La presentazione di un libro mette in campo, sempre, una sua ben codificata ritualità.
C’è l’obbligo, come per i defunti, di dire bene: «de mortuis, nihil nisi bonum» (1).
Se, allora, ci rappresenteremo i libri come “persone care defunte” le presentazioni potrebbero diventare una grande seduta di lamento funebre, nel corso della quale alcune prèfiche – nel nostro caso, vi assicuro, non professionali – si preoccupano di raccontare – evitando ovviamente lo stile cantato dei lamenti simili a quelli riportati nel Sud e magia di Ernesto De Martino - le mirabili imprese e le qualità del morto. Quest’ultime, sovente, anche nascoste. Come nel canto – che si ritrova in un nostro disco che so molto amato da Nicola – di Revolio-Gregorio ammazzato dai fratelli della sua donna e pianto dalla madre.
C’è poi l’immagine della parola scritta che ci giunge da uno dei dialoghi più belli della nostra tradizione filosofica, il Fedro platonico:
«Perché, o Fedro, questo ha di terribile la scrittura, simile, per la verità, alla pittura: infatti le creature della pittura ti stanno di fronte come se fossero vive (òs zonta) , ma se domandi loro qualcosa, se ne stanno zitte, chiuse in un solenne silenzio. E così fanno anche i discorsi (tautòn dè kai oi lògoi)».
Questo passaggio platonico mi capita di collegarlo – devo ammettere un po’ sacrilegamente, o, se volete, per una confusione o mescolanza di registri - per la quale cosa chiedo anticipatamente scusa; anzi proclamo a gran voce: absit iniuria verbis - a un altro testo – quest’ultimo non filosofico – di un grande autore del teatro napoletano che, se venisse prosciugato del folklorismo manieristico di certe rappresentazioni dialettali, tra l’altro molto amate da gran parte della borghesia di questa città, ci apparirebbe come uno straordinario autore di respiro europeo.
Nell’opera ’Na Santarella di Eduardo Scarpetta un marchesino grottescamente macchiettistico, Celestino Sparice, racconta dell’ostinazione di classe della marchesa sua madre nel non voler dare il consenso al suo legame con una canzonettista, ostinazione che la porta, dopo un violento litigio, a chiudere il figlio nel salotto:
«dove stanno tutti i ritratti a olio dei nostri antenati… io mi misi ’na paura che tu non puoi credere… embé, e già! Pecché chille so’ a grandezza naturale, guerrieri, magistrati, cardinali… ci stava specialmente ‘o nonno che pareva che muoveva l’uocchie… quant’era brutto ‘o nonno! Io alluccaie, chiagnette, ma niente, nessuno me deva udienza».
I libri, allora, come figure silenziose di quadri, come ritratti muti di antichi parenti. In ogni caso simili ai morti.
C’è ancora un’altra motivazione. È molto probabile che, tra qualche mese, la cerimonia dovrà ripetersi. Questa volta per un “morto” che mi appartiene e – sicuramente – i parenti e gli amici presenti saranno gli stessi.
Sicché la nostra potrebbe apparire una compagnia di giro. In realtà si sta sperimentando la relazione della rete. Occorre fare rete. Credo che di questo, prima di ogni altro, abbia bisogno la cultura di questa città. Non di intellettuali monadi “senza porte e senza finestre”. Anche perché come sostiene Thomas Merton: nessun uomo è un’isola (2):
«Quello che faccio viene dunque fatto per gli altri, con loro e da loro: quello che essi fanno è fatto in me, da me e per me. Ma ad ognuno di noi rimane la responsabilità della parte che egli ha nella vita dell’intero corpo».
È quindi difficile poter parlare male di un testo, soprattutto se il libro è stato scritto da una persona con la quale si intrattengono rapporti di saldissima e anche affettuosa amicizia. Con cui si condividono molte cose. Con la quale si lavora nella stessa scuola (3). Spesso con le tesi di Nicola non ci si ritrova. Ma la persona è la stessa con la quale stiamo cercando di costruire una libera scuola di filosofia e un nuovo progetto politico.
