Resterà per me il modello di un sapere mai vanamente erudito, sempre al servizio della vita, di un ebraismo consapevole di tutta la sua meravigliosa tradizione e cosmopolita. Continuerò ad utilizzarlo nelle mie lezioni come maestro di stile e di lingua.
* * *
L’incontro
trasformativo con l’opera d’arte:
Vere presenze di George Steiner[1]
1.
L’ultimo critico
George Steiner insegna in Inghilterra
e Svizzera. Ha incarichi istituzionali in svariate università del mondo. Ha
scritto alcuni libri decisivi nella storia della critica letteraria[2]. È stato definito il
«topografo di tutte le nostre culture passate e presenti». Il discorso per il
conferimento del Premio Börne nel 2003 è, a parere di chi scrive, uno dei
discorsi più belli mai pronunciati da un letterato, straziante riflessione di
un ebreo sulla vicenda culturale dell’umanità e sul proprio popolo divenuto da
vittima carnefice[3].
2.
Vere presenze
Nel 1989 Steiner pubblicò Vere presenze (uscito in Italia nel
1992). Un critico scriveva il più spietato atto di accusa contro la critica.
Per me, da poco laureatomi leggendo tonnellate di letteratura “secondaria”,
uscito da una delle più prestigiose università italiane senza aver dovuto
leggere neanche un canto della Divina
Commedia ma, in compenso, svariati libri di giovani ricercatori, fu una
lettura straniante. Un uomo che spara a zero contro la sua casta! Questo
l’obiettivo dichiarato del libro. Ma sarebbe ben poca cosa se dietro non ci
fosse un’istanza che non posso non definire “spirituale”, un assunto religioso
da parte di un ebreo affascinato dal mistero centrale del cristianesimo, quello
dell’incarnazione. Contro ogni deriva semiotica o decostruzionista, contro ogni
estetica del simulacro, Steiner afferma nelle prime pagine che «la scommessa
sul significato del significato […] è una scommessa sulla trascendenza» (p. 18).
La proposta di Steiner è quella di «una società, una politica del primario che
privilegi le percezioni immediate dei testi, delle opere d’arte e dei
comportamenti musicali» (p. 20). Il secondario e il parassitico spadroneggiano:
«L’umanità acculturata viene sollecitata ogni giorno da milioni di parole
diffuse dalla stampa, dalla radio, dagli schermi, a proposito di libri che non
leggerà, di musica che non sentirà, di opere d’arte sulle quali non poserà mai
lo sguardo. Un ronzio incessante di commenti estetici, di opinioni al minuto,
di giudizi pontificali pre-imballati, invadono l’etere» (p. 35). Non a caso,
conclude Steiner, il genio peculiare della nostra epoca è il giornalismo. La
novità prende il posto dell’originalità (origo:
ritorno all’incipit, all’inizio).
Dopo tanti anni, l’esperienza di educatore e il moltiplicarsi di “meta-testi”,
questa proposta mi sembra ancora più attuale, soprattutto nella scuola,
invogliandomi a buttare via la maggior parte dei manuali scolastici (storie
della letteratura, storia della filosofia) che annullano tutto il potenziale
rivoluzionario delle opere («correre il rischio della presa di coscienza» dice
Steiner): veniamo privati dell’incontro con la “vera presenza” che un’esperienza responsabile (sensata dico
io) dell’estetica dovrebbe imporci.
3.
Il patto infranto e la presenza
Nel capitolo centrale del libro (“Il
patto infranto”) Steiner analizza la rottura del patto tra parola e mondo
avvenuta tra il 1870 e il 1930 (diciamo da Rimbaud/Mallarmé alle avanguardie
storiche) che sarebbe una delle poche rivoluzioni autentiche dello spirito
nella storia occidentale, definitoria della modernità stessa. Questa rottura
definisce la nostra epoca come “dopo la Parola”, tempo dell’epilogo (ma anche,
dunque, come il tempo di un nuovo inizio). Sono i linguaggi matematici e
informatici a dominare il campo. Dalla crisi della parola, di cui tutta l’arte
novecentesca è testimone, dall’approdo al silenzio, nascono le estetiche della
crisi, la decostruzione, la semiotica negativa. Ma nel tempo dell’epilogo si
prepara un nuovo inizio, un nostos
alle origini. L’arte esiste perché esiste l’altro, che ostinatamente impone la
sua presenza. E dunque il testo poetico parla: «parla ad alta voce e parla a
qualcuno […]. Sono il poeta, il compositore, il pittore, sono il pensatore
religioso e il metafisico, quando danno ai loro riscontri la persuasività della
forma, ad insegnarci che siamo monadi perseguitate dal desiderio di comunione»
(p. 137). Ogni opera non fa che ripetere, con Rilke, questa affermazione:
«Cambia la tua vita»[4]. L’indiscrezione dell’arte
è totale: rimette in questione gli ultimi rifugi di privatezza della nostra
esistenza. L’opera ci invita perentoriamente a cambiare: «L’incontro con la
creazione estetica, assieme a certe modalità di esperienza religiosa e
metafisica, è il richiamo più “ingressivo”, più trasformativo nell’esperienza
dell’uomo» (p. 140). Ogni opera d’arte è un’“Annunciazione”. L’arte è il luogo
in cui quella pulsione profonda che si agita in noi, il «suggerimento
indistinto di una libertà smarrita o da riconquistare – l’Arcadia dietro di
noi, l’Utopia davanti a noi – bussa alla soglia più remota della psiche umana»
(p. 149). Ma l’arte, anche l’arte moderna, anzi soprattutto quella, ha una
scaturigine profonda, con cui lotta disperatamente, come Giacobbe con l’Angelo:
«La marca del fuoco e del ghiaccio di Dio pervade l’arte maggiore della nostra
modernità contraddittoria, come ogni grande creazione formale del passato» (p.
211). E perché? Perché ogni grande opera ha inizio nell’immanenza, ma non si
ferma lì: «È compito e privilegio dell’impresa estetica vivificare il continuum tra temporalità ed eternità,
tra materia e spirito, tra l’uomo e l’“altro”, per trasformarlo in presenza
luminosa» (p. 214). L’arte, dunque, diventa insensata in un mondo appagato
dalla razionalità scettica e dall’immanenza scientifica. Ma questo mondo sta
tramontando nella terra del tramonto.
[1] G. Steiner, Vere presenze, Garzanti, 1992.
[2] G. Steiner, La morte della tragedia, Garzanti, 2005 e Dopo Babele, Garzanti, 2004.
[3] Lo si
può leggere sul n. 3 di «Micromega» del 2003.
[4] «E questa pietra sfigurata e tozza /
vedresti sotto il diafano architrave delle spalle, / e non scintillerebbe come
pelle di belva, // e non eromperebbe da ogni orlo come un astro: / perché là
non c’è punto che non veda / te, la tua vita. Tu devi mutarla» (R. M. Rilke, Torso arcaico di Apollo, in Poesie, Einaudi, 1994, vol. I, p. 567).
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