lunedì 20 gennaio 2014

sabato 18 gennaio 2014

Sogno II


Henley - Un bambino




A child

A child,
Curious and innocent,
Slips from his Nurse, and rejoicing
Loses himself in the Fair.

Thro' the jostle and din
Wandering, he revels,
Dreaming, desiring, possessing;
Till, of a sudden
Tired and afraid, he beholds
The sordid assemblage
Just as it is; and he runs
With a sob to his Nurse
(Lighting at last on him),
And in her motherly bosom
Cries him to sleep.

Thus thro' the World,
Seeing and feeling and knowing,
Goes Man: till at last,
Tired of experience, he turns
To the friendly and comforting breast
Of the old nurse, Death.

William Ernest Henley

Un bambino

Un bambino,
curioso, innocente,
si perde nel parco-
giochi, sfuggito alla balia,
felice

Vagando
tra spintoni e frastuono,
fa festa,
e sogna, desidera, ottiene,
finché, all’improvviso
stanco e impaurito,
vede il groviglio di cose e persone
così come sono; e corre
piangendo alla balia
che infine lo trova,
e sul seno materno di lei
piange, sfinendosi, fino a dormire.
Così per il mondo va l’uomo:
e vede, sente, conosce.
Alla fine, sfiancato
dalle molte esperienze, si volge
al seno accogliente                    
della sua vecchia balia,

la Morte.

(Traduzione di Anna Rita Margio e Nicola Sguera)


venerdì 17 gennaio 2014

Che gioia il tuo desiderio...


Per aspera - Catia Manna



Ciao Nicola,
ho letto subito il tuo libro! Innanzitutto grazie per la dedica. La foto in copertina ci restituisce una bellezza d’altri tempi e la prefazione di Franco Arminio è preziosa, non soltanto per chi scrive poesie, ma anche per quelli che potrebbero essere i suoi potenziali lettori: «Abbiamo bisogno di sacro ma non in forma cerimoniale, in forma di fenditure, di incrinature... Il difetto delle raccolte di versi forse è proprio nel presentare solo i filetti, i lacerti della nostra esperienza, tralasciando le budella, i tendini, le vene, il sangue nero dello squartamento». La tua poesia, quella delle prime sezioni in cui si articola la raccolta, è delicata e in questo ti ho riconosciuto. Al sorriso di tua madre, ho pensato (I morti preghiera II). Proprio questa è la poesia che rileggo, l’Antologia di Spoon River dei tuoi affetti («Pace a nonna Anna, che visse per i figli fino al disprezzo di sé / Pace ad Angelina, che seppe servire senza essere servile / Pace a Gabriella, che ebbe in dono l’amore vero e un male mortale»). Chissà quale sarà la mia pace e se le persone che mi circondano avranno mai il mio  profondo, come tu l'hai restituito ad ogni nome a te vicino. Le poesie che ho preferito sono state dunque quelle appartenenti alle sezioni Matrix, Cronache e Bestiario. «Nessun animale è innocente o colpevole», come l’uomo vivo? Anche io amo molto gli animali, lo sfumarsi della nostra durezza in campagna: «Ci vorrebbe la pioggia, un contadino mi dice, dal volto scavato» (Il peccato); «Sarà lunga notte…fino a quando la fiamma brucia a cola la cera sulle tombe bianche, sulle ossa stanche» (Pace); «Ti vedo come parte di uno strano paesaggio, dove nei campi si perdono i lampioni» (La puttana contadina). Nella poesia I morti (preghiera) I ho rivisto questi versi de L'Ecclesiaste: «I morti non sanno niente /Compensi non ne hanno più / Nel ricordo non sono più». Degli ultimi componimenti, ho apprezzato, in particolare, A mia moglie. Grazie Nicola! Spesso, nelle poesie, anche in quelle di poeti riconosciuti oggi come importanti, a me, che non so nulla e sto cercando di imparare, sembra di vedere solo parole. Un abbraccio grandissimo.

