La scelta delle persone che avrebbero discusso di In quieta ricerca alla sua prima presentazione ovviamente non è stata casuale, ma naturale conclusione (provvisoria) di un dialogo che continua con tre persone molto diverse da loro e anche da me, i cui interventi ho voluto pubblicare in Di soglia in soglia, per continuare il nostro fecondo dialogo. È per questo che vorrei puntualizzare alcune cose, essendomi limitato in quella sede a ringraziare tutti i presenti, volendo riflettere a freddo sulle loro sollecitazioni.
Con Luca Rando abbiamo condiviso tanto, tantissimo, anche a livello intellettuale, sebbene ad un certo punto, direi in coincidenza con il mio ritorno (problematico e inquieto) alla fede. Dal suo intervento traspare la conoscenza minuta dei vari passaggi che hanno scandito il mio percorso. Ha fatto una lettura lucida del libro ed preziosissima per chi volesse capirne le strutture portanti. Luca sa che la riflessione sulla scuola è quasi assente perché l’auspicio è quello di tornarci in maniera approfondita in futuro.
Amerigo Ciervo ha voluto, invece, con una composizione “musicale” che ben si addice alle sue competenze, omaggiarmi in maniera ellittica. Ha focalizzato, infatti, quello che io ritengo uno dei nuclei ispiratori di ciò che vado scrivendo: cristianamente vorrei chiamarla “speranza”, laicamente “utopia” (con i distinguo, presenti nel libro, operati da Jonas). Per questo ha evocato un filosofo a me molto caro, Ernst Bloch, citando il quale aprii il primo incontro con Marco Guzzi alla Sala del Reduce il 3 aprile del 1993. Era esattamente la stessa frase, accostandola ad una frase di Ernesto Buonaiuti, che evocava «il vomere della speranza», smarrito dal pensiero cristiano. Mi accomuna ad Amerigo la volontà di rimanere fedele al messaggio cristiano, alla virtù della speranza, ma coniugandola all’utopia concreta, che si sforza non di raddrizzare «il legno storto dell’umanità», di portare il paradiso in terra, bensì di migliorare quel lembo di mondo e di umanità che ci viene assegnato, senza mai rassegnarsi alla ineluttabilità del male, «con la testa fra le nuvole e i piedi ben piantati per terra».
Sapevo già che dei tre l’intervento più “critico” sarebbe stato quello di Gaetano Cantone. Non ha deluso le mie attese. Ci sono parti dell’intervento di Gaetano che condivido integralmente, e che sono state oggetto di discussione in questi anni di attività comuni, soprattutto all’interno de “i Giannoniani”. In particolare, il rifiuto del mito del progresso e della ricostruzione dell’arte e della cultura in base a tale criterio fallace, o la sua notazione sulla vocazione alla “stupefazione”.
Sono tre le questioni, mi pare, problematiche che Gaetano mi pone:
1) i maestri che cito non sarebbero affatto “eretici”;
2) c’è un eccesso di “sentimento” e di “soggettività” nelle cose che scrivo;
3) c’è una “sintesi” pacificante finale.
Sono rilievi, come sempre, di grande intelligenza. Provo a rispondere.
L’eresia dei miei maestri è molto diversificata: i “religiosi” evocati sono tutti eterodossi rispetto alla propria tradizione. Bonhoeffer nelle lettere dal carcere si spinge a parlare di un mondo totalmente secolarizzato, in cui anche il cristiano deve vivere «etsi Deus non daretur». La Weil contamina grecità e cristianesimo, affascinata dal catarismo e dalla gnosi, elaborando, nella lettera a padre Perrin, un’idea estremamente sincretica della fede. La Hillesum è una “teodidatta” fuori da qualunque schema religioso tradizionale. Pomilio riprende la dottrina (eretica) del quinto vangelo. Illich, sospeso dalle sue funzioni sacerdotali, teorizza la società moderna come corruzione dell’originale messaggio gesuano. Non riesco ad immaginare eresie più esplosive di queste. Hammarskjöld, tra i “religiosi”, è l’unico che sembra essere ortodosso, rispetto alla sua fede riformata. La sua “eresia” mi è apparsa però nella volontà, tutta antimoderna, di tenere insieme la pratica politica, ai massimi livelli, e la fede vissuta «in segreto», una fede tormentata e piena di dubbi.
Dei “filosofi” direi che l’eresia di Heidegger è quella di avere, lui filosofo, auspicato la fine della filosofia e l’avvento di un pensiero postmetafisico. Mi pare che questa “eresia” sia stata normalizzata in primis da molti suoi discepoli o sedicenti prosecutori. E infatti la filosofia sopravvive floridamente come disciplina accademica, spesso esercitata sugli stessi testi del maestro che ne reclamava il superamento. Anders è autore eretico per una pluralità di ragioni: l’aver continuamente transitato tra impegno teorico e impegno civile, la pluralità degli stili scelti. Autore antiaccademico per eccellenza, pochissimo amato dalla cultura italiana (fatto salvo il meritorio lavoro di «Linea d’ombra»), totalmente assente dai manuali, malgrado la grandezza del suo capolavoro. Kuhn, per quanto sicuramente la sua opera sia stata oramai metabolizzata, mi appare ancora dotato di forza dirompente rispetto alle pretese di una tecnoscienza immemore della propria storia e fiduciosa in uno sviluppo lineare della conoscenza come della civiltà. Di Morin, insieme a Gaetano, ammiro la forza, tutt’ora eretica a mio avviso, di rompere gli argini disciplinari, di reclamare un sapere non totalizzante (di stampo dialettico) ma complesso. Latouche e Revelli sono autori che hanno messo in crisi molti dogmi della cultura di “sinistra”, oggetto di scandalo per molti studiosi (in particolare economisti) che considerano le loro posizioni addirittura reazionarie. Tarkovskij e Steiner, infine, sono eretici rispetto ai generi da loro praticati, reclamando con le loro opere l’assoluto, parola pronunziata con pudore o disprezzo dall’arte e dalla cultura contemporanea.
Il secondo rilievo di Gaetano è assolutamente corretto. Nella mia scrittura c’è una forte carica “sentimentale” e soggettiva. Lo considero un retaggio di quelle “pratiche della differenza”, che il pensiero femminile ha contributo a diffondere, e che mi ha permesso di sanare, almeno dal mio punto di vista, la lacerante contraddizione fra “passione e ideologia”. Qui credo che abbia un peso non indifferente la differenza generazionale, la cesura culturale che si potrebbe collocare nella seconda metà degli anni Ottanta.
Sul terzo rilievo, invece, dissento. Non solo perché, evidentemente, la mia ricerca è davvero “inquieta”, senza fine, ma perché, seppur faticosamente e superando una naturale tendenza irenica, ho maturato una visione che altrove ho definito “eraclitea” del reale. E mi pare sia sfuggito a Gaetano il peso che hanno le epigrafi di tutte le sezioni, versi di quel René Char che, unico tra i grandi poeti del Novecento, cerca di cantare questa dimensione dialettica della realtà, ma senza sintesi finale. La sintesi, sia delle nostre biografie individuali sia dei grandi processi storici, sarà sempre fatta “altrove”. La mia passione per il Novecento e la sua cultura nasce anche dall’accettazione del “frammento” come necessità di un tempo che non può più aspirare a sintesi. Ci sono parole di Bonhoeffer, che cito nel libro, assolutamente illuminanti.
È sempre un grande onore sapere che qualcuno ha letto con attenzione quanto abbiamo scritto. Quando per queste persone si prova stima incondizionata l’onore raddoppia. E per questo, ancora una volta, li ringrazio.
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