Insomma. Si sarà capito. Non parlerò male di Nicola Sguera. Non parlerò del suo libro perché – mi ripeterò e nonostante il Fedro – i libri vanno letti. Magari lasciati e poi ripresi. Abbandonati per un po’ ma mai lasciati per sempre. Cercherò allora di comunicare a voi alcune brevi, sintetiche riflessioni che la lettura delle pagine di Sguera hanno suscitato in me.
Io non sono un filosofo (un “Ganimede della verità”), né uno storico della filosofia. Da una trentina d’anni (e, grazie alla gentilissima signora Fornero, credo, ancora per sei – sette anni) insegno più filosofia e storia nei licei. Il mio problema, per il futuro, sarà quello di non dire una quantità di fesserie oltre un limite accettabilmente fisiologico. Tra le altre cose, mi sforzo di far comprendere ai giovani una verità che va facendosi sempre più difficile: che i libri vanno letti.
Noi siamo qui per invitarvi a comprare e a leggere il libro.
Aggiungerò che è un libro scritto bene.
Con la scelta tutta heideggeriana – ovviamente – della poesia pensante e del pensiero poetante, Nicola ci prende per mano, come la “Giustizia che molto punisce” o, se volete, “preposta alle pene” (Dike polùpoinos) del nostro quasi compaesano Parmenide e ci guida attraverso i pensieri profondi che hanno accompagnato la sua vita (o le sue vite). Il percorso si sviluppa attraverso quattro snodi: il racconto dei suoi maestri eretici, un po’ di acute riflessioni su alcune questioni per noi epocali, una riflessione sulla spiritualità e, infine, il grande amore di Nicola, ossia la poesia.
Alcuni degli eretici li condivido con lui. Penso a Bonhoeffer – ampiamente presente e citato nel mio lavoro di laurea, il cui ultimo capitolo s’intitolò “Fede e religione”. Un po’ come il suo “Spiritualità e religione”. Penso a Simone Weil che ho molto usato per il nostro ultimo spettacolo. Penso a Revelli – benché io sia legato al ricordo del padre, il partigiano Nuto che con il bellissimo L’anello forte confermò in noi, che continuavamo a raccogliere canti popolari durante gli anni ottanta, l’importanza della storia orale. Penso, infine, a Edgar Morin e alla sua riscrittura dei codici fondamentali di ciò che dovrebbe essere la scuola oggi. La riforma del pensiero sarà paradigmatica, non programmatica e occorre riscoprire il valore dell’eros «che permette di tenere a bada il piacere legato al potere, a vantaggio del piacere legato al dono». Altro che competizione e concorso a premi per i migliori che – di solito – arrivano dalle realtà sociali più solide, meglio sistemate economicamente e in grado di pagarsi tutto ciò di cui si deve disporre per competere. E’ necessario che si cominci a ridirlo con forza dopo la sbornia neoliberistica di quest’anni che ci ha lasciato inebetiti, Proprio come se avessimo bevuto vino di pessima qualità. Che, fra l’altro, vogliono continuare a servirci.
Scrive Paul Valéry: «Quel che si può rimproverare alla filosofia è che essa non serve a niente, mentre dà a credere di poter servire a tutto e in tutto – scrive Paul Valéry. Sicché si possono concepire due modi di Riforma filosofica: l’uno che sarebbe quello di preavvertire che essa non servirà a niente – e ciò equivarrà a dirigerla verso la condizione di un’arte, l’altro modo sarebbe quello al contrario, di incitarla a essere utilizzabile e di tentare di renderla tale ricercandone le condizioni».
Mi pare di poter dire che la scelta di Nicola vada verso questa seconda direzione sebbene egli si affanni a dire che lui si augurerebbe la fine della filosofia almeno - credo – nella forma che si è costruita nella civiltà occidentale.