Catia Manna 

* * *

Catia Manna, appassionata cultrice dei classici, è autrice di Tra le cinque e le sei (Lieto Colle).

lunedì 6 gennaio 2014

i festini dell'imperatore (2011)




Molti anni fa viveva un imperatore, oramai vecchio, ma non rassegnato al naturale scorrere del tempo. L’imperatore, per sconfiggere il pensiero della morte, amava tanto possedere giovani donne belle e procaci, che spendeva tutti i suoi soldi per trombare con la “massima eleganza”, come amava ripetere. Non si curava dei suoi sudditi o di affrontare le gravi questioni del paese. Aveva una zoccola per ogni occorrenza: quella alta, quella pienotta, quella bambina, quella stagionata… Mentre di solito di un re si dice: - È in Consiglio! - di lui si diceva sempre: « È un coniglio… Sta trombando… ». 
Tra i suoi svaghi preferiti, quello di far indossare abiti di strana foggia alle sue preferite: «Vieni qui, bella bambina…», diceva ad una col cappuccio rosso. E la fanciulla, sgranando gli occhi, doveva dire: «Che pisello grande che hai!» (ahimé, pietosa bugia, di fronte ad un onusto attributo tenuto in piedi da frequenti alchimie di maghi di corte). 
L’altro gioco prediletto dal sovrano coinvolgeva il suo eunuco, il Moro (o la Mora, come preferivano altri). Infatti, ogni sera, nei suoi sollazzi, la Mora doveva pronunziare la frase: «Mi chiamo Bingo Bongo». E il sovrano rispondeva con tono beffardo: «E in culo te lo pongo». Tutti ridevano (anche se, poscia, il povero sire in disgrazia avrebbe scoperto con sommo stupore che tali risate erano forzate, e che più spesso le sue preferite ridevano, lui ignaro, alle sue spalle: o del suo minuscolo attributo creduto un virgulto o della sua vecchiezza oramai decrepita, vanamente camuffata con tinture, lozioni e altre diavolerie). Ancora gli piaceva che le predilette vestissero con abiti da infermiera. E quando il sovrano diceva: «Bunga Bunga!» esse dovevano rispondere: «Permetta che la punga…»
Un giorno l’eccesso di pozioni magiche sul suo esausto arnese ebbe effetto deleterio e non rimediabile. Infatti, il sovrano si trovo con l’asta diritta perennemente. Invano i servi cercarono di legare il membro con cinghie… Qualunque cosa si tentasse, era chiaramente visibile il priapismo permanente del povero puttaniere regale… 
Egli continuava le sue uscite, millantando la sua virilità sovrumana…. I sudditi assistevano sbigottiti a queste parate surreali, con la patta regale aperta ad esibire tutta la sua miseria…
Un giorno, un bambino assistette alla scena e gridò: «Mamma, ma l’imperatore è come il nostro cane… ed ha pure il culo flaccido! Perché tutti dicono che è bello e forte? Non è che un povero vecchio malato». Le parole del bambino risvegliarono i sudditi dalla loro paura. Fermarono la carrozza e, senza irridere il povero vecchio con l’uccello al vento, lo portarono in una casa di cura dove, circondato da infermiere di mezza età, trascorse una serena vecchiaia. 
Da allora il paese visse non felice e contento ma quieto, senza essere schernito per il proprio sovrano dai paese vicini.  

Nessun senso


Goethe [Inutilità di ciò che solo istruisce]


