sabato 29 febbraio 2020
venerdì 28 febbraio 2020
giovedì 27 febbraio 2020
mercoledì 26 febbraio 2020
martedì 25 febbraio 2020
E venne il giorno...
Se dovessi focalizzare l’angoscia di questi giorni non
penserei tanto o soltanto al Coronavirus ma soprattutto all’anomala primavera di metà febbraio che sembra accettata quasi come normalità. Il combinato delle
due cose suggerisce, al di là dei nostri tentativi di razionalizzazione (che
pure dobbiamo sempre alimentare), nel profondo, l’annunzio di una catastrofe («Poi
apparve nel cielo un gran segno: una donna vestita di sole, con la luna sotto i
suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle»).
Non sappiamo come andrà a finire. Potrebbe essere l’inizio
di una pandemia che falcidierà gran parte dell’umanità attraverso un virus
prodotto in laboratorio. È la storia raccontata magistralmente da Terry Gilliam
ne L’esercito delle 12 scimmie.
Oppure potremmo leggere gli eventi come una rivolta della
Terra, Gaia, organismo senziente secondo le teorie (contestatissime e fascinose) di Lovelock
(ma anche, sul versante della scuola junghiana, di Hillman), che inizia ad
indurre gli uomini a comportamenti autodistruttivi per tutelarsi dalla
devastazione, sebbene all’inizio si pensa sia colpa di un attacco biochimico
terroristico (interessante analogia con le tesi complottiste sul Coronavirus).
Il film in questione, E venne il giorno…, capolavoro “minore” e a mio avviso sottovalutato di un regista altalenante, Manoj Nelliyattu Shyamalan (film geniali come Ad occhi aperti, Il sesto senso, Unbreakable,
The village, Split e altri decisamente meno riusciti), ha un messaggio
"forte", come nello stile dell’autore, finanche didascalico: solo l’amore
salva.
Julian, il professore di matematica, homo cartesianus, è persuaso sino
alla fine che l’uso corretto della ragione porterà salvezza. Aveva detto: «Mia
madre mi ha chiamato di nuovo al cellulare. È isterica! Isterica! Le ho
continuato a ripetere che le probabilità che possa succedere anche a
Philadelphia sono pari a zero. Insomma, nessuno ci ha detto di lasciare la
città. Quindi le ho buttato lì dei numeri. A volte serve essere un professore
di matematica: le persone sono confortate dalle percentuali».
Elliot, sebbene anche lui cresciuto nel culto della scienza, che insegna, si “abbandona” gradualmente. Nella penultima scena del film, compiendo un gesto assolutamente irrazionale per raggiungere la moglie Alma (anima in latino, evocazione dell'Anima Mundi della tradizione neoplatonica?) e Jess, la figlia dell’amico matematico morto, e così – contro la razionalizzazione cartesiana - scommettendo à la Pascal, dice: «Se devo morire, voglio essere lì con te».
Dunque, sia che siamo avviati (come è poco realistico almeno nell’immediato) alla fine del mondo sia che questa crisi che stiamo vivendo diventi una storia da poter raccontare ai nipoti, l’insegnamento da trarne potrebbe essere sintetizzato con le parole splendenti di Giordano Bruno negli Eroici furori, massima esaltazione della forza salvifica di ἔρως:
Dunque, sia che siamo avviati (come è poco realistico almeno nell’immediato) alla fine del mondo sia che questa crisi che stiamo vivendo diventi una storia da poter raccontare ai nipoti, l’insegnamento da trarne potrebbe essere sintetizzato con le parole splendenti di Giordano Bruno negli Eroici furori, massima esaltazione della forza salvifica di ἔρως:
Sia chiar o fosco il ciel, fredd’o ardente,
sempr’un sarò ver l’unica fenice.
Mal può disfar altro destin o sorte
quel nodo che non può sciȏrre la morte.
Rafforziamo i legami amorosi, non lasciamo trionfare la paura che ci rende monadi mascherate.
Lo ha scritto Franco Arminio in una delle sue cose migliori.
Rafforziamo i legami amorosi, non lasciamo trionfare la paura che ci rende monadi mascherate.
Lo ha scritto Franco Arminio in una delle sue cose migliori.
lunedì 24 febbraio 2020
domenica 23 febbraio 2020
sabato 22 febbraio 2020
[Benevento-Italia] Morale di una crisi carnascialesca
La “crisi carnascialesca”, un unicum nella storia
probabilmente non solo cittadina, si è chiusa con il ritiro delle dimissioni
(che si erano dette “irrevocabili”) del Sindaco, Clemente Mastella, il quale,
in maniera irrituale ma in linea con il suo personaggio, ha spiegato alla città
in televisione il senso del suo gesto, spiegando in realtà ben poco.
Ma,
appunto, siamo a Carnevale, tempo di maschere, di finzioni. Il discorso di
Mastella (in sintesi: inaffidabilità di una parte della vecchia maggioranza, sintonia
con De Luca sulle grandi opere, bontà dell’operato fino ad oggi) cela l’indicibile:
un probabile accordo non solo con il Governatore campano ma anche ai massimi
livelli con Conte o suoi portavoce per l’ingresso di Sandra Lonardo nella
maggioranza parlamentare (senza escludere un suo ruolo nel Governo).
Noi che cerchiamo di capire razionalmente quanto accade
dimentichiamo spesso che Mastella gioca un’altra partita o più partite insieme.
Io personalmente ero convinto che volesse andare a votare e risalire in sella
con una maggioranza politica. E sicuramente questa è una partita che ha
giocato. Il niet leghista gli ha consentito di giocarne altre, a cui già si era
preparato. Questo spiega gli incontri con De Luca e i viaggi a Roma in un
momento di svolta del governo Conte, in cui ci si prepara a sostituire il “Joker”
Renzi, inaffidabile ed egolatra, con una pattuglia di “responsabili”.
La
resistenza, sicuramente apprezzabile, di un pezzo del PD locale (Segreteria cittadina e provinciale) e la presa di posizione di Italo Di Dio hanno
costituito un inciampo sulla via di un accordo che, in caso contrario, si
sarebbe potuto celebrare alla luce del sole, sancendo la nascita di una nuova
maggioranza consiliare, con un ritorno al passato, agli anni in cui Carmine Nardone
reggeva la Rocca dei Rettori e Fausto Pepe, mastelliano, veniva eletto
trionfalmente nel 2006.