La lettura del libro di Nicola – ma anche parlare con lui – mi ha riportato alla mente a un’esperienza cui demmo vita a Moiano, agli inizi degli anni Settanta. Eravamo giovani, di provincia e di paese. Demmo vita a un gruppo che chiamammo “Utopia”. Alcuni di noi avevano cominciato a sentir parlare di Ernst Bloch, il filosofo dell’utopia e del principio-speranza. Ed è Bloch che vorrei ricordare stasera. Credo a Nicola farà piacere.
Del filosofo vorrei evidenziare alcuni elementi che, al di là delle appartenenze più o meno scontate e da leggere nei contesti, a me sembrano vicini.
Bloch è anch’esso, in buona sostanza, un filosofo antiaccademico. («Mi mantenni piuttosto distante dalla filosofia delle università. Sono un filosofo che abita la propria costruzione filosofica»). Ha origini ebraiche. La sua esperienza muove dall’esperienza dell’oscuramento (Die Okkulten):
«Troppi vivono nel deserto e nel grigiore. Oppressi dalla cura esterna, senza avere o potere esperire vitalmente qualcosa. L’amore è sparito o è finito male, l’esserci non ha neppure avuto inizio o è diventato rapidamente un mucchio di cenere da cui non si leva più nessuna scintilla. L’intimo contegno, il filone più lontano per il quale vale la pena vivere è scomparso. La stolta tristezza degli animali, delle creature senza prospettiva si è così diffusa in moltissimi uomini. Mai gravò una quotidianità altrettanto priva di luce».
Certo, «se si vuole essere un bue, naturalmente si può voltare la schiena ai tormenti dell’umanità e badare solo alla propria pelle», scriveva Marx a Siegfried Meyer.
In un certo modo noi viviamo combattuti.
Da una parte la consapevolezza kantiana che dal legno storto dell’umanità non si è mai cavato niente di dritto, dall’altra avvertiamo una spinta a sperare, per cui si tratta di imparare a sperare, respingendo, con Bloch, «una vita da cane (Hundeleben) che si sente solo passivamente gettata nel mondo, in una situazione incomprensibile, anzi riconosciuta come miserabile».
Eppure la concezione contemporanea dell’utopia manifesta un’evidente ispirazione rousseauiano-kantiana perché fu proprio Kant a fornire una fondazione concettuale della funzione dell’utopia nella storia.
La fondazione kantiana si basa sulla funzione “regolativa” delle idee trascendentali. Le idee della ragione, pur se non costitutive dell’esperienza, orientano e guidano il mondo fenomenico verso mete transfenomeniche e ultramondane, in tal modo imponendo il progressivo affermarsi, nella storia, del diritto sulla forza, della pace universale perpetua sul «bellum omnium contra omnes» di Hobbes. «Il dolce sogno vagheggiato dai filosofi», come Kant definisce la sua opera utopica del 1795 (Zum ewigen Frieden), il cui titolo ricava ironicamente da un’iscrizione cimiteriale.
E nel Settecento l’utopia è sempre e ancora intesa come una «région qui n’a point de lieu, un pays imaginaire» e, tre anni dopo la pubblicazione dell’opera kantiana, nel Dictionnaire de l’Académie, definito “plan de gouvernement imaginaire. «Un archivio delle quadrature de’ cerchi», per dirla con il napoletano Genovesi.
Ma qual è il valore dell’utopia, se l’utopia ha un valore?
Bloch propone una nuova filosofia che fugge la cosiddetta «malìa dell’anamnesi» platonica (la conoscenza solo come ricordo, un pensiero che esclude il presente perché guarda solo al passato e tradisce il futuro) e che avverte fortemente il peso della tradizione del messianismo ebraico.
Vi vorrei ricordare, a questo proposito, i versi di un celebre canto natalizio di Alfonso Maria de’ Liguori, il santo vescovo di Sant’Agata de’ Goti che noi, da bambini, cantavamo durante le cerimonie di Natale:
Nun c’erano nemmice pe’ la terra
La pecora pasceva co’ lione
C’ ’o caprette se vedette
’o liuparde pazzeà
l’urzo e ’o vetiello
e co lu lupo ’npace ’o pecoriello.
