bandiera rossa. Vennero anche gli “eretici” del centro sociale (si chiamavano allora, poco prima che nascesse “Depistaggio”, “Rive Gauche”). Giancristiano Desiderio, che all’epoca dirigeva il «Sannio», volle dedicare all’evento un articolo, ovviamente stroncatorio. Io gli risposi. Così ci conoscemmo. Dopo di allora, c’è stato un rapporto di reciproco rispetto nella consapevolezza della distanza siderale che ci separava. In tal senso, l’esperienza della “Libera Scuola di Filosofia del Sannio”, con Amerigo Ciervo, fu un incontro tra diversi, durato, purtroppo, poco. Ora Giancristiano è una firma di prestigio del «Corriere della Sera», autore di decine di libri (tra cui spiccano quelli dedicati a Croce, di cui è divenuto, negli anni, uno dei maggiori cultori e conoscitori), l’ultimo dei quali ho letto in un pomeriggio, essendo dedicato all’autore che ci fece conosce: Karl Marx.
L'Anti-Marx. Anatomia di un
fallimento annunciato (Con lettere inedite di Pasquale Martignetti, traduttore
di Marx ed Engels, a Benedetto Croce) (Rubettino, 2023) è un agile volumetto
scritto nel consueto linguaggio dell’autore, piano e irto di impuntature
polemiche. Libro ambizioso, ma stroncare seriamente Marx, uno degli autori
ancor oggi più letti e studiati al mondo, avrebbe richiesto decisamente qualche
pagina in più...
Ci sono alcune cose che condivido
del libro (e che sono spesso oggetto delle mie lezioni liceali). Come Giancristiano, credo che l’influsso hegeliano sull’autore del Manifesto sia stato duraturo e pernicioso (stupisce, dunque, la totale
assenza di Popper nel libro ma anche della Arendt, entrambi critici finissimi
di alcuni aspetti del marxismo). Questa è tesi ricorrente: Marx non avrebbe mai
veramente superato la dialettica hegeliana, limitandosi ad un’opera di
sostituzione. Sicuramente avrebbe dovuto sviluppare maggiormente una tesi che
serpeggia (a partire dal titolo) nel testo, e cioè che in Marx ci sono in nuce
tutti gli errori e gli orrori del comunismo novecentesco.
Nel libro di Desiderio manca ciò
che è “vivo” (per citare autore a lui carissimo) di Marx, oserei dire
imperituramente vivo. E, dunque, ha gioco facile, contestato quello che lui
ritiene essere l’architrave del marxismo (cioè una storia tesa ineluttabilmente
alla “razionalità” che è il comunismo, lascito hegeliano), contestare l’intero.
Nei confronti dei grandissimi come Marx questo non funziona. Troppo grandi i
contributi che troviamo nella sua opera per la comprensione dei fenomeni per
trattarlo da “cane morto”. Dunque, si può non essere marxisti (è il mio caso da
svariati decenni) ma continuare a leggere con beneficio l’opera del Moro,
utilizzandone gli strumenti euristici. Contemporaneamente al libro di Giancristiano
ho iniziato a leggere il libro di Kohei Saito (L’ecosocialismo di Karl Marx,
Castelvecchi, 2023) che, con rigore filologico e recuperando i quaderni
“scientifici” del pensatore di Treviri, mette al centro della ricerca
l’ecologia in relazione all’economia. E il libro di Moore e Patel (Una storia
del mondo a buon mercato. Guida radicale agli inganni del capitalismo,
Feltrinelli, 2018: straordinario), ottimi esempi di come Marx possa essere letto
e utilizzato nelle lotte del presente. Penso, infine, al magnifico lavoro che sta svolgendo Emiliano Brancaccio, utilizzando categorie marxiane, ad esempio, per la comprensione degli squilibri planetari (in particolare, la tendenza, intuita da Marx, alla centralizzazione dei capitali).
Più in generale, le mancanze del
libro sono ascrivibili all’ideologia dell’autore e al suo ruolo di
intellettuale “organico” (utilizzo volutamente categorie molto presenti nel libro).