È realistico che Mastella decida di continuare l’esperienza
di governo della città senza avere avuto garanzie da qualcuno? Potremmo
ipotizzare che saranno i tre esponenti legatisi a Claudio Mosè Principe
(Feleppa, Reale, Annarita Russo) a fare da stampella. Le dichiarazioni da
entrambe le parti e le rinnovate accuse del Sindaco (una suggestiva: «succhiaruote») inducono a crederlo poco probabile. Allora potrebbe essere
il gruppo “Patto Civico” (Sguera, Scarinzi, Paglia, Aversano) questo sostegno,
alcuni esponenti dei quali già sono stati “tentati” dal Sindaco con offerta di
assessorati (due o addirittura tre quelli da occupare). Ipotesi realistica? L’intervista recente di Scarinzi pare interlocutoria. Non credo che Mastella possa dare garanzie che rimanga nell'alveo del centro-destra. Infine, potrebbero essere i quattro esponenti del PD (Del Vecchio, De Pierro,
Fioretti, Varricchio a cui potrebbe aggiungersi Lepore) ad essere, in maniera
discreta, e in nome, appunto di indicibili accordi avvenuti a livello più alto,
questa ruota di scorta della consiliatura. Se Mastella nelle prossime settimane
diventasse un pezzo importante del governo e un elemento imprescindibile nel
Sannio per vincere alla Regione, potrebbero porsi come oppositori duri (per
altro – qui mi limito a trascrivere quanto letto un po’ ovunque – avendo fatto
fino ad oggi una blanda opposizione)? Certo, sarebbe davvero imbarazzante
questo “connubio”, considerando che il mantra dei tre anni alle spalle è stato:
«Stiamo rimediando agli errori delle giunte Pepe» (di cui erano parte Del
Vecchio e Lepore). Dovremo aspettare l’approvazione del bilancio per capirlo.
Considerazioni.
1)
Mastella potrebbe essere fatto cadere subito (o essere messo in condizione di non governare) se
ci fosse volontà politica. I numeri sono impietosi. Ma c’è la volontà politica?
2)
Mastella ha vinto o ha perso? Dipende da quale
partita stesse giocando. Ha perso se voleva andare al voto con una maggioranza
di centro-destra (FI+FdI+Lega). Ha vinto se nelle prossime settimane
traghetterà la sua maggioranza (allargatasi intanto) in un’area di
centro-sinistra, facendo un’operazione già fatta in passato e che è nella
logica del “centrismo” come l’ha sempre interpretato. Obiezione: ma ha giocato
contemporaneamente le due partite? Certo! E probabilmente qualche altra a noi
invisibile.
E gli altri? Il Movimento 5
Stelle certifica con i pochissimi candidati alla selezione per le Regionali e il pasticcio sul nome di Marianna
Farese una condizione di smarrimento (eufemismo!). Per altro, se l’accordo
innominabile davvero fosse stato chiuso, sarebbe imbarazzante fare opposizione
in loco ad un prezioso alleato del governo Conte. Insomma, ancora una volta Mastella
combatte utilizzando la sua natura “ibrida” (per sposare l’immagine finale del
comizio televisivo, quella dell’«animale politico», sicuramente molto più
«golpe» che «lione», ma soprattutto “gigante” perché capace di interloquire
direttamente con i livelli superiori della politica, lasciando ai “lillipuziani”
il livello locale).
“Civico 22” avrebbe potuto essere
un’esperienza nuova per come si era presentata. Errori e ambizioni personali l’hanno
azzoppata. Soprattutto, lo ripeto, la presenza assai ingombrante di un “boiardo
di Stato” come Costantino Boffa, e quella di Fausto Pepe, la rendono poco
credibile come cambiamento sostanziale. Mi auguro che Angelo Moretti e Pasquale
Basile possano riprendere un cammino più organico anche imparando a dire dei
no. Non ci sono uomini e donne per tutte le stagioni.
Ancora una volta, poi, con un’ostinazione
immemore dei propri smacchi, “Altrabenevento” si auto-legittima come soggetto
politico senza mai avere il coraggio (o l’onestà) di cimentarsi con la sfida
del consenso. La pretesa di fare di meritorie battaglie per la legalità un
progetto politico (a cui però altri dovrebbero garantire voti e truppe…) ancora
una volta porterà ad esiti fallimentari.
Purtroppo la crisi fulminea del
Movimento 5 Stelle a livello nazionale, riverberatasi anche qui, ha tolto la
speranza di cambiamento radicale della politica cittadina.
Lo scenario che abbiamo di fronte
è ben triste: un PD, ancora egemonizzato da Del Basso De Caro che, malgrado il
tentativo onesto portato avanti dalla Segreteria cittadina, non pare dissimile,
ove abbia amministrato o amministri, nei metodi dal vituperato (fino ad ora!)
Mastella; un movimento civico che, nato con grandi aspettative, ha compiuto
errori (anche grossolani) che ne hanno minato la credibilità; un M5S afono e
probabilmente ininfluente oramai anche dal punto di vista numerico.
Che cosa possiamo sperare? Prima
di tutto che finisca questa stagione “democristiana” nell’accezione peggiore
del termine. Questo tempo di compromessi al ribasso contro la minaccia leghista
che ha messo tra parentesi la democrazia, ancora una volta probabilmente in
virtù di quel “pilota automatico” evocato illo tempore da Draghi. E che nasca,
dalle viscere popolari del Paese, un bisogno di politica non mediatica, non
sardinizzata e inscatolata sin dall’inizio. E che Benevento possa essere dentro
questo rinnovamento. In ogni caso, il nostro dovere è non disperare. Se
ripercorriamo la storia beneventana dal 1993 ci renderemo conto che l’unica
vera, grande novità fu la prima elezione di Pasquale Viespoli. Il resto è stata
restaurazione e gestione “democristiana” con volti diversi. Ci può deprimere, non
angosciare.
Post scriptum
Come faranno persone con una storia importante alle spalle e sempre coerenti (penso in particolare al mio amico Mario Pasquariello) ad accettare il transito verso altri lidi?
Post scriptum
Come faranno persone con una storia importante alle spalle e sempre coerenti (penso in particolare al mio amico Mario Pasquariello) ad accettare il transito verso altri lidi?
venerdì 21 febbraio 2020
giovedì 20 febbraio 2020
mercoledì 19 febbraio 2020
martedì 18 febbraio 2020
Il cinema e la filosofia: esperienze sul campo
Aristotele e Spielberg montati su un fotogramma di "Stalker" (A. Tarkovskij) |
Mi capita
spesso di ripensare ad una sera del 1982 in cui andai a cinema per vedere, pensavo,
un film di fantascienza, dello stesso regista di Alien, e questo era una garanzia. Frequentavo la prima liceale, corso
B, del Giannone.