Campana - Ritorno


domenica 5 gennaio 2014

lettera dall'aldilà




Ero ancora confusa e piena di rabbia per il modo brutale in cui non tanto io, mia madre e Valeria eravamo state uccise ma per Youssuf, quel figlio che sembrava te, se non per il colore della pelle chiara. Era il pensiero della sua vita terrena spezzata sul nascere che mi angustiava e mi faceva sentire una madre cattiva, che non era stata capace di proteggerlo da due mostri, fino al giorno prima vicini odiati e odiosi. Dopo, arrivata in un non luogo molto, molto lontano, dove forse tu arriverai tra molto, molto tempo, ho potuto vedere come me lo hanno ucciso mio figlio, tagliandogli la tenera gola perché piangeva disperato, nel caos di urla e sangue che Olindo e Rosa avevano creato inseguendo la loro follia. È questo ancora che mi strazia, Azouz. Ma intanto lui è con me, lui ora è me, come mia madre, come Valeria, come tutte le persone care perdute nel tempo e qui ritrovate, finalmente. Da qui ti ho guardato. Ho assistito alle accuse ingiuste nei tuoi confronti: non avresti potuto mai farlo, ovviamente. Carne della tua carne. Eppure, quando i nostri corpi si decomponevano lentamente nel gelo dei frigoriferi dell'obitorio, tu già scopavi con altre donne, immemore di tuo figlio con la gola tagliata. E i sensi di colpa li provavano le donne con cui ti appartavi in macchina. Già riprendevi a tirare coca, con la consueta incapacità di controllo. E in te si faceva strada la consapevolezza che questa era l'occasione della tua vita. E nel profondo del tuo cuore, in un luogo nascosto agli uomini ma a noi accessibile, pensavi confusamente che queste morti erano valse la pena, se ti avrebbero data certezza dell'impunità per i tuoi traffici, belle donne, soldi a palate, quelle macchine che popolavano i tuoi sogni. Noi non siamo scomparsi dal tuo cuore, anzi. Hai provato gratitudine per chi ha concesso, miracolosamente, a te, oscuro spacciatore tunisino, di apparire in televisione, elegante e reso desiderabile da quell'alone di fascino che circonda tutte le persone celebri. Ora sei di nuovo in galera. L'infamia maggiore è che tutti sanno quello che io vedevo giorno per giorno nel tuo cuore ottenebrato dai desideri. Chi è peggiore tra Rosa e Olindo e te, ci chiediamo? Loro che ci hanno ucciso o tu che hai costruito sulla nostra morte la tua poco duratura fortuna? Medita, Azouz, nel silenzio delle tue prigioni. La nostra morte avrebbe potuto permetterti di diventare quell'uomo che mai sei stato. Se avessi accettato di metterti all'altezza del dolore che ti veniva offerto. Hai scelto una strada semplice, larga,  piena di attrattive. Hai perso definitivamente te stesso e noi, che pure ti amammo e per te sacrificammo molto. Medita, Azouz.

Raffaella

* * *

Questa lettera immaginaria è ispirata alla strage di Erba, e risale al 2007.

Ernst Bloch [Ciò che tolleriamo]


Non rinnovo promesse


Apollinaire - Notte renana



Nuit rhénane

Mon verre est plein d'un vin trembleur comme une flamme
Écoutez la chanson lente d'un batelier
Qui raconte avoir vu sous la lune sept femmes
Tordre leurs cheveux verts et longs jusqu'à leurs pieds
Debout chantez plus haut en dansant une ronde
Que je n'entende plus le chant du batelier
Et mettez près de moi toutes les filles blondes
Au regard immobile aux nattes repliées
Le Rhin le Rhin est ivre où les vignes se mirent
Tout l'or des nuits tombe en tremblant s'y refléter
La voix chante toujours à en râle-mourir    
Ces fées aux cheveux verts qui incantent l'été
Mon verre s'est brisé comme un éclat de rire
                 
(da Alcools)

Traduzione di Anna Rita Margio e Nicola Sguera

sabato 4 gennaio 2014

Benjamin [Passato e redenzione]


Gesù


Gesù apocalittico?

Quando padre Alex Zanotelli fu nostro ospite a Benevento (per il fallito tentativo di creare una scuola di formazione politica di ispirazione cristiana), disse, durante l’incontro pubblico tenuto al Seminario, che «Gesù non era un apocalittico». Questa frase mia è rimasta impressa, e l’ho condivisa da subito. Nel profondo ripensamento sulla figura di Gesù, causato dalla lettura del libro intervista di Augias a Mauro Pesce, questa certezza si sta incrinando: l’etica “assoluta” di Gesù è comprensibile al di fuori di un orizzonte apocalittico? La fede che Paolo e i primi cristiani ebbero nella parusia non testimonia che il messaggio del Maestro riguardava il prossimo avvento del Regno di Dio? «Anche le radicali esigenze etiche di  Gesù sono interpretate da Schweitzer in chiave escatologica: etica interinale le chiama, propria di un breve tempo di transizione che deve preparare gli spiriti di quanti lo seguono al decisivo appuntamento con il giorno ultimo, quando questo mondo lascerà il posto a quello futuro in cui pace e giustizia si baceranno, secondo la felice espressione del Salterio ebraico» (Giuseppe Barbaglio, Gesù ebreo di Galilea. Indagine storica, EDB, 2002, p. 23). 

