domenica 14 ottobre 2012

"In quieta ricerca" II


Premessa

Ho da 40 anni un rapporto con Nicola che definire amicale sarebbe riduttivo e anche fraterno non spiegherebbe pienamente i sentimenti che ci legano. Con lui ho frequentato la scuola elementare (La Salle, e in questo teatro ho anche fatto, all’epoca, una recita scolastica per poi, molti anni più tardi, svolgervi incontri con la rosa necessaria... – sono quindi in modo particolare, come anche Nicola, legato a questo luogo) ed ho poi con lui frequentato il liceo Giannone. Ho condiviso passioni (non quella dell’Inter anche se la condividono i miei figli), amori, gioie e lacrime. Ho anche, com’è giusto che sia, litigato. Tutti i momenti importanti della mia e della sua vita li abbiamo condivisi: la scrittura, le scoperte, la passione per la poesia, le nascite, il concorso per l’insegnamento (anche se per Storia e Filosofia mi sono tirato indietro). Siamo rimasti distanti solo rispetto al suo cammino spirituale, (e anche per questo, pur avendo una parte importante nel libro, non ne parlerò) ma non si può avere tutto dalla vita. Da 10 anni viviamo fisicamente distanti: lui è rimasto a Benevento, io sono andato via, a Potenza, dove ora vivo con la mia famiglia ed insegno, ma sempre pronto, per le cose importanti ad esserci, come so lui per me. Per questo quando mi ha dato da leggere il libro, specifico, come correttore di bozze, l’ho fatto con piacere, sia per leggere o rileggere scritti che già conoscevo, ma soprattutto perché mi affascina sempre e mi stimola alla riflessione quello che Nicola scrive, ed è così da sempre.
Perdonate questa premessa ma, come scrive anche Nicola nel libro, c’è la necessità di ancorare le cose che diciamo e scriviamo al nostro sangue e al nostro corpo, di “radicare quanto diciamo nelle nostre vite”. La scissione tra passione e ideologia, che era forte nei nostri vent’anni – e se devo dirla tutta la passione era la mia, la sua era invece ratio ed ideologia – la trovo nel libro venuta meno. La rigida ideologia si è contaminata col cuore, con la pratica quotidiana di educatore, di padre... Insomma, le cose che scrive, anche quelle al di fuori di questo libro, quelle del suo blog, prendono vita, non restano semplicemente belle parole. 