Quell’evento, la visione di Blade Runner, mi avrebbe, in qualche modo, cambiato la vita. Fu
un’esperienza estetica certamente dirompente. Quella Los Angeles futuribile
eppure così realistica, battuta da una pioggia sporca e pesante, senza requie,
e una commistione di razze, di usanze, le musiche elettroniche di un
compositore greco, poi assurto a grande fama, Vangelis. Ma soprattutto il tema
affrontato: androidi che si ribellano, che ricercano disperatamente
un’identità, che pensano, che amano! Poi avrei scoperto che il film di Scott
era tratto dal racconto di un geniale e sfortunato scrittore, Philip Dick, e
che il titolo di quel racconto suona in italiano: Possono gli androidi sognare pecore elettriche?.[1]
Fui talmente impressionato da quel film che, quando il nostro professore di
italiano, Vittorio Cappelluzzo, ci chiese per il compito in classe di parlare
di un avvenimento che ci aveva colpito, io sentii l’urgenza di parlare di ciò
che quel film aveva prodotto in me. In particolare, riflettevo sulla
possibilità inaudita che un essere artificiale potesse avere un anima… E
risuonavano quelle parole straordinarie, pronunciate dal leader degli androidi
in fuga, sotto la pioggia: «Io ne ho viste cose che voi umani non potreste
immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e
ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti
quei momenti andranno perduti nel tempo... come lacrime nella pioggia. È
tempo... di morire».
Quando decisi (sì, ricordo che lo decisi a diciassette anni) di diventare professore, presi solenne impegno di non tradire le mie passioni giovanili: il cinema ma soprattutto il fumetto. Come avrei letto in una poesia di Eluard, sognavo di stabilire rapporti «fra le grotte fatate e la valanga / fra gli occhi pesti e le risa allo stremo […] / fra l’araucaria e la testa di un nano» (La necessità).[2] Avevo l’oscura percezione che quei mondi fatati non erano il rifugio di fantasie adolescenziali. La mia esperienza di questi anni è stata una risposta a quella promessa: penso al corso di fumetto fatto per due classi ginnasiali, penso alle lezioni sulla spiritualità in Battiato (durante le giornate di LIC…enza) e l’opera di De André, penso, soprattutto, all’uso che faccio del cinema nel mio insegnamento tanto della storia quanto della filosofia. È possibile coniugare il lasciato straordinario degli antichi saperi, della cultura greca, della filosofia, l’indagine storica, con i mezzi espressivi creati nel corso del XX secolo.
2. La didattica filosofica e
il cinema
Per fortuna, la
riflessione sul rapporto tra cinema e filosofia si è consolidata negli ultimi
anni anche a livello accademico. In un recente manuale di didattica filosofica,
ad esempio, tra i vari contributi spicca quello di Umberto Curi dedicato,
appunto, alla questione. Rileggendo e riattualizzando alcune indicazioni della
Poetica aristotelica, Curi arriva a sostenere che «è possibile “imparare” e
“ragionare” guardando le immagini, meglio e più facilmente, di quanto non possa
accadere con l’esercizio filosofico tradizionale». [3]
Per questo motivo preferisco rinviare ad una bibliografia di base quanti
fossero interessati tanto agli aspetti teorici del problema quanto ad alcune possibili
applicazioni pratiche, dedicandomi, invece, ad illustrare il lavoro sul campo
svolto con le mie classi.[4]
Ho sempre
considerato il cinema uno strumento prezioso nell’insegnamento della filosofia,
seppure per motivi diversi. Non ho mai avuto in mente in particolare i film
nati con una voluta connotazione “filosofica”, come ad esempio le pur pregevoli
opere divulgative dell’ultimo Rossellini (Cartesio,
Pascal, Agostino), quanto film che si prestano ad una lettura filosofica.
Sin dall’inizio, dunque, del lavoro di sperimentazione che ho sempre cercato di
condurre, soprattutto nell’insegnamento della filosofia, ho innestato, in
momenti diversi dell’anno, dei momenti di visione di opere cinematografiche
legate a problematiche affrontate attraverso gli autori canonici del “programma”.
Negli ultimi anni ho provato, invece, ad inserire un vero e proprio modulo
integralmente dedicato all’analisi “filosofica” di un film, con tanto di
verifica finale.[5]
3. Matrix
e Platone
Lo scorso anno, con una
prima liceale, ad inizio anno, ho dedicato tre lezioni alla visione di Matrix, film di fantascienza uscito nel
1999 dei scritto e diretto dai fratelli Andy e Larry Wachowsky. Ho avuto cura,
durante la visione, di dare una serie di chiarimenti e di stimolare nei ragazzi
la riflessione su possibili significati “nascosti” del film. Credo che il
vantaggio (rispetto ad un testo esplicitamente filosofico) di un film (oltre al
medium stesso, il linguaggio del quale i ragazzi conoscono precocemente) sia
soprattutto nella compresenza di più livelli di lettura. Matrix, ad esempio, può essere visto come uno spettacolare ed
intrigante film fantasy, in questo paragonabile a molti altri “prodotti”
dell’industria cinematografica, che per lo dedita all’intrattenimento. Ma,
nello stesso tempo, come alcuni altri film di “genere” (ad esempio, I.A. di Spielberg), si presta ad una
lettura molto più complessa. Questa la sintesi del film: «In un indeterminato
futuro la specie umana è controllata e sfruttata dalle macchine che, in forza
del livello tecnologico che hanno raggiunto, fanno credere agli esseri umani
che questi vivano liberamente nel mondo del XX secolo mentre in realtà sono
imprigionati in speciali contenitori, allevati unicamente allo scopo di
ottenerne l’energia necessaria alla sopravvivenza meccanica».[6]
Alla fine di un complesso lavoro di “conoscenza”, il protagonista, il cui nome
da hacker è Neo, riuscirà (apparentemente, perché poi ci saranno due sequel che complicheranno la vicenda) a
liberare gli uomini da Matrix. È evidente che il riferimento più esplicito è al
“mito della caverna” (Repubblica,
VII, 514 b – 520 a ).
I fratelli Wachowsky, dunque, illustrano in maniera innovativa l’antichissima
credenza, tipica di alcune religioni orientali e del platonismo, che il mondo
sia una “copia”, e che la maggior parte degli uomini vivano immersi nelle tenebre,
e che solo attraverso un doloroso processo sia possibile liberarsi e accedere
alla luce della verità. Altro tema portante del primo Matrix è la critica al macchinismo, che ha una nobile genealogia
nella cultura fantascientifica, se pensiamo a molte opere di Asimov o, nel
cinema, a film come Metropolis di
Lang, per citare un classico, o Terminator,
per citare un film di grande successo. I riferimenti filosofici in Matrix, però, sono tali e tanti che uno
studioso americano, William Irwin, ha pubblicato un’opera collettanea (con la
prestigiosa collaborazione di Zizek) tradotta in italiano con il titolo Pillole rosse,[7]
titolo che si riferisce alla possibilità che viene offerta a Neo da Morpheus,
leader della resistenza al mondo delle macchine, di scegliere (il tema della
scelta e del libero arbitrio sarà il cuore del secondo Matrix, Reloaded) tra una pillola che lo liberi dall’illusione e
una che gli faccia dimenticare tutto e tornare, come se nulla fosse successo,
alla sua vita normale.
