venerdì 14 febbraio 2020

Ad Angelo Bosco: ancora su Destra e Sinistra [πολιτική]


Scrive l’amico Angelo Bosco, architetto, docente di storia dell’arte, sindacalista della CGIL:


«Mi ricordo quando si diceva, e tu Nicola, consentimi, lo avvaloravi, che la destra e la sinistra erano categorie superate. I 5 stelle hanno raccolto un dissenso generalizzato, ma non avevano e non hanno un progetto politico. È bastato un anno e poco più di governo e sono uscite fuori tutte le contraddizioni del movimento che di fronte alle scelte da compiere non sono in grado di elaborare nessuna sintesi perché arrovellati su tante posizioni tra loro inconciliabili. Non resta che dividersi, almeno si fa chiarezza».

Mi interessa tornare sulla questione destra-sinistra, che mi arrovella da tanto, in maniera oserei dire drammatica dal 2008, che fu il big bang della Sinistra italiana. Sulla crisi del M5S non ho molto da aggiungere: la considero una crisi irreversibile rispetto al progetto originario, potendogli sopravvivere solo un partito strutturato, medio-piccolo, che abbia una collocazione precisa lungo l’asse “tradizionale”.
Scontato far riferimento a dei “classici” per capirci qualcosa. Mi limito a quello di Norberto Bobbio, che credo ci abbia segnati tutti intellettualmente in un momento in cui quelle categorie erano sottoposte al primo “cimento” serio. Era il 1994: l’anno in cui Berlusconi stravolse il quadro politico che aveva dominato dal dopoguerra l’Italia senza grandi scossoni.
Per dirla scolasticamente, per Bobbio la Destra si batte per la libertà e l’individuo, la Sinistra per l’uguaglianza in una dimensione più comunitaria. 


Per altro, il grande filosofo, teorico di un “socialismo liberale”, dava una preziosa indicazione di metodo, scrivendo che in un contesto naturalmente conflittuale quale quello politico, «che richiama continuamente il gioco delle parti e della contesa per sconfiggere l’avversario, dividere l’universo in due emisferi non è una semplificazione, ma una fedele rappresentazione della realtà». È fondamentale recuperare l’idea che il campo politico sia inevitabilmente percorso da una dialettica. Machiavelli aveva capito che la grandezza di uno Stato nasce proprio dal conflitto (tenuto entro determinati confini) e non dal sogno irenico che esista un ceto politico in grado di tutelare gli interessi di tutti facendosi portavoce di istanze universali (un sogno che percorre l’Occidente da Platone ad Hegel, per incarnarsi in ogni visione tecnocratica ed elitista). Il conflitto è parte integrante del “Politico”.
L’altro classico potrebbe essere il libro di Marco Revelli, che, pur ritenendo imprescindibile la dicotomia, pone forse più problemi di quanti ne risolva. Il libro uscì nel 2007. In pagine come sempre dense e appassionanti, Revelli compie un’analisi dettagliatissima della questione e del dibattito a cavallo dei due millenni, confessando uno spaesamento che è frutto non di una défaillance teorica ma delle trasformazioni in atto (la globalizzazione e la crisi degli Stati nazionali in primis): 

«In un contesto siffatto – appare persino superfluo suggerirlo – diventa davvero impresa ardua, se non disperata, tener fermi i consolidati criteri di orientamento spaziali, o continuare a 'mantenere le proprie posizioni' e restare, in sostanza, “se stessi”. E ciò non tanto per una consapevole disponibilità dei soggetti, individuali o collettivi, alla transumanza e al mimetismo (al “tradimento delle proprie origini”, si direbbe volgarmente), o per un'insufficienza della volontà sottomessa all'opportunità che impedirebbe di mantenere con coerenza “il proprio posto” (certo anche per questo). Ma soprattutto perché in uno spazio non più 'euclideo' come quello attuale non ci sono più 'posti' certi e stabili in cui radicarsi. Dunque, per un'intrinseca, e universale, labilità dei 'luoghi' (e “destra” e “sinistra” sono appunto luoghi simbolici dello spazio politico, non dimentichiamolo), per la loro polisemicità e multiformità, in una spazialità (inedita) in cui è possibile essere contemporaneamente '"qui" e "altrove" e in cui l'infinitamente lontano (geograficamente) può essere contemporaneamente infinitamente vicino (socialmente, affettivamente, culturalmente) e viceversa».