L’esaltazione acritica della borghesia (non tutta evidentemente: quella che
controlla il capitale e decide le sorti del mondo) dimentica il ruolo che essa
ha avuto e ha nello sfruttamento (lavoratori salariati, schiavi, donne,
“diversi”, natura, per citare Moore) nel corso dei secoli (e Marx scriveva,
insieme ad Engels che ne aveva parlato distesamente, nel momento di maggior
sfruttamento del lavoro operaio). Dipingere la storia dell’Occidente come una
straordinaria vicenda di lotta per libertà e il progresso, dimenticandone il
“lato oscuro”, è pura ideologia. Nel contempo, ritenere che, tolta la scienza,
il socialismo possa essere solo utopia o riformismo significa, ancora una
volta, leggere ideologicamente la storia, dimenticando che tutte le conquiste
degli oppressi sono state il frutto di lotte, quasi sempre dimenticate (anche
in questo caso filoni diramatisi da Marx, che lo hanno corretto e aggiornato,
sono preziosi: penso a Wallerstein e Arrighi). Anche la borghesia, d’altronde,
è stata (dalla metà del XVII secolo) classe rivoluzionaria. Il “negativo” della
storia (e questo mi pare un lasciato marxiano straordinario) non si può
occultare. La natura non fa salti, la storia, per fortuna, sì!
Insomma, io credo che Marx sia
parte (fondamentale) di una storia di lotte e rivendicazioni, che come ogni
storia ha il suo carico di errori ed orrori, giuste perché finalizzate ad una
maggiore… giustizia! Proprio un liberale come Popper mi ha insegnato che la
storia non ha “telos” (scopo), e mi ha educato ad utilizzare il darwinismo, in
senso positivo, come schema di lettura del divenire (conflittuale, oserei dire…
dialettico!) storico (cioè non partire da un presunto fine, assente, verso cui
tutto sarebbe teso: la libertà piuttosto che la società senza classi).
Gli intellettuali “organici”
delle élite vorrebbero che esse avessero delega alla gestione tecnocratica
della società, al limite con la benevola partecipazione dei rappresentati
illuminati (riformisti) del “popolo” (utilizzo volutamente categorie
“populiste”). Questo accade in Italia dai tempi Manzoni, il cui capolavoro è
straordinario testo programmatico di questo modo virtuoso di gestire i
conflitti “dall’alto” (il popolo deve stare buono, altrimenti fa danni, come
Renzo a Milano, delegando la guida del mondo al Cardinale Federigo e all’Innominato,
fattosi altruista).
Quello che a Giancristiano, tutto
preso dal suo ruolo di apologista della fede (sì, una fede nel suo caso)
liberale, non riesce mai possibile è riconoscere, come fa invece Popper (come
già detto, il convitato di pietra del libro: non vorrei sbagliare, ma l'autore austriaco de La società aperta e i suoi nemici non è neanche citato in nota), che Marx era un sincero benefattore (cito a memoria) dell’umanità, il cui intento fu in parte corrotto (e qui, ribadisco,
convergo con Desiderio nell’individuare nel mai sopito hegelismo del Moro la
causa di questa corruzione).
Concludo: non sono marxista, se
il marxismo è una “fede” dogmatica (un “credo” come oggettivamente è stato per
molti: rivedere il bel film di Moretti, Il sol dell’avvenire), riconosco in
Marx un maestro con cui doveroso continuare a confrontarmi, prendendone il
tantissimo di utile che trovo nella comprensione di questo tempo, lo considero
parte di una storia di lunga durata che lo precede (almeno dalle lotte
trecentesche che percorsero l’Europa, come insegna Moore, agli albori del capitalismo)
e, mi auguro, durerà nei secoli. Non fino all’instaurazione del paradiso in
terra (e maledetta la “teologia politica” che ha ispirato queste sogni della
ragione), ma, tra sconfitte e vittorie, per rendere più accettabile la
condizione dei soggetti sfruttati, sottomessi, offesi (umani e non), per
trovare modi di convivenza migliori tra uomo e ambiente, per ridonare a
ciascuno una vita meno alienata, sapendo che la sofferenza, il male, il dolore,
la mancanza sono elementi strutturali della vita, e, dunque, senza mai
illudersi di poterli “abolire”.
Post scriptum del 5 novembre («Remember, remember the fifth of November…»)
Negli anni, leggendo Marx e dovendolo spiegare scolasticamente ai miei allievi, mi sono convinto che fu disperazione quella che indusse lui - che era diventato democratico e poi socialista per empatia nei confronti della sofferenza umana - ad elaborare una filosofia della storia teleologica: avendo patito, da attivista qual era, la frustrazione e il fallimento, spostò dalla volontà umana alla ragione immanente alla storia e ai processi socio-economici (intuizione che trovò ovviamente in Hegel) il soggetto agente, dando così un potente (e pericoloso) strumento non solo di lettura del divenire ma anche di azione. Le cose che scrive Popper nei suoi corposi volumi di filosofia politica sono assolutamente esaustive sui rischi di un sapere “totalizzante”.
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