Il film è disseminato di citazioni esplicite: ad esempio,
sulla porta della cucina dell’Oracolo (che è una donna di colore), campeggia la
scritta del tempio delfico, in latino: «Temet nosce», che – come sappiamo – è
uno dei fulcri dell’insegnamento socratico. E il percorso di scoperta di ciò
che il protagonista è realmente (l’Eletto, chiamato a salvare l’umanità)
definisce l’intero plot del film.
Perché, dunque, un film come Matrix
si presta bene ad un’operazione di innovazione nell’insegnamento della
filosofia (a patto che esso si integri in un programma dove ci sia spazio per
la lettura diretta dei testi filosofici e la discussione problematica sui
grandi nodi del pensiero)? Perché, mentre il ragazzo si appassiona ad una
storia intrigante, piena di colpi di scena, inseguimenti, sparatorie, lotte
modellate sulle arti marziali, mentre entra ed esce dal per lui familiare mondo
dei videogiochi, se opportunamente guidato può interrogarsi su alcune questioni
capitali della filosofia: il mondo che io percepisco con i sensi esiste
realmente? Esiste un mondo non percepibile con i sensi? Io sono libero o tutto
ciò che faccio è “programmato”? Chi sono io? Mi conosco realmente o sono solo
le maschere che la società mi ha costretto ad indossare? E posso liberarmi da
queste maschere? Gli uomini sono realmente i “padroni” del mondo o hanno posto
le basi per un dominio tecnico delle macchine, rischiando così di diventare
“servi del proprio servo” (cioè le macchine che inizialmente lo servivano)? Le
macchine possono “pensare”? I ragazzi, per approfondire queste tematiche, hanno
avuto a disposizione anche un saggio di Diego Marconi[8]
e il saggio di Irwin, “Computer, caverne e oracoli: Neo e Socrate” (tratto da Pillole rosse), un brillante confronto
tra il protagonista del film e il fondatore della filosofia occidentale, in cui
mostra come il messaggio finale del film riguardi l’invito a seguire la propria
strada con coraggio e determinazione, anche rischiando la morte. La verifica del
“modulo” è consistita, come mio costume, in una breve analisi testuale (tratta
da un altro saggio dello stesso libro, “La simulazione di Matrix e l’epoca postmoderna”
di David Weberman) e una serie di domande a risposta aperta del tipo: «Perché
Cypher tradisce Morpheus?»; «Che cosa dice l’Oracolo a Neo? Che lui è l’Eletto?
Che lui non è l’Eletto? Altro ancora? Motiva la tua risposta»; «Qual è il rapporto
tra uomini e macchine in Matrix?»; «Quali sono le scelte decisive
che Neo compie nel corso della vicenda?»; «Come si manifesta la consapevolezza
acquisita da Neo di essere l’Eletto? Chi svolge il ruolo di tramite verso
questa consapevolezza? In che modo?». La collocazione del lavoro tra ottobre e
novembre ha consentito di utilizzare una serie di conoscenze realizzate
attraverso questo modulo atipico per la prosecuzione del programma.
4. La “sottile linea rossa” tra la il fisico e il metafisico
Quest’anno, invece, ho innestato l’analisi di un
film diverso sull’impianto radicalmente diverso della programmazione, avviata
nella prima liceale con un modulo dedicato alle cosmogonie e alle cosmologie
(da Esiodo a Vito Mancuso, un cui testo chiudeva la riflessione). Ho scelto
un’opera molto complessa, sicuramente difficile per dei ragazzi: La sottile linea rossa di Terrence
Malick.[9]
In questo caso lo “zucchero” era costituito dalla parata di star presenti nel film, volti noti al
pubblico giovanile: da John Travolta a Nick Nolte, da Sean Penn a George
Clooney. Il film racconta della conquista di un campo d'aviazione giapponese
posto in cima ad una collina dell'isola di Guadalcanal durante la seconda
guerra mondiale. Il gruppo di militari è guidato dal mite capitano, agli ordini
di un ambizioso colonnello: «durante il lungo assalto alla collina si
consumeranno le vicende e i tormenti interiori di un gruppo di uomini costretti
a confrontarsi con i propri doveri e la follia della guerra, mentre la natura,
lussureggiante e indifferente, sembra cullarli e contrapporsi alla loro logica».[10]
La complessità del film mi ha spinto a preparare una sorta di schema dei
personaggi, ognuno dei quali incarna una possibile risposta alla grande domanda
posta all’inizio: «Cos’è questa guerra stipata nel cuore della natura? Perché
la natura lotta contro se stessa? Perché la terra combatte contro il mare?».
Dunque, il film, che erroneamente fu interpretato – visto anche la quasi coeva
uscita di Salvate il soldato Ryan –
come un film “di guerra”, utilizza, come Matrix,
un genere codificato per porre un interrogativo filosofico, antichissimo, se è
vero che Eraclito l’Oscuro scriveva: «Il Conflitto (Polemos) è padre di tutte le cose e di tutti re».[11]
La guerra, chiede interrogativamente Malick, è non solo ciò che rende l’uomo
tale ma principio nascosto dell’intera vita naturale, che non lascia scampo a
nessun possibile “paradiso”? Il protagonista del film, una sorta di “idiota”
dostoevskijano, un personaggio mite e gentile, sembra aver trovato questo
paradiso in un villaggio aborigeno, salvo scoprire alla fine che anch’esso è
minato dallo stesso oscuro male del conflitto e della violenza, e, dunque,
accettare il destino del conflitto, morendo da eroe. Non esiste salvezza
nell’amore, se un altro personaggio, che dialoga incessantemente con la donna
amata al di là delle acque dell’oceano, divenute una sorta di Acheronte,
evocative del mito di Orfeo ed Euridice, scopre alla fine che ella lo ha abbandonato.
L’unica risposta positiva sembra essere quella tutta umana del sergente duro
con i suoi uomini ma intimamente lacerato dalle loro sofferenze e del capitano
che sacrifica la sua carriera alla salvezza dei suoi. Risposte etiche, per così
dire, che si contrappongono al cinismo di altri ufficiali, sospinti da volontà
di potenza, speranza di ascesa sociale. Alla fine, però, il film sembra
ribaltare questa cupa visione del mondo, perché una voce recita questa sorta di
preghiera panteistica: «Dove eravamo insieme, chi eri tu? Quello col quale ho
vissuto, camminato, il fratello, l'amico. Buio dalla luce, conflitto dall'amore.
