giovedì 28 dicembre 2017

ancora sul populismo


Qualche mese fa, Giovanni Barra, acuto commentatore de «Il Vaglio», di cui eredita il milieu politico, radicato nella storia oramai in crisi della sinistra italiana, scrisse un pezzo dedicato al populismo
Gli risposi con due brevi considerazioni (che proseguono un dialogo avviato da qualche anno).
La prima. Perché chiamare sempre in ballo il M5S, prendendo spunto da un episodio non minore ma minimo di ottusità individuale? Come è possibile pensare che la candidata di un paese (Canosa!) possa essere considerata «classe dirigente» del Movimento (che per altro ha immediatamente preso le distanze dalle parole deliranti, e ha spinto la candidata a sospendersi)? Apprezzo sempre gli articoli di Giovanni, ma questa frase buttata lì mi pare poco onesta intellettualmente e manipolatoria dell’opinione pubblica.
La seconda. Gli intellettuali di sinistra, cui è legittimo ascrivere Barra, preferiscono evitare il confronto con alcuni problemi del nostro tempo, ritenendo le proprie categorie politiche inossidabili, universali ed eterne. Per questo il populismo viene bollato come nefando in tutte le sue possibili varianti. Inutile ricordare come esista un “populismo di sinistra” molto attrezzato anche teoreticamente. Soprattutto inutile ricordare che, se esistono risposte sbagliate (e sicuramente il razzismo e la xenofobia lo sono senza se e senza ma), i problemi, che la sinistra ha deciso semplicemente di ignorare (affidandone la soluzione al caso o, peggio, al mercato) permangono: aumento dell’iniquità sociale, poteri sovranazionali opachi o non democratici, la globalizzazione e la sua furia devastatrice di vite e culture, la mercificazione totalizzante. «La distruzione è in corso, attraverso di noi, fuori di noi, contro di noi» (René Char). Alcuni populismi stanno cercando di ripensare questi temi senza aggiogarsi al pensiero unico, «a scavare l’ardesia». Buona parte della sinistra pare invece aver rinunziato a questo compito, chiudendosi in torri d’avorio di pensiero e pratiche elitarie, divenendo così funzionale all’«orrore economico».
Oltre ad una critica spesso leziosa dell’immaginario contemporaneo, oltre una schizzinosa presa di distanza dal popolino barbaro e illetterato, esiste ancora nella  sinistra la capacità  di guardare ai “rapporti di produzione” e ai processi economici mettendo in discussione l’assetto dominante? O essa si è vocata irrimediabilmente, nei suoi languori, a comporre acrostici indolenti?

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