Il Regno

Gesù annunciava l’avvento del Regno di Dio. Un passaggio eonico, direbbe Marco Guzzi. Ma questo Regno è dentro di noi, è fuori di noi o, misteriosamente, in entrambe le dimensioni? E non è questo forse il più profondo segreto del cristianesimo gesuano, che cielo e terra si incontrino, esterno ed interno, qui e lì, adesso e domani? «Venga il tuo Regno»: è l’unica preghiera che riesco ancora a pronunciare. Ma cosa significa precisamente per me? Che cosa significa che deve venire il Regno di Dio? Lo imploro in me o nel mondo? Ed è possibile che venga nel mondo senza prima venire in me? Ed ha un senso che venga in me senza poi venire nel mondo? Questo il mistero da meditare in questo tempo senza preghiera: come viene il Regno? E come ci si purifica nell’attesa del Regno? Quale vita dobbiamo condurre per diventare degni del Regno?

Gesù

Ho completato la lettura del Gesù di Barbaglio. Un libro bellissimo, destinato a segnare profondamente la mia riflessione e la mia pratica spirituale.
Mi sembra di aver capito, finalmente, cosa intendesse Zanotelli quando diceva che Gesù non è un apocalittico: la venuta del Regno non è la distruzione del mondo e la sua ricostruzione ab imis, con la morte degli empi. Gesù annuncia una buona novella, in cui anche i reprobi, i peccatori, per grazia, vengono invitati al banchetto nuziale. 
L’ultimo capitolo del libro, quello sulla fede di e in Gesù, è fondamentale. Gesù aveva fede nel Dio biblico, di cui si considerava un emissario speciale in quanto annunciatore del prossimo avvento del suo Regno, di cui i miracoli che lui compiva erano segno, anche se tale regno si sarebbe esteso al mondo intero, dopo il suo timido apparire alla periferia del mondo. Il Pater sintetizza la fede di Gesù. La resurrezione, l’idea che Gesù fosse il Messia, il Signore, l’Unigenito figlio di Dio, il Figlio dell’Uomo che verrà a giudicare i vivi e i morti, la nascita miracolosa, il marianesimo… Tutto questo è elaborazione avviata da Paolo, dagli evangelisti e dalle comunità cristiane per cui i Vangeli furono scritti. 
Che senso ha per me definirmi “cristiano”, se già l’idea del “Cristo” non apparteneva probabilmente alla predicazione di Gesù? “Cristo” è parola greca che indica “l’unto”, divenuto, grazie a Paolo, quasi il secondo nome di Gesù. Io credo nel Dio predicato da Gesù, credo nella prossimità, sempre dilazionata, del Regno, e prego per il suo avvento. Rifiuto qualunque deriva gnosticheggiate o platonizzante: il Regno deve venire qui sulla terra, sicut in caeliis. Credo che seguire Gesù significhi non abbandonare casa, beni e famiglia, come fecero in suoi apostoli (un gruppo ristretto), ma agire nella consapevolezza che il Regno sta arrivando, quindi non dando peso alle ricchezze e agendo rettamente nei confronti degli altri. Ma ora non avrebbe senso la partecipazione al sacramento eucaristico inteso alla maniera cattolica, se non come ripetizione dell’ultima cena (approfondire la concezione di Lutero, Calvino, Zwingli e degli altri riformatori). Non hanno senso preghiere come l’Ave Maria, il Gloria, il Credo (ovviamente). La stessa lettura delle epistole paoline o dell’Apocalissi mi crea problemi.
Non mi sto ritagliando una fede su misura. Sto solo cercando di andare al cuore del messaggio gesuano.