Sono il frutto di una sola mente, i tratti di un solo volto. Oh anima mia, fa
che io sia in te adesso, guarda attraverso i miei occhi, guarda le cose che hai
creato. Tutto risplende». A rimarcare questa torsione religiosa del film, ho
fatto leggere e commentare ai ragazzi una pagina del Baghavad-Gita, dove, in particolare, Krhsna erudisce Arjuna: «Tu
non desiderare, non domandare; agisci,
ma lascia il frutto delle tue azioni. Cerca rifugio in questa disciplina, senza
attaccamento alcuno. Il successo e l’insuccesso sono uguali».[12]
Mi è parso, infatti, che il comportamento del protagonista nasca
dall’illuminazione sulle cose del mondo, e dalla consapevolezza che bisogna
agire senza curare il frutto delle azioni. Perché? Perché questo mondo è
“apparenza”, Maya. Altrove c’è la risposta alla domanda iniziale, in una
dimensione sovratemporale, meta-fisica, che solo attraverso la purificazione e
la morte si può raggiungere. E, sempre in una prospettiva “religiosa”, ho letto
una celeberrima poesia di Montale, Spesso
il male di vivere ho incontrato,[13]
dolente meditazione, senza illuminazione finale, se non il “distacco”,
l’atarassia, sulla sofferenza cosmica. Infine, i ragazzi hanno letto alcuni
saggi critici dedicati al film, alcuni densi di riferimenti letterari e
filosofici.[14]
Nella verifica di fine modulo chiedevo, ad esempio, di schematizzare le vari
opzioni “esistenziali” (cioè le scelte di vita) dei personaggi principali del
film, di descrivere la vicenda amorosa del film, i simboli e i miti ad essa
connessi, di analizzare il rapporto padre/figlio che viene ripetutamente
evocato, di discutere criticamente i testi letti e i saggi critici analizzati.
In riferimento alle cosmologie classiche e ai primi filosofi greci, ho chiesto,
ad esempio, di analizzare gli elementi presenti nel film. Un’allieva ha scritto:
«Il loro compito è quello di concentrare l’attenzione sul rapporto uomo-natura.
L’elemento più presente è l’acqua. Quella del mare rappresenta il grembo
materno, la perfezione che ognuno di noi ha provato almeno una volta e di cui
avverte la mancanza. Non a caso rappresenta il raggiungimento finale della
“gloria” da parte del protagonista.[15]
Al fuoco sono riconducibili sia le scene di distruzione (bombe, capanne in
fiamme) sia il rapporto con Dio. Il capitano prega e si vede una candela come
simbolo mistico, porta attraverso la quale la realtà divina entra in rapporto
con quella umana (con evocazione di una simbologia biblica). La terra è,
invece, il simbolo della mortalità: “Siamo polvere, siamo solo polvere…”».
La risposta dei ragazzi è stata molto interessante
in entrambi i casi. È stato per me possibile veicolare contenuti complessi,
densi, spesso oscuri, utilizzando la forza suggestiva delle immagini, che hanno
grande importanza nella filosofia studiata il primo anno.
5. Il cinema,
linguaggio universale del mito contemporaneo
Il mio percorso molto anomalo probabilmente spiega
l’ansia di sperimentare nuove strategie e nuovi approcci alla disciplina.
Infatti, il mio incontro con la filosofia non ha avuto un passaggio, se non marginale
e, per certi versi, casuale, accademico.[16]
Diciamo (questo ripeto il primo anno agli alunni) che sono un autodidatta.
Probabilmente questo consente maggiore libertà rispetto ai “programmi”
canonici. Soprattutto nei primi due anni del triennio (il terzo con l’esame di Stato
pone problemi particolari, ovviamente), pur mantenendomi nei limiti cronologici
previsti e con ampi riferimenti agli autori canonici, cerco di impostare moduli
alternativi. Quello sul cinema è una dei possibili, ma certamente quello più
intrigante per un adolescente, quello che lascia tracce maggiori nel tempo. Io
spero che, oltre ad avere positivi effetti per lo studio della filosofia, tale
scelta sviluppi anche una maggiore attitudine critica nella fruizione del
cinema, che – anche grazie alle pay tv – è diventato uno degli strumenti
primari di formazione di coscienza etica e gusto dei giovani. Inoltre è mia
persuasione che il bagaglio di “miti” che ogni civiltà presuppone nei suoi
membri (il mondo degli dei e degli eroi omerici per la Grecia , ad esempio) oggi
sia plasmato, appunto, dall’immaginario cinematografico. È mia persuasione che
la funzione “modellizzante” un tempo svolta da Achille, Enea, Orlando, dai tre
moschettieri, oggi venga svolta dagli eroi di celluloide. È molto più facile
stabilire un ponte comunicativo con i ragazzi utilizzando il codice filmico e
tutto l’immaginario ad esso connesso che sforzandosi di inculcare loro modelli
e miti “fuori tempo”. Sia chiaro: non sto dicendo che quel mondo vada
abbandonato. Non dobbiamo, però, illuderci che esso funzioni come trenta o
quaranta anni fa.
Conto, dunque, di proseguire questo tipo di
esperimenti: penso, in particolare, a Spielberg e al suo cinema “etico”, a
Bergman e al suo “esistenzialismo”, a Tarkovskij e al “mistero” che egli
indaga.[17]
Ma non necessariamente deve trattarsi di film “difficili”. Ad esempio, ritengo
che La guerra dei mondi di Spielberg,
apparentemente solo un film di fantascienza, sia una perfetta esemplificazione
dell’etica della responsabilità.[18]
Il cerchio si
chiude: quell’adolescente che per la prima volta fu indotto a pensare da un
film, oggi cerca di spronare al pensiero i suoi allievi utilizzando macchine
spettacolari, attualizzando antiche ricette pedagogiche: «Cosí a l'egro fanciul
porgiamo aspersi / di soavi licor gli orli del vaso: / succhi amari ingannato
intanto ei beve, / e da l'inganno suo vita riceve».
[1]
P. K. Dick, Ma gli androidi sognano
pecore elettriche?, Fanucci, 2007.
[2]
Cit. in A. Gnisci, Spighe. Saggi di
letteratura comparata, Carucci 1986, p. 43.
[3]
U. Curi, Cinema e filosofia, in
AA.VV., Insegnare filosofia. Modelli di
pensiero e pratiche didattiche, a cura di L. Illetterati, Utet, 2007, p.
292.
[4]
G. Deleuze, L’immagine-movimento,
Ubulibri, 1985; G. Deleuze, L’immagine-tempo,
voll. 1 e 2, Ubulibri, 1989 e 2004; U. Curi., Lo schermo del pensiero. Cinema e filosofia, Raffaello Cortina,
2000; J. Cabrera, Da Aristotele a
Spielberg. Capire la filosofia attraverso i film, Bruno Mondadori, 2000; A.