Più scolastico ma comunque di grande interesse il volume del 2010 di Carlo Galli. La tesi di fondo dell’autore è che la topologia venga spiegata dalla genealogia, «ovvero che la differenza fra destra e sinistra, strutturale nella modernità, non nasce da contenuti specifici dell’una o dell’altra, ma è determinata da un diverso rapporto dei due campi politici con la doppia e contraddittoria origine del Moderno, cioè con il suo disordine e con la sua coazione all’ordine».


È bene notare che sia Revelli che Galli dedicano molte pagine (o libri successivi) all’emergere di istanze populiste con connotazioni diverse.
Personalmente mi sono sempre sentito a disagio in una definizione che si pretendeva onnicomprensiva. E, negli anni, ho scoperto personalità che difficilmente erano riconducibili alla “Sinistra” nell'accezione diffusa. Per esempio Pasolini o la Weil, autori non casualmente cari anche ad una certa “Destra” (chiamiamola “sociale”). Illuminante, quindi, fu il libro di Bruno Arpaia (Per una sinistra reazionaria, 2007). Ma anche Il pensiero meridiano di Franco Cassano andava (o lo lessi io) in quella direzione. In sintesi, coniugare tradizione e rivoluzione.
Insomma, caro Angelo, la “teoria” che ho cercato di praticare, sempre all’interno di occasioni concrete (ricordo che Cassano lo facemmo discutere con Pasquale Viespoli…), attesta che il rovello è antico.
La crisi del 2008, come dicevo, mi spinse a tentare nuove vie anche nella “prassi”. Di qui l’approdo al M5S. Se la “Sinistra” (radicale, intanto scomparsa dal Parlamento) è stata portatrice di politiche che nulla più hanno a che spartire con la storia del movimento operaio e delle lotte di liberazione, mi dicevo, non ha più senso appuntarsi un distintivo sul petto. Abbandonai, dunque, la “casa dei padri”. Mi avviai in terra incognita. E, ti confesso, non fu facile trovarmi a parlare con persone di tutt’altra provenienza politica, finanche opposta alla mia. Ribadisco che il Movimento è stato un tentativo unico in Europa. Un esperimento. Finito (male!) quando si accettò l’alleanza con la Lega (sarebbe stato lo stesso se ci si fosse alleati con il PD). Venivano meno – ora è chiaro a tutti, allora fummo in pochissimi a dirlo e ad essere conseguenti – le condizioni per proseguire in una “terza via” che aveva (per me) fascinosi elementi di radicalità (mescolati a clamorose ingenuità e pressapochismo). Orfano (di nuovo!) politico, ho ripreso il mio lavoro di studio. Potrei considerare, dunque, una sorta di sintesi tra le miei esperienze precedenti il “populismo di sinistra” che sto cercando di testimoniare, almeno dal punto di vista teorico. Il M5S, infatti, e lo testimoniano vari miei interventi, è stato un fenomeno “populista” all’interno di un’onda europea e mondiale con caratteristiche le più varie. Arrivo, infine, alla conclusione: essere populista di sinistra significa oggi, per me, rimanere fedele al nucleo di valori e aspirazioni che ha sempre mosso il mio impegno politico. In questa definizione a definire l’essenza è l’aggettivo: populismo significa teorizzare e praticare una politica vicina alle istanze popolari, senza alcun paternalismo né elitismo di sorta. So quanto tu sia sensibile, per storia personale, a questo tema e più volte ne abbiamo parlato. E se questo è vero il populismo ridefinisce la “topologia politica”. Alla contrapposizione tra destra e sinistra, nata durante la Rivoluzione francese, aggiunge quella, decisiva, di “alto” e “basso”, élite e popolo. Uno dei miei maestri “eretici”, Marco Guzzi, avvicinatosi anch’egli al M5S, ribadisce continuamente che non si tratta di una ricostruzione complottista della storia contemporanea. Lo si ascolti (dopo un’ora di altro francamente dimenticabile in un esperimento di "scuola politica" però sicuramente originale).


I libri e gli studi di Piketty, se fosse necessario, sono lì, con dati inoppugnabili a dircelo.
Amo l’ossimoro, amo la tensione tra forze contrastanti. Sarà il mio modo “poetico” di vedere e vivere il mondo.
Sono un populista ma di sinistra. Sono di sinistra ma “reazionario” su moltissime questioni. Come Pasolini o la Weil. Inevitabilmente “eretico” in ogni chiesa in cui mi trovassi a militare pro tempore. La contraddizione è ineluttabile. Ho oscillato e continuerò a farlo ma dentro un perimetro invalicabile costituito tra tre elementi: tutela dell’ambiente come unica, vera “madre-patria” dell’umanità, giustizia sociale, democrazia radicale. È un destino che abito scientemente. La sfida grande è approntare strumenti teorici che possano fondare nuove prassi autenticamente “rivoluzionarie”, trasformative di un mondo in crisi (ambientale, economica, energetica e psichica).
Insomma, caro Angelo, se Destra e Sinistra non sono superate come categorie, sicuramente però non bastano (al contrario!) a capire il nostro tempo. Talvolta, addirittura, possono essere di intralcio. Dunque, bisogna contaminarle, accettando quanto meno una quadripartizione della mappa.


Questa che posta va senz'altro aggiornata ma potrebbe essere un modello interessante. La domanda delle domande è: il populista di sinistra è più vicino al populista di destra o all'elitista di sinistra? La storia di Podemos e, in maniera più contraddittoria, del M5S ci dice che l'unica strada percorribile sembra essere quella di un'alleanza che non farebbe che riprodurre quella tra sinistra "moderata" e sinistra "radicale" (come accadde in Italia con i due governi Prodi et similia). L'alleanza tra populismi diversi è naufragata in meno di un anno in Italia. La sfida affascinante e al limite dell'utopico è quella di un populismo di sinistra che accetti la sfida di diventare maggioritario, egemonico da solo. Vaste programme
Due elementi, anch'essi contraddittori, prima di congedarmi. 
Il primo è una vera e propria sfida: è possibile coniugare l'idea di politica come realizzazione delle potenzialità umane (quella teorizzata dalla Arendt, anche lei difficilmente collocabile lungo l'asse Destra/Sinistra) con la politica come impegno per la giustizia? 
Il secondo riguarda una polemica per i più marginale ma per me assolutamente illuminante sulla problematicità della questione che stiamo dibattendo. Quella tra Marco Revelli e Carlo Formenti. Inutile raccontare chi sia il primo: figlio di partigiano, grande sociologo, intellettuale impegnato sempre a sinistra problematicamente. Il secondo, meno noto, è autore di libri e interventi per me fondamentali nel percorso che ho intrapreso da qualche anno. En passant, il primo ha ascritto il secondo a quel fenomeno ambiguo che va sotto il nome di "rosso-brunismo". Irato, il secondo ha risposto con veemenza rivendicando di essere «comunista e non di sinistra». Ebbene, con la stima che provo per Revelli (lo continuo a leggere imparando), su quasi tutte le questioni importanti negli ultimi anni mi sono trovato d'accordo con Formenti (sull'euro, sullo Stato nazionale, sulle Sardine...).


In Italia, intanto, sembra ricostruirsi un asse tradizionale, dopo l'anomalia che è stato il M5S, normalizzato e destinato, come detto, inevitabilmente a fare una scelta di campo o a esplodere (o entrambe le cose!). Dunque, non resta a chi, come me, non accetta come normale e necessario lo stato di cose esistente, che continuare la ricerca teorica e guardare con simpatia tutti quei movimenti o partiti che battono nuove strade, conservando il meglio di una tradizione bicentenaria. 

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