Il reddito (minimo) di
cittadinanza sarà uno degli argomenti chiave della lunga campagna elettorale di
fatto già avviatasi con il voto del 4 dicembre che ha (sonoramente) bocciato la
(pessima) riforma della Costituzione fortemente voluta da Renzi.
Si tratta di un tema “genetico”
del MoVimento 5 Stelle sin dalle origini, culminato un un disegno di legge presentato nel 2013-
Valerio Pisaniello ha
dedicato alla questione un libro di sintesi, utilissimo vademecum, arricchito
da un’esperienza autobiografica che talvolta sembra voler sfondare i limiti
della asettica scrittura scientifica, per diventare testimonianza del disagio
di generazioni iper-qualificate e sotto-occupate. Particolarmente illuminanti alcuni
passaggi da questo punto di vista (voglio dire di una lettura “generazionale” utile per un cinquantenne come me che ha fatto ancora in tempo,
malgrado in possesso di una laurea in lettere, ad avere un lavoro statale come
insegnante). Per esempio, la contrapposizione fra precari e “proletari”, oppure
la denunzia (particolarmente valida per il Sannio sia di destra che di
sinistra) del “credenzialismo” (la necessità di amicizie altolocate per trovare
o sperare lavoro) o la schiavitù del debito delle giovani generazioni.
La presentazione del libro
è avvenuta nell’anno in cui si “celebra” il decennale della crisi avviatasi nel
2007. La crisi può dirsi complessivamente rientrata a livello globale. Ma il
debito globale resta molto alto. Scrive Pisaniello: «La bolla speculativa che
ha colpito il continente americano nel 2007, investendo poi l’Europa e il
mondo, ha generato una recessione non
solo in termini
economici, ma soprattutto in tema
di diritti».
Io ho voluto approfondire
un aspetto che ritengo tutt’altro che marginale, cioè la base filosofica del
reddito minimo di cittadinanza.
Pisaniello cita alcuni
autori che possono essere propriamente definiti filosofi (Gorz, Marcuse,
Habermas), altri che si muovono su più terreni disciplinari (Rawls e Sen).
Mi
fa particolarmente piacere che si riattivino, all’interno del mondo
intellettuale che gravita intorno al M5S o si sente vicino ad esso, preziosi
spunti da “ereditare”. In particolare, tra i pensatori citati, Gorz (scomparso
anch’egli nel 2007) è tanto grande quanto rimosso. La sua attenzione a temi
come l’ecologia lo rendono particolarmente affine al progetto politico del M5S.
Partito dal marxismo, Gorz incontro la questione “ecologica” (Ecologia e politica è del 1975, Ecologia e libertà è del 1977), che
modifica la sua concezione del lavoro e dell’economia: «La crisi attuale del capitalismo è causata da uno
sviluppo eccessivo delle capacità produttive e dalla distruttività
delle tecniche impiegate, generatrice di
scarsità insormontabili. Una
tale crisi non potrà
essere superata se
non attraverso un nuovo
modo di produzione
che, rompendo con la
razionalità economica, si
fondi sul risparmio controllato
delle risorse rinnovabili e sul consumo
decrescente di energia
e di materie prime». Nel 1988 pubblica Metamorfosi
del lavoro. Il reddito di cittadinanza viene prima guardato con sospetto. Ancora in Capitalismo,
socialismo, ecologia (1992) Gorz lo critica, proponendo un lavoro più distribuito.
Eppure già allora era consapevole di una trasformazione radicale delle forze in
campo: «C’è
un movimento sociale multidimensionale, che non è più possibile definire in
termini di antagonismi di classe [...]. Questo movimento è essenzialmente una
lotta per il diritto collettivo e individuale all’autodeterminazione, all’integrità
e alla sovranità della persona».
Il reddito di cittadinanza diventa (nel cuore della trasformazione post-fordista della produzione e della società), pochi anni
dopo, ai suoi occhi - in Miseria del presente (1997) e L’immateriale (2003) – l’unica
possibile soluzione alle trasformazioni in atto: sufficiente, incondizionato e universale.
Io trovo particolarmente emblematica
questa “evoluzione” che attraversa la grande storia novecentesca ed entra nel
XXI secolo con la consapevolezza di un mutamento che richiede soluzioni prima
impensabili.
Dal punto di vista schiettamente filosofico, Gorz
aiuta a porre un problema con il quale il nostro tempo inizia a confrontarsi
confusamente, senza riuscire a raggiungere un livello di consapevolezza
adeguato a risolverlo. Infatti per millenni siamo vissuti ritenendo il lavoro
momento fondante, decisivo della nostra esistenza, intorno al quale fa ruotare
tutto il resto. «L’uomo crea dunque la propria seconda natura attraverso il lavoro, cioè un rapporto
attivo con la natura. La sua essenza non risiede nell’interiorità o nella
coscienza, ma nell’esteriorità di lavoro e produzione come mediazione con la
natura e costruzione di società», scrive Augusto Illuminati spiegando la concezione
del lavoro come Wesen (essenza)
dell’uomo in Karl Marx. Ma se il lavoro non c’è più, se molte vite oggi non si
definiscono più per scelta o necessità intorno al lavoro non dovremmo
ridefinire la stessa natura umana accettando che essa, dunque, non sia un dato
metastorico, intemporale, ma si possa modificare con la storia del genere umano
e delle sue conquiste? Insomma, oggi l’umanità quasi ovunque è in grado di
produrre molto di più con molto meno dispendio di forza lavoro. I beni prodotti
possono soddisfare i bisogni di tutti. Il lavoro mancherà sempre di più. Oramai
è diffusa la consapevolezza che la disoccupazione stia diventando un dato
strutturale che niente ha a che fare con la crisi del 2007 bensì scaturisce
dalla quarta rivoluzione industriale in atto: «i robot, i sensori, le stampanti 3d, tutti
collegati in rete alla cloud
lasceranno poco spazio all’umano tra le macchine delle
fabbriche, i big data, le intelligenze artificiali, metteranno a repentaglio la
nostra permanenza anche negli uffici».
Uno
dei miei grandi “maestri eretici”, Günther Anders, aveva previsto tutto questo, irriso da
economisti e futurologi. Urge, allora, senza condividerne il “principio-disperazione”,
rileggere il secondo tomo de L’uomo èantiquato (1980).
Il
reddito di cittadinanza minimo, dunque, in una mutazione che è tecnologica,
sociologica, economica e anche antropologica, non è follia: «È la semplicità, che è difficile
a farsi».