Sani, Il cinema tra storia e filosofia,
Le Lettere, 2002; J. A. Rivera, Tutto
quello che Socrate direbbe a Woody Allen,. Cinema e filosofia, Frassinelli,
2005; U. Curi, Un filosofo a cinema,
Bompiani, 2006.
[5]
Ottimi spunti per la sperimentazione di moduli su cinema e filosofia si trovano
negli articoli che Andrea Sani va pubblicando sulla rivista «Diogene.
Filosofare oggi», edita dalla Giunti (si veda anche il sito: http://www.diogenemagazine.eu). Ecco
alcuni titoli: Dalla robotica alla
robotica. L’etica nel mondo dei robot (n. 1, ottobre 2005), Frank Capra e il migliore dei mondi (n.
3, maggio 2006), Kubrick, Nietzsche e il
Superuomo (n. 7, maggio 2007)
[6]
Voce “Matrix” di Wikipedia,
http://it.wikipedia.org/wiki/Matrix.
[7]
AA.VV., Pillole rosse. Matrix e la
filosofia, a cura di W. Irwin, Bompiani, 2002.
[9]
Malick è una delle figure più originali dell’attuale panorama cinematografico.
Autore di soli quattro film nell’arco di trent’anni, laureato in filosofia ad
Harvard, nel 1969 ha
tradotto in inglese l'opera di Martin Heidegger, Vom Wesen des Grundes - The
Essence of Reasons, (Evanston, Northwestern University Press).
[10]
http://it.wikipedia.org/wiki/La_sottile_linea_rossa_(film_1998)
[11]
È il celebre frammento 53, in
H. Diels-W. Kranz, I Presocratici (a
cura di G. Reale), Bompiani, 2006, p. 353.
[12]
http://www.guruji.it/bhagavadgita/gita.htm
[13]
E. Montale, L'opera in versi,
Einaudi, 1980.
[14]
A. Piccardi, “Lo sguardo disumano: La
sottile linea rossa”, B. Fornaia, “In viva morte morta vita vivo”, P.
Vecchi, “Il regista che cadde sulla terra”, F. La Polla , “Soldati e filosofi”,
in «Cineforum» n. 382, marzo 1999.
[15]
« Un uomo guarda un uccello morente e pensa che la vita non sia altro che
dolore senza risposta, ma la morte che ha l’ultima parola ride di lui. Un altro
uomo vede lo stesso uccello e sente la gloria, sente nascere la gioia eterna
dentro di sé». Era uno degli aforismi tratti dal film che abbiamo analizzato.
[16]
Per “imposizione” della mia docente di letteratura italiana contemporanea,
Bianca Maria Frabotta, con la quale mi sarei laureato con un tesi sull’opera
poetica di Franco Fortini, seguii un esame di filosofia (Estetica, Emilio
Garroni), che poi mi avrebbe consentito l’acceso al concorso a cattedra.
[17]
Considero l’opera di Andrej Tarkovskij uno dei grandi lasciti dell’arte
novecentesca tout court, e le sue
riflessioni sul cinema un libro fondamentale di estetica, poesia e spiritualità
(Scolpire il tempo, Ubublibri, 2002).
[18]
Molto interessante l’esperienza didattica svolta al Carducci di Roma sul
rapporto tra il cinema di Kieslowski e l’etica di Lévinas, descritta in http://www.swif.uniba.it/lei/scuola/scuole/etica.pdf.
[Apparso in «Api ingegnose», 2016]
lunedì 17 febbraio 2020
Un matrimonio di interesse ma non per colpa della legge elettorale [πολιτική]
Non ho mai visto un matrimonio peggio assortito di quello
tra Movimento 5 Stelle e Partito Democratico. Questo non vale tanto e solo per
la diffidenza, che talvolta cela a stento il disprezzo, tra i rispettivi gruppi
dirigenti ma soprattutto per l’astio che regna tra gli elettori e gli
attivisti. Ovviamente i social sono specchio di tale situazione. È surreale
leggere discussioni (a me capita spessissimo sulla mia bacheca FB) in cui un
osservatore ignaro non potrebbe assolutamente capire che stanno dialogando
(meglio: si stanno offendendo) persone che razionalmente e scientemente
appoggiano il medesimo governo. Ci troviamo, dunque, di fronte ad un tipico
matrimonio “d’interesse” in cui la segreta (ma non troppo!) speranza dei
coniugi è che l’altro defunga (elettoralmente) anzitempo.
Nelle letture quotidiane mi ha colpito, però, un argomento
utilizzato dai pentastellati per giustificare l’imbarazzante convivenza con
quelli che fino alla nascita del Conte II erano i “pidioti”. E cioè che (cito
quasi alla lettera) fosse l'unica possibilità esistente, dopo una legge
elettorale fatta da tutti i partiti politici, tutti nessuno escluso, apposta
per non far vincere il M5S da solo. Premesso che viviamo in un tempo privo di
memoria per cui i politici sanno che possono dire qualunque cosa (che pure sarà
resa eterna dai media ma senza incidere sulle decisioni degli elettori), mai
come in questo caso “liquido”, mi permetto di ricordare ai miei vecchi compagni
di strada un pezzetto della storia condivisa.
Agli inizi del 2014 gli iscritti alla piattaforma furono
chiamati, con una procedura innovativa, che prevedeva esperti (il più celebre
dei quali avrebbe lasciato il M5S pochi mesi prima dell’accordo assurdo con la
Lega, Aldo Giannuli) illustrare alcune opzioni elettorali messe al voto. Un
procedimento “pedagogico” con tempi adeguati, fatto per evitare il voto “di
pancia” che avrebbe connotato altre votazioni on-line.
Sulla base delle otto votazioni degli attivisti fu elaborata
una proposta di legge presentata nel luglio 2014.
Ebbene, la legge in questione prevedeva un sistema
proporzionale.
È possibile leggere una ricostruzione dettagliata di tutte
le leggi elettorali appoggiate dal M5S. Ebbene, nessuna di esse avrebbe mai
garantito, anche nel momento di massimo successo, di governare autonomamente,
di «vincere».
Personalmente ho sempre difeso il proporzionale, anche
quando fui schiacciato, insieme a pochi altri, dalla propaganda che lo voleva
causa della democrazia "bloccata” italiana: il famoso (famigerato?)
referendum Segni-Occhetto. Il proporzionale è una garanzia per la democrazia ed
evita una scollatura troppo marcata tra il Paese vero e la sua rappresentanza. Ma
se questo è vero perché gli attivisti oggi si appellano alla legge elettorale
per spiegare il connubio forzato con l’odiato PD? La verità è che il M5S prima
di smarrire la strada era consapevole della sfida ardua di diventare un partito
maggioritario da solo dentro un sistema proporzionale, cioè senza scorciatoie.