(Dal Quaderno del 2007)

Dimora


Rilke - Sonetti a Orfeo




Traduzione di Giaime Pintor

venerdì 3 gennaio 2014

teoria e prassi




In un adolescente è già tanto iniziare ad avere consapevolezza che “un altro mondo è possibile”. Poi c’è tempo per adeguare i comportamenti: non è tanto facile. Ci possono volere anche anni. Almeno così è stato per me. Però è molto importante iniziare ad avere consapevolezza, iniziare a vedere le cose diversamente. Poi ci sono moltissime resistenza da vincere: l’educazione ricevuta, l’emulazione, la paura di uscire fuori dal coro. Dietro l’anticonformismo di facciata (il piercing, i pantaloni strappati ecc) si nasconde un conformismo di sostanza. E andare «in direzione ostinata e contraria» richiede sacrificio, capacità di reggere la critica. Quindi si inizi dalla consapevolezza. Si lavori sulle idee. Poi verrà il resto. Che i giovani siano comprensivi con se stessi.
La consapevolezza deve precedere l’azione. Questo il compito del pensiero, della filosofia: vivere con consapevolezza. Poi ci vuole tempo perché ci sono zone cristallizzate del nostro essere. L’uomo, insegna Aristotele, è un essere abitudinario. Esempio: io sono diventato vegetariano a 17 anni. Non è accaduto in un giorno: prima nacque la confusa consapevolezza che gli animali soffrono, e che io ero causa indiretta della loro sofferenza, poi gradualmente inizia ad eliminare, senza dire nulla a casa, alcune carni (maiale, vitello, pollo), poi il pesce, poi, dopo alcuni mesi, tutto, diventando esplicito nella scelta. 
Lotto nelle mie lezioni - da cristiano (un’altra contraddizione?) - qualunque “provvidenzialismo”. Se Dio è morto in croce, se Dio ha abbandonato i “sommersi” ad Auschwitz, quale Provvidenza dovrei cogliere nella storia? Cerco di far crescere cuori impavidi, che non temono di sporcarsi le mani per rendere migliore il mondo, senza alcuna garanzia che questo debba accadere. Se c’è un disegno nella storia, io non posso conoscerlo. Ma posso agire, qui ed ora, per rendere più umano il pezzo di mondo avuto in sorte. Questo è il principio-responsabilità. Che si regge su quella incertezza di cui meditava il capitano Staros ne La sottile linea rossa. Bisogna agire come se nella storia non ci fosse alcun telos (né immanente - Hegel, Marx - né trascendente - l’ebraismo, il cristianesimo). Noi diamo senso alla storia con il nostro agire.



 (Dal Quaderno del 2007)

Ungaretti - La notte bella


Epitaffio


Eraclito [Il divino]



giovedì 2 gennaio 2014

Foucault [La parresia]


Lee Masters - Il violinista Jones



Il violinista Jones 
La terra ti fa vibrare il cuore 
e quello sei tu. 
E se la gente è convinta che sai suonare 
allora devi suonare sempre in vita tua. 
Che cosa vedi, un raccolto di trifoglio? 
O un  prato da attraversare fino al fiume? 
Il vento è nel granturco; tu ti freghi le mani 
perché i buoi adesso son pronti per il mercato: 
oppure senti il fruscio delle gonne 
come quando le ragazze ballano al Boschetto. 
Per Cooney Potter una colonna di polvere 
o un  mulinello di  foglie significavano rovinosa siccità. 
Per me invece somigliavano a Sammy Testarossa 
quando balla al ritmo di Toor-a-Loor. 
E poi come potevo coltivare i miei quaranta acri 
-  e non parliamo di acquistarne altri -
con una confusione di corni,  fagotti e ottavini 
rimescolati dentro il mio cervello da corvi e pettirossi 
e il cigolare di un mulino a vento - solo questo? 
E ogni volta che cominciavo ad arare 
puntualmente qualcuno si  fermava per la strada 
e mi portava via a un ballo o a un pic-nic. 
Finii con  quaranta acri. 
Finii con  un violino distrutto. 
e una risata interrotta, e mille ricordi. 
e non un solo rimpianto,  neanche uno. 

(trad. di A. Quattrone)

Dal testo di Lee Masters, come noto, De Andrè ha tratto Il suonatore Jones.

rosa d'ombre



Ci sono giorni in cui ti svegli con il senso del tempo alterato. È la tua infanzia che ti siede accanto con gli occhi di una bambina che ti guarda senza parlare: adolescenza sgraziata, immagini sporche di riviste rubate, tremore e rossore ed un cielo sconosciuto che diventa distanza; o quella nel buio nella stanza sei tu che mi segui sempre, come un’ombra seconda che carezza l’anima e dice «ancora, ricorda ancora, più giù, fin nel fondo, e ripeti con me…». (E se fosse paura o senso di colpa che mi sospinge sempre a vele spiegate verso l’elegia?). Ed eccoti qui:

Sorriso a labbra strette,
occhi sospesi nel tramonto prima della sera,
la paura che ci prende al confine del buio.