Politica: fare il possibile e desiderare l’impossibile

Torno alla ragione per cui sono qui, al libro. Vorrei soffermarmi su tre aspetti e partire dalla bella citazione in esergo di Gustav Landauer: «fare il possibile e desiderare l’impossibile». Proprio queste parole mi sembrano essere il centro propulsore del libro: nei maestri eretici, nel loro magistero, così come nell’analisi dei costumi del nostro tempo, la direzione intrapresa dalla riflessione di Nicola è fare tutto ciò che è in nostro potere per modificare uno stato di cose che ci ha condotto in fondo all’abisso e, nel contempo, desiderare – sognare – ciò che ancora non è visibile e forse neanche pensabile, per fare in modo che un domani (ma perché no anche oggi) accada. Questo è vero soprattutto nella sfera dell’agire politico, alla quale il pensiero dell’autore è sempre rivolto. Non il politico delle beghe quotidiane di partito, ma il politico della polis, della società, della piazza, della dimora, la casa in cui viviamo e quotidianamente agiamo. Responsabilità mi sembra essere la parola chiave: responsabilità di uno e di tutti verso la cosa pubblica che è poi responsabilità verso gli altri esseri viventi. Questa mi sembra una traccia per la scelta di maestri spesso tanto diversi. Tutti sono legati al principio della responsabilità, all’incontro/scontro con l’altro. Il pensiero degli autori affrontati diventa non una semplice riflessione, ma un cercare di mettere in pratica il loro pensiero, nel tentativo di creare “ponti”: ideali, nel senso di raggiungere tramite quelli una “salvezza” rispetto al nostro tempo devastato; e reali, nel senso di mettere in comunicazione e far dialogare categorie (filosofiche, scientifiche, letterarie) che spesso nella pratica quotidiana (nell’insegnamento) risultano scisse, chiuse nei loro ambiti particolaristici. Soltanto nell’incontro e nel dialogo, suggerisce Nicola, è possibile un futuro diverso, migliore. 
Notevole in questo senso mi sembrano gli interventi su Illich e Latouche (ma potrei citare anche quello su Gunther Anders), attraverso i quali viene proposto un rapporto nuovo, o meglio diverso, tra l’uomo e il suo ambiente naturale. Un rapporto che vuole ripensare l’Occidente e mettere in discussione i suoi valori/disvalori: scienza, tecnica, progresso; mercato, economia. Non rifiutando la scienza o la tecnica in sé ma una certa scienza, quella “prometeica”, e una certa tecnica, quella che contribuisce alla “obsolescenza dell’uomo”. Con quei maestri Nicola ripete che “soltanto una rottura con il sistema capitalistico, con il suo consumismo e il suo produttivismo, si può evitare la catastrofe”. Affidarsi all’utopia scientista rischia di separarci dalla realtà concreta. Nell’ultimo libro di Latouche, Per un’abbondanza frugale, l’autore riporta le ipotesi fantascientifiche del direttore di ricerca al CNRS e all’Istituto di astrofisica di Parigi che propone da un lato l’abbandono della terra , ormai danneggiata e degradata, verso un altro pianeta (ma questo solo per pochi prescelti) e dall’altra un insediamento sul fondo degli oceani, con la creazione magari di uomini acquatici. Il tutto molto simile al transumanesimo del guru americano R. Kurzweil che predica della creazione di un superuomo in grado di nutrirsi di rifiuti e sopportare radiazioni mortali. Conclude Latouche: «La fede irrazionale nella razionalità porta al delirio della ragione». 
C’è invece necessità di “strade di conversione” per iniziare a vivere meglio con meno, evitando il facile ragionamento che “tanto se non inquino io, c’è qualcun altro che lo fa...”. Conversione ecologica, conversione alla convivenza (sono termini di Alex Langer) mi sembra siano parole che ben spiegano il punto di vista dell’autore. Anche la copertina ci dice questa visione che è invito a riscoprire e praticare dei limiti: rallentare (e l’andare lenti proprio del pensiero meridiano di Cassano appartiene a Nicola), attenuare, per raggiungere quell’abbondanza frugale di cui parla Latouche. Come scrive Langer ne Il viaggiatore leggero «Abbiamo bisogno di occasioni ed opportunità gratuite nella nostra vita, nella vita delle città e delle campagne. Può bastare anche poco: spazi per sedersi senza dover consumare, accesso alla natura, al mare, al verde, senza dover pagare il biglietto, una fontana pubblica con l’acqua buona alla portata di tutti, biciclette del Comune che si possono prendere in prestito e restituire, un mercatino di scambio dell’usato... In una società in cui tutto è diventato merce, e dove chi ha soldi può comperare e stare meglio, occorre la riabilitazione del “gratuito”, di ciò che si può usare ma non comperare».
Attento al presente ma cosciente del passato e aperto al possibile (secondo l’insegnamento di Illich), pur consapevole della precarietà e fragilità del nostro essere uomini (Non essendo che uomini è una poesia di Dylan Thomas cara a Nicola e citata nel libro), o forse proprio a partire da questa consapevolezza, da questa accettazione dalla fallibilità dell’essere umano, l’autore ci invita a ricercare la via dell’impegno. Un impegno non più legato o supportato da un grande progetto o da una ideologia, ma che parte dalla solidarietà, dall’ascolto verso l’altro. 
Se c’è polemica nel libro è quella contro l’egotismo del soggetto e la conseguente volatilizzazione del limite: ridurre tutto al soggetto e alla sua volontà di potenza, avendo come uno criterio l’espansione, una produttività infinita e senza misura. Apertura, presa di coscienza dei propri limiti (potrei citare il Camus dell’Uomo in rivolta...). È questo, mi sembra, l’uomo che emerge nel libro: quell’uomo “solidale” (non più un soldato (del lavoro, della militanza) ma un “civile”, dotato di strumenti incerti, e che rifiuta la scissione tra “passione e ideologia”) di cui parla Marco Revelli. 