Veniamo all’oggi. Il Movimento, dopo la (grottesca?)
manifestazione romana contro il proprio stesso governo sui vitalizi, dovrebbe
convincersi che indietro non si torna. So bene che i miei sono consigli non
richiesti e poco graditi: difficile riconoscere di aver sbagliato non una volta
ma tante. Ciò nonostante mi permetto di suggerire di chiudere con la laudatio
temporis acti, sognando il ritorno all’epoca della “verginità” politica. Troppo
spesso mi capita di parlare con amici che rimpiangono quella “purezza” oramai
perduta. Si prenda atto che il M5S è diventato un partito a tutti gli effetti
che deve fare scelte di campo nette. Perderà inevitabilmente un pezzo del
proprio elettorato ma potrà diventare attrattivo per una nuova generazione.
Meglio in ogni caso dello stillicidio cui stiamo assistendo.
Per intanto, suggerisco ai coniugi infelici una seria terapia di coppia in attesa che gli Stati Generali (omaggio onomastico alla stagione “rivoluzionaria” del Movimento) aiutino a far chiarezza (o a far
esplodere le contraddizioni tra le tre o quattro anime in maniera rumorosa).
domenica 16 febbraio 2020
Il sogno ad occhi aperti (o De Utopia) [φιλοσοφία]
Mad Max ed Ernst Bloch su uno sfondo distopico di Corrado Roi. |
1.
È
possibile ancora sognare ad occhi aperti? Ernst Bloch, ha scritto che la
speranza, nettamente superiore alla paura, è «sogno a occhi aperti», «sogno in
avanti», nel senso dell’anticipazione di ciò che non è ancora dato. Bloch
distingue nettamente i sogni notturni dai «sogni a occhi aperti»; nei primi
l’adempimento di desideri è «nascosto e antico», nei secondi è «fabulatorio e
anticipante».
2.
Da
una ricerca de «La Stampa» del 2014: «Siamo
immersi, appunto, in un “presente continuo”, siamo ininterrottamente online:
dove ieri e domani si confondono con l’odierno, senza soluzione di continuità.
Non era così anche solo vent’anni fa».
3.
Stiamo vivendo una “presentificazione dell’esperienza”. Se questo è
vero, allora ne vengono modificate le esperienze sia del passato che del
futuro. Viviamo, dunque, un tempo senza memoria e senza radici, a partire dalla
dimensione familiare. E, dunque, viviamo un tempo senza futuro, senza speranza,
se non nelle sue forme corrotte e degradate, e senza progetto.
4.
Non
ritengo casuale il successo di opere (romanzi o film) distopici e
catastrofisti, che spesso utilizzo nelle mie attività didattiche: da La strada a Mad Max, da Waterworld a L’esercito delle 12 scimmie. È come se
il nostro tempo riuscisse ad immaginare il futuro solo come catastrofe. Certo,
questo è anche il frutto del fallimento delle utopie ottocentesche, soprattutto
il socialismo, nelle sue possibili varianti: «Le utopie del diciannovesimo
secolo si sono infrante contro la dura realtà della storia del ventesimo. La
globalizzazione oggi è sia economica sia tecnologica, e abitiamo in un mondo
fatto di immagini e messaggi istantanei che ci dà la sensazione di vivere in un
presente continuo» (Augé).
5.
La
“fine della storia” è uno dei concetti-chiave dell'analisi filosofica del
politologo Francis Fukuyama: secondo questa tesi storiografica, il processo di
evoluzione sociale, economica e politica dell'umanità avrebbe raggiunto il suo
apice alla fine del XX secolo, snodo epocale a partire dal quale si starebbe
aprendo una fase finale di conclusione della storia in quanto tale. Dagli anni
Novanta, nella cultura occidentale si è ripetuto il mantra secondo cui “la
storia è finita”. Non plus ultra... A
tutto questo si è dato spesso il nome di “postmodernità”. Se la modernità è
stata percorsa dal “sogno”, dall’utopia di “andare oltre il presente”, di
plasmare un futuro (o un altrove) migliore, se la storia stessa è stata vista
da Marx come gravida di un forza motrice che necessariamente «abolisce lo stato
di cose presente», la post-modernità abbandona questo sogno pericoloso, acquietandosi nell’eterno presente della televisione e dei mondi digitali,
uniche realtà o surrealtà alternative possibili, ma anche esse “pensate” da
un’oramai onnipervasiva industria dell’intrattenimento.
6.
La parola deriva dal greco οὐ (“non”)
e τόπος (“luogo”)
e significa “non-luogo”. Nella parola, coniata da Tommaso Moro (1516), è presente in origine un gioco di parole con l'omofono inglese eutopia,
derivato dal greco εὖ (“buono” o “bene”)
e τόπος (“luogo”),
che significa quindi “buon luogo”. Questo, dovuto all'identica pronuncia, in
inglese, di “utopia” e “eutopia”; eutopia (buon luogo). L'utopia sarebbe
dunque un luogo buono/bello ma parimenti inesistente, o per lo meno
irraggiungibile.
7.
Secondo Massimo Cacciari, l’utopia
nasce con la modernità (e il suo “prometeismo”), va di pari passo con la
consapevolezza dell’uomo di poter plasmare il mondo attraverso la tecno-scienza
(e, dunque, tutto ciò che impropriamente si chiama utopia nel mondo premoderno
avrebbe più a che fare con la profezia). Questo progetto si compirebbe proprio
nel capitalismo tecnologico in cui siamo immersi.
8.
«Una carta geografica del mondo
che non comprenda Utopia non merita neanche uno sguardo, giacché lascia fuori
l’unico paese al quale l’Umanità approda di continuo. E quando l’Umanità vi arriva
guarda altrove, e scorgendo un paese migliore, alza le vele e riparte. Il
progresso è la realizzazione delle Utopie» (Oscar Wilde).
9.
Esisterebbe, sempre secondo
Cacciari, a partire dal XX secolo, una variante “profetica” dell’utopia,
incarnata soprattutto dall’opera di Ernst Bloch, il teorico del
“principio-speranza”. In ogni caso, sia nella variante moderno-tecnologica che
in quella novecentesca-profetica, l’utopia era un sogno collettivo, che
riguardava tutti o almeno molti. Si dava per assunta la natura “politica”
dell’uomo, secondo quanto avevano detto i grandi pensatori greci come Socrate,
Platone e Aristotele.