Sul far dell’alba, lo sguardo attento e le labbra sottili, tratto di matita sul foglio, e il sorriso che esplode improvviso, baci sul collo indifferente e occhi indiscreti, la mano sul pube, il tuo corpo bambino e la voce che ripete il mio nome. Dov’è ora il tuo sguardo triste e il cristallo della risata che s’infrange? Ho aspettato per anni, davanti a telefoni muti, uno squillo e la tua voce distante, fino a quando hai detto «non posso…». Chissà se, attaccando, pensasti: «Finalmente, non ne potevo più di tanta poesia…», baciando quell’altro, più giovane. Sei davvero tu che vivi nel ricordo? O è un simulacro di te che faccio parlare? Ma tu non rispondi…

Basta a salvare quel volo abortito
un gesto improvviso che erode certezze?

Se solo rimane la fame oscena di amore, se ritorni, nel mio deragliare, a cercare un varco, lo scarto dai binari, oppure di nuovo mi tendi un sorriso, quale parola possiamo trovare che non sappia di marcio?

Eppure ancora la luna illumina chiara
quel grido d’amore sul volo caduto.

Tu lo sai. Ci sono parole che dilaniano, parole che cambiano ogni giorno e ci cambiano, metamorfiche…

La luna piena e tu inebriata
ballavi tra i rami di noce.

O forse no, forse non c’era la luna, ma era un giorno di pioggia, di quelli grigi, inutili, in cui niente vorremmo che accadesse ed invece cambia il mondo, e tu (ma chi tu?) non eri che un’ombra di me stesso che ascoltavi senza parlare mimando i miei gesti... (Cosa diresti ora tu? Che forse ero io a non essere altro che un’ombra, il riflesso di te che parlavi, parlavi sempre, ed io ad ascoltare, assentire, smarrito in un dedalo, prigioniero d’ossessioni senza futuro).
È il vizio antico della memoria che torna e reclama per le mie dimenticanze, richiede un valore alle assenze, le azioni incompiute, il bacio tentato nella penombra degli occhi. Macina, macina, macina quella polvere, i fogli bagnati, i segnali mancati, le delusioni...
Chi sei? La donna delle stelle cadute, delle mille parole che aspettavano l’alba? Li ri-cordi ancora quei baci? Ma tu non ricordi… E parole, sempre più distanti, di un amore perduto. Quanto seme gettato, amore dissipato… Ma non sei sola nell’informe ventre della notte. Sguardi diversi, lacrime, parole...
La quotidianità trascorsa con te, gli anni che passano, la semplicità dei gesti, la famiglia e le vacanze. Ma parole sempre più rare, difficili addii nella stanchezza dell’oggi. E quanta miseria... Certe volte bisogna essere spietati, come solo un maschio sa essere, per salvare futuro e speranza.
Oh, donna gentile: fughe e rincorse, sesso cercato con foga, sguardi da cui nascondersi, giorni rubati, amplessi gioiosi fino alle lacrime di rabbia e violenza. Infine la durezza dello sguardo. Eppure ancora ne ardo…
Tu, sempre tu, che corri ragazza sul ponte, ma tacchi a spillo ti tengono in equilibrio instabile e sorridi triste sui capelli perduti nella penombra della casa mentre ti guardo stupito e ti bacio. Tu che torni come un vizio. Meraviglia che balli tra rami e pioggia e gridi la tua rabbia di vita. La morte, il suo volto e improvviso la notte ai tuoi occhi.

Eppure io non capivo il gesto del capo,
- piegandosi piano al raggio di sole
stanco di penombra ammuffita -
che chiedeva ragione di silenzi improvvisi,
di occhi smarriti
che cercavano altri sguardi,
un segno di vita
che a te lentamente mancava.