La poesia: l’assente-presente

Il processo che ho cercato di tracciare (di cui parla Nicola nel libro) passa attraverso un cambiamento che è innanzitutto interiore e che per compiersi ha bisogno di uno sguardo diverso sulle cose e un ascolto diverso del mondo. Questo sguardo, questo ascolto, passano attraverso la poesia. Se guardiamo la prima parte del libro sembrerebbe che la poesia, sua passione originaria, abbia un ruolo marginale. Non è così: il libro, tutto, è attraversato dalla poesia. Sì, è vero, non ci sono poeti tra i maestri, almeno non direttamente, ma in realtà ogni pagina è intrisa del valore attribuito alla poesia: si parte dai rimandi (ad inizio di ogni sezione) a René Char. Proprio in questo teatro, l’anno scorso, io e Nicola abbiamo tenuto una lezione/lettura sul grande poeta e intellettuale francese. 
Perché Char forse meglio di tutti coglie la duplicità del percorso di Nicola: la poesia come ricerca d’un al di là nuziale (in cui cioè l’io individuale si coniuga, cioè distrugge la sua dimensione egotica attraverso l’azione di trasformazione del mondo), e poesia come azione vissuta nella condivisione tra uomini e donne in carne ed ossa. 
Nel nostro tempo, nel tempo della povertà, in un universo che ha ridotto l’informazione a merce è necessaria la poesia, e il ruolo della poesia consiste nel ricordare la grana dura e inassimilabile della parola (è una citazione da Valerio Magrelli). 
Oggi probabilmente Nicola è distante dal punto di partenza del 1992 (ma forse non tanto se sul n. 1 della rosa trovo già che il denominatore comune di quell’esperienza era l’amore per la poesia che aveva come direzione quella della contaminazione), ma all’inizio comunque fu la ricerca della grana dura della parola, quella che testimonia, contro la chiacchiera che la prostituisce (per dirla con Celan). Cosa voglio dire: voglio dire che Nicola non ha mai cessato di interrogarsi e di cercare un senso, attraverso anche l’ascolto, alla vita tramite la poesia, la poesia vera, quella che parla al cuore. 
La rosa necessaria, se mai riusciremo nel progetto di farne un libro con una scelta degli interventi presenti, ne rappresenta bene il percorso poetico: da Fortini (la poesia come fedeltà ad una tradizione e ad una verità, la poesia come parola da applicare) a D’Elia (la poesia come discorso vissuto, poesia che è in stretto rapporto con la vita, a cui cerca di ridare valore) a Guzzi (la poesia che testimonia, svela il mistero del reale nel suo continuo farsi), a Char fino ad arrivare oggi a Bonnefoy (la poesia come ascolto che annulla l’io egemonico), senza rinnegare il proprio passato ma procedendo per “accumulo”. 
E non è quindi casuale poi che la prefazione del libro sia di Marco Guzzi (l’autore che credo l’abbia più segnato tra quelli conosciuti, potrei dire quello della “svolta”), e che ci sia un’intera sezione, la IV, dedicata alla poesia. 
Se devo dirla tutta, il discorso di Nicola non mi convince totalmente rispetto alla poesia come luogo originario della parola e del possibile “s-velamento” o “ri-velamento”. Non riesco ad amare (comprendere forse) alcuni testi di Bonnefoy (ma anche di Celan e Char...). Sono legato ad una poesia materica, che si contamina col mondo. Non mi trovo compiutamente in queste parole che leggo nel testo: «La poesia è la via della guarigione: la cura della radice dei sensi (vista, udito) malati. Il poeta è il cieco guarito, il sordo risanato. Finalmente il mondo visibile è invisibile, si manifesta nascondendosi, parla dal silenzio. Il poeta è il risanato che può risanare, colui che “ri-vela” il mondo con umiltà. Abitando, filialmente, il linguaggio, egli non lo usa come uno strumento». Non mi trovo perché le sento distanti dal mio modo di pensare la poesia, come detto. 
È comunque indubitabile che lungi dal rinnegare quanto fatto in precedenza, Nicola prenda letteralmente sul serio la poesia, ritenendola parte essenziale dell’uomo rinnovato. Scrive Char: «Poesia e azione, vasi ostinatamente comunicanti. La poesia punta la freccia che implica l’arco azione». L’idea è quella che la poesia possa contribuire alla trasformazione del mondo. Questo non è mai venuto meno in Nicola: come quando durante una lettura a piazza Roma invitava con calore i ragazzi presenti a leggere la poesia. 
Insomma cosa c’è tra l’uno (il sociale/politico) e l’altro (la poesia)? Mi piace riprendere le parole di un’intervista a Pasolini (altro daimon citato nel libro). Alla domanda di quali fossero i rapporti tra poesia e sentimento politico così Pasolini rispondeva: «Rapporti necessari non ne esistono, se si carica la poesia di valori assoluti e si svaluta la politica ad atto puramente pratico. Io vorrei ridurre la poesia entro limiti più umili e umani, e dare al sentimento politico una pienezza che investe l’intero modo di essere e di pensare». È probabile che per Nicola non sia esattamente così, almeno nel concetto della poesia, però credo che sia presente anche in lui questo tentativo di mettere in relazione due campi che sono quasi sempre separati tra loro. Illuminare con la poesia il politico, innalzare il politico con la poesia. 