10. In realtà, dice Bauman,
il sostituto contemporaneo dell’utopia è la fuga individualistica del
consumatore: «Alle tue preoccupazioni e ai tuoi sforzi non rimane altro che
concentrarsi sulla lotta per evitare di perdere, lotta che deve assorbire gran
parte della tua attenzione e delle tue forze». Questa utopia individuale e
consumistica, fuga perenne, non postula un punto di approdo: la felicità è
sempre avvenire: «Un’utopia strana, non ortodossa, ma comunque un’utopia, che
promette lo stesso premio irraggiungibile sbandierato da tutte le utopie, vale
a dire una soluzione definitiva e radicale ai problemi umani passati, presenti
e futuri, e una cura definitiva e radicale dei dispiaceri e dei dolori della
condizione umana. Non è ortodossa soprattutto perché la terra delle soluzioni e
delle cure non è più collocata in un “altrove” remoto, ma nel “qui e ora”».
11. È possibile veramente,
per parafrasare Char, vivere senza futuro dinanzi? Scriveva Karl Mannheim in Ideologia e utopia (uscito nel 1929):
«Una rimozione dell’elemento millenaristico dalla sua posizione centrale nella
cultura e nella politica priverebbe il mondo del significato della vita». Ciò
avrebbe condotto a «un indebolimento della volontà umana». Senza «ideali»,
l’uomo sarebbe diventato una creatura dominata da meri impulsi». Che è quanto
sta accadendo oggi. L’homo non è
costitutivamente utopicus? Ma se
l’utopia “moderna” è stata realizzata dal capitalismo, per quale utopia c’è
spazio?
12.
Bernard Stiegler mostra come l’uso immeditato delle
tecnologie porti a ciò che chiama «disindividuazione» ovvero disintegrazione
dei singoli e dei gruppi. La successione rapida e incessante di stimoli
impedisce agli uomini di elaborare quelle che definisce «protensioni», vale a
dire speranze, progetti, ambizioni. E questo perché parte delle «ritenzioni»,
diciamo della memoria, non trovano il tempo di formarsi. Senza di esse viene
meno «l’orizzonte di attesa», cioè quel trampolino verso il futuro che anima la
vita dell’uomo. E questo per l’implosione del tempo necessario al formarsi di
connessioni tra le diverse generazioni. La velocità delle informazioni incatena
gli uomini alla loro individualità facendo evaporare ogni forma di continuità
con predecessori e contemporanei. Ma senza continuità non c’è vita. Ogni cosa
si acciambella su se stessa e non trova il respiro della storia. Ecco che
allora prevale l’estenuazione. Il non senso di qualunque azione diventa
dominante. L’eclissi dell’avvenire non è senza conseguenze. Disintegra l’uomo.
Estinguendosi ogni forma di progettualità, gli uomini si ritrovano rinserrati
in un eterno presente. «La distruzione del narcisismo primordiale – riconosce
Stiegler – conduce alla follia, vale a dire alla perdita della ragione e più
precisamente della ragione di vivere da cui proviene il sentimento di
esistere». Senza lo slancio verso il futuro ispirato dalla cura di se stessi il
mondo sembra fermarsi. Peggio. Pare che si muova per puri automatismi a
prescindere dall’uomo, al punto da generare quella che Stiegler definisce
«epoca senza epoca». Cioè la nostra. Per uscirne non si deve rifiutare
asceticamente le tecnologie. Ma farsene carico come fossero un farmaco, portentoso
e letale al tempo stesso.
13.
Riscoprire
l’utopia, liberatasi dalla ὕβϱις della modernità che ne ha sancito il fallimento nelle
sue varianti fino ad ora prodotte, significa anche tentare di contrastare lo
sradicamento planetario che pare destino ineluttabile di quella che Antonio
Martone chiama “e-polis”. Il radicamento, secondo la Weil, è uno dei bisogni
primari dell’uomo. Il realismo capitalista, invece, sceglie come proprio
“cliente” l’homo consumens (Bauman)
senza radici, senza memoria, senza passato, totalmente assorbito dai propri
bisogni materiali. Va da sé che questo comporta un progetto politico ambizioso
e di lungo periodo che imbrigli la globalizzazione con i suoi perniciosi
effetti, senza cadere nella soluzione regressiva dell’identitarismo patriottico
o, peggio, etnico (come purtroppo sta accadendo un po’ ovunque, ivi compresa
l’Italia).
14.
Ritessere
il legame con il passato. Tornare a coltivare la memoria. A livello personale e
collettivo. Questo mi pare il primo imperativo. Che non significa cadere nella
“retrotopia”, per citare sempre Bauman, nella idealizzazione del passato.
Significa “radicarsi” in una storia di cui ci sentiamo parte e che continuerà
dopo di noi perché ci slanciamo, con gli occhi ben aperti, anche in un’altra
dimensione costitutiva del nostro essere che è il futuro. Sono persuaso che se
non veniamo spinti dall’anelito ad un mondo migliore, ci rassegneremo sempre ad
un presente percepito come immodificabile. Abbiamo di nuovo bisogno di
profezia. Senza cedere, però, al demone della perfezione, a quella voce
diabolica che sussurra che il migliore dei mondi è possibile.
15.
In
questo tempo apocalittico-rivelativo, dove nel massimo pericolo sorge anche ciò
che salva, non è proprio il cristianesimo (lo dico - si badi! - da non
cristiano, da diversamente credente), il modello cristiano (meglio: gesuano) di
vita, in quanto fondato sull’amore fraterno (esteso all’intero creato, e quindi
sul rigetto radicale dell’individualismo consumistico) e sulla speranza che non
delude, il più alto progetto utopico? Non è quel messaggio saldamente radicato
nel passato e profeticamente aperto su un futuro di speranza e attesa? Che
torni a risuonare, dunque, l’antica preghiera: «Veniat Regnum Tuum». Sia il
sogno ad occhi aperti del futuro la stella che guida il nostro viaggio, la
cometa che ci conduca al tempo messianico.
Testi di
riferimento
M. Augé, Un
altro mondo è possibile, Codice Edizione, 2012.
Z. Bauman, Modus
vivendi, Laterza, 2018.
E. Bloch, Il
principio-speranza, Garzanti, 2005.
E. Bloch, Lo
spirito dell’utopia, Rizzoli, 2009.
M. Cacciari, P. Prodi, Occidente senza utopie, Il Mulino, 2016.
M. Fisher, Realismo
capitalista, Nero, 2018.
F. Fukuyama, La
fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, 1992.
K. Mannheim, Ideologia
e utopia, Il Mulino, 1972.
A. Martone, Antropologia
della tecnica, Rubettino, 2018.
L. Mumford, Storia
dell’utopia, Donzelli, 2008.
T. Simeone, Il
dovere della speranza, Aletti, 2017.
B. Stiegler, Reincantare il mondo, Orthotes, 2012.
Questi
frammenti rielaborano l’intervento tenuto al Liceo Classico “Luigi Sodo” di
Cerreto Sannita il 21 febbraio 2019 all’interno di un ciclo di incontri sul
sogno.
Il testo a stampa si trova in «Api ingegnose» (n. 7, 2019)
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