E quando ballavi scomposta
tra alberi erosi dal vento
mentre pioggia inattesa bagnava i tuoi resti,
ancora mi fermavo stupito
- e ridevo.

Parole - che tu non volevi sentire -
il mio unico dono,
oppio che stordiva la mente
di te che gridavi,
che chiedevi la mano di me
- misero arbusto a cui ti attaccavi
mentre il giorno moriva -
che chiedevo la vita.

Ma qui non c’è elegia che tenga. È solo che passano gli anni e posso parlare. Perché di tutto alla fine riusciamo a parlare, per fortuna. Anche di ciò che ci ha annichilito. È che d’improvviso mi manchi, mentre cerco le tue ceneri stanche tra questi visi anonimi in mezzo a cui giro a vuoto nella ricerca disperata di ciò che era. Ma cos’era, cos’è?
Sì, sì, lo confesso, non è te che ricerco guardando nomi e lumini tra il caldo che in-ghiotte ogni odore, ogni speranza che sia fresco questo giorno, la penombra di te smarrita nell’oggi... Sì, è vero, non è il presente ma nemmeno il ricordo di ieri che scavo tra volti stranieri, nomi, vite, speranze deluse («sarai sempre nei nostri cuori»). Ma dove sono finiti tutti quei volti? Solo le parole che vivevo, la radice del sorriso nascosto di te, a cui ancora tendo anelante la vita perduta... Un urto, qualcosa che brucia nel sangue, il freddo che assale. Ma qui è un’altra vita, un altro luogo.
D’accordo, passo a passo, anche se non rispondi ed io non chiamo, nel vuoto, il ru-more come un cancro che corrode, e rode, rode il cuore e più niente rimane, se non l’errore, la paura. Odi? Sì, è così, il perdersi tra queste tombe, dove non ci sei, oramai naufragata nell’abisso del cuore.
E trovo: te, sgraziato stupore, che mi cammini accanto e mi rechi ancora un sorriso e un rimprovero, e mi chiedi di essere ora, infine, adulto, senza più infingimenti, e mi strappi ancora di bocca timide parole d’amore, dagli occhi un pianto che vorrei tenero, dal cuore il desiderio di tranquillità. Porti via, intanto, gli altri visi che compongono il mosaico del tuo volto: quelli sottili e attenti che chiedevano parole e cuore o solo un maestro, un compagno, un amico; quelli luminosi ma segnati dal tempo, che chiedevano un ultimo soffio di vita; quelli ridenti o pallidi, solcati dal pianto, che chiedevano spiegazione del silenzio e cercavano solo risposte; quelli rossi di desiderio; quelli in cui c’era solo una domanda; quelli muti… Di tutti, oggi, sei tu il senso e la risposta. Questo mi ripeto ostinatamente. Poi, però, mi accorgo che la sintesi è solo mia, come sempre. E che questo è consolatorio, perché è un modo per illudermi che ogni tessera amorosa componga un disegno finale. E se invece ogni storia che ho vissuto fosse una possibilità esperita solo in parte, e di cui non saprò mai la conclusione? E perché avverto il bisogno di una sintesi finale, di un volto che ricapitoli tutti i volti? Ho amato volti diversi, sono stato molti io diversi. Ora abito un volto, sono quest’io. Domani non so:

Dal vertice dei monti mi lancio
nel lago leggero dei tuoi occhi,
al vento confidando,
che è amico degli amanti, e alle ali
d’un cuore rinnovato dal tuo sguardo.

Da tronchi inceneriti docile
m’affido ad altre leggi.

E se la morte avrà il tuo volto
io benedirò cadendo.

Alla fine mi chiedo a chi ho parlato. A tutti i “tu” (al TU) della mia memoria o della mia speranza? O solo a me stesso o ai fantasmi che custodisco geloso?
«Ripeness is all». Un’altra voce (davvero altra, stavolta) ripete da giorni lontani. Ma tu non ci sei…

 Questo "esperimento" nacque all'interno dell'esperienza di "Soglie", webzine creata da me, Luca Rando, Enzo Pellegrini, Maria Domenica Savoia e Nunzio Castaldi. Io e Luca provammo a scrivere a partire dai testi dell'altro... Attribuimmo l'opera a Michael Sendivogius, alchimista.

Emerson [Il sentiero da fare]