L’opera da fare: la scuola

Se c’è un appunto che devo fare al testo è l’idea di scuola che a volte (non sempre) sembra emergere. Proprio in virtù del suo essere fuori dal tempo (libri e non tv e computer, poesia e non prosa, lentezza e non velocità) a me sembra che la scuola possa essere il luogo di una resistenza, di un altro mondo possibile, il centro di piccole comunità ermeneutiche che studiano i processi della realtà e propongono soluzioni, comunità che riflette senza la fretta che «l’onestade ad ogni atto dismaga», evitando, quindi continue rincorse verso tablet, computer, ecc.. Ma il pensiero sulla scuola, luogo in cui passiamo buona parte della nostra giornata, come lui stesso ammette, non è pienamente espresso: ci saranno altri momenti ed altri luoghi per intervenire. Nell’intanto mi sembrano importanti due aspetti qui solo accennati: il primo «le percezioni immediate dei testi» secondo l’indicazione di Steiner. Cioè un invito ad evitare le storie della letteratura, le critiche dei testi ma far parlare direttamente le parole degli autori, privilegiare la lettura diretta dei testi; il secondo, l’eros, «che e allo stesso tempo desiderio, piacere e amore, desiderio e piacere di trasmettere amore per la conoscenza e amore per gli allievi. [...] È ciò che in primo luogo può suscitare il desiderio, il piacere e l’amore dell’allievo e dello studente» (Morin). L’insegnamento richiede cuore, perché si apprende per via erotica, attraverso un coinvolgimento emotivo di chi ci sta di fronte. Ma mi permetta Nicola di dire che anche Dante, anche Petrarca possono essere strumenti di eros. Anch’essi sono in grado di promuovere quell’”intelligenza etica” che non fa riferimento esclusivamente ai principi della propria coscienza, o peggio ancora all’ambito limitato dei propri interessi, ma si fa carico delle esigenze della società (sono parole che Galimberti ripete in diversi suoi interventi). 
Sta di fatto, comunque, che anche questo terzo aspetto che ho cercato di evidenziare si collega alla poesia e al politico ed è forse il fine ultimo: la missione dell’educare passa attraverso l’insegnamento della responsabilità e dell’impegno richiesto, però, non solo a parole, ma attraverso la messa in mostra del proprio essere, attraverso la cura per la formazione del sentimento, attraverso una partecipazione emotiva. Non stando sopra ma nel mezzo, coinvolgendo, sollecitando, provocando. 

Conclusioni provvisorie

Nicola (e concludo) attraverso questo libro invita alla riflessione, invita ad esprimerci, a denunciare, ridando valore all’esempio e ad una parola non prostituita, non fine a se stessa. Alla fine, però, la conclusione non può che essere provvisoria. 
Il richiamo alla responsabilità, all’impegno, alla poesia come ascolto, significa imparare ad abitare con il limite, lottare contro l’ossessione dell’espansione. dell’illimitato, della Crescita ad ogni costo, nuovo idolo che ci sovrasta e ci rende tutti prigionieri e soli. Come scrive Franco Cassano in un articolo sul pensiero di Camus, «Chi corre sarà sempre e solo solitaire, mai solidaire, sia che guidi la corsa, sia che arranchi nelle retrovie».
Questa è, a mio giudizio, la traccia del libro, indicare una linea di resistenza alla passione per l’illimitato, all’idea che tutto sia manipolabile in nome dell’economia e della crescita. Una traccia, ripeto, non una soluzione, perché il fondo del libro è l’insegnamento che ci sono altre vie da esplorare, altri sentieri da percorrere nella costante ricerca di senso che è la nostra vita.

Luca Rando

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