La pastorale natalizia alfonsiana è una traduzione, in una bellissima lingua napoletana, una traduzione quasi a calco, di Isaia 11, 6-7:
habitabit lupus cum agno
et pardus cum hedo accubàbit
vitulus et leo et ovis simul morabùntur.
Friedrich Waismann, filosofo austriaco, matematico e logico del circolo di Vienna, definisce il filosofo come «colui che percepisce dei crepacci nascosti nella struttura dei nostri concetti laddove altri vedono solo il levigato sentiero dei luoghi comuni davanti a loro».
Ma per percepire i crepacci occorrerà possedere l’idea di una struttura assoluta e perfetta.
Quale funzione, allora, per l’utopia? Non è possibile più sognare? A me sembra che l’utopia, oggi, possa avere la stessa funzione che hanno avuto spesso le grandi ricerche etnologiche, una sorta di autentica via crucis della cultura moderna che, come Ernesto De Martino insegna, ci hanno spinto alla consapevolezza dell’importanza che anche per l’Occidente di oggi hanno l’arcaico e il mitico, e non già come di una fase superata di un’immaginaria storia umana linearmente percorrente il suo cammino trionfale.
Sicché l’umanesimo etnologico, prodotto di tali ricerche, individua come suo percorso proprio «la sfida del culturalmente altro», si lascia travolgere dallo scandaloso incontro con umanità differenti, accetta di giocare tutto il proprio destino sul rimorso davanti al fratello separato e alla diaspora, alla dispersione delle culture del nostro mondo.
Quando abbiamo ricercato i canti della nostra terra, mediante quest’incontro sul terreno con comunità viventi, ci siamo esposti deliberatamente all’oltraggio delle memorie culturali più care, le abbiamo messe in gioco.
I “barbari” – e vi prego di credere che ci sono quattro paia di virgolette a racchiudere questa parola - che vengono verso di noi ci portano un dono di cui noi abbiamo molto bisogno. E il dono va scambiato perché chi dà e non riceve e chi riceve e non dà si condanna a morire, come mostra Marcel Mauss nel suo Essai sur le don.
Essi ci aiuteranno a scoprire la nostra umanità profonda. Conoscendo gli altri, impareremo a conoscere meglio noi stessi. L’uomo entra nel mondo etico quando cessa di pensare l’altro come un “non-io” e lo riconosce come un “tu”, quindi come una interiorità che si concede non per via di possesso ma come apertura reciproca. E qui è il valore positivo dell’utopia che, attraverso lo strumento del giudizio critico, agisce come forza propulsiva reale della storia. «La ragione non può fiorire senza speranza, così come la speranza non può parlare senza ragione» (die Vernunft kann nicht bluhen ohne Hoffnung, die Hoffnung nicht sprechen ohne Vernunft).
L’utopia come “più-che-reale”, lungi dall’essere considerata un programma di governo, come «un’ulteriore quadratura del cerchio», dovrà servire come specchio impietoso per l’oscurità dell’oggi che ci tocca vivere. Il Front populaire è stata una coalizione di partiti politici di sinistra. Fu al governo tra il 1936 e il 1938. Due anni appena. Ma la legge – allora introdotta - che prevedeva i primi quindici giorni di ferie pagate ai lavoratori restò.
Certo oggi viviamo un’epoca in cui questo riconoscersi appare particolarmente complesso e non sembra proprio tempo di utopie.
Ma, e ritorniamo a Bloch, occorre guardare con ottimismo al futuro e agire in modo tale che alla sofferenza angosciante e senza vita del Venerdì santo possa succedere la Pasqua di Resurrezione.
Con grande forza e con profonda speranza sapendo che «sui passaggi intermedi della nascita del nuovo c’è buio ma ciò non deve meravigliarci, perché ai piedi del faro non c’è luce».
NOTE
1. Diogene Laerzