Questo libro, il primo di poesie di Nicola Sguera, è un percorso di vent’anni. Di vent’anni sia perché l’autore era poco più che ventenne quando ha iniziato il suo percorso poetico, sia perché questi testi sono stati composti nell’arco di un ventennio. Rispetto al suo primo libro (In quieta ricerca) i temi sono gli stessi ma si presentano in altra veste, scarnificati, spesso, da tanti ragionamenti e ridotti al loro nucleo originario.
La poesia salverà il mondo? Alla domanda non c’è una risposta se non quella di chi cerca, nei versi come nelle riflessioni quotidiane, una insurrezione ad un presente di tenebra, partendo dalla propria radice, dal proprio piccolo essere, per proiettarsi in un futuro intravisto, vivendo nell’insicurezza dell’oggi, ma percependola, questa insicurezza, non come malessere o privazione, piuttosto come opportunità per un domani diverso.
Non è un caso se tra gli autori di poesia prediletti da Nicola ci siano Bonnefoy e Char, poeti alla costante ricerca di un rapporto non concettuale o astratto tra le parole e le cose, in cui anzi la parola poetica coincide con la stessa realtà che essa suscita. Nella sua poesia tutto è vigorosamente vivo e attuale; in una parola, tutto è poesia. La forma, pur serbando il verso, ignora la rima, cercando una musicalità mai fine a se stessa.
Per aspera, attraverso percorsi oscuri, difficoltà, sconfitte, ad astra, per arrivare alle stelle. Ma il titolo si ferma solo al primo momento, quello della vita. Certo, è immediato il rimando all’intera frase latina, motto famoso ed abusato. Ma qui ci si ferma alla prima parte. Le asperità sono chiare: il mondo della poesia di Nicola è quello che ben conosciamo di violenza, indifferenza, peccato e orrori vari. Non è consolante la lettura, tutte le asperità della nostra vita, i sensi di colpa, la mercificazione dell’essere, la schiavitù del sesso... Ma ci sono anche improvvisi lampi di gioia. [...]
Non c’è conclusione. La vita
cerca ancora un senso alle domande. Le risposte, tentate, non bastano. La via
non è stata ancora trovata. Smarrito il senso, continua, però, il perenne
interrogarsi ed interrogare.
La conclusione è una visione
sulla propria morte: non si può dare un senso alla propria vita, forse altri la
daranno un domani, non noi. L’importante è svolgere, nel migliore dei modi
possibili, il compito che ci è stato affidato e che abbiamo scelto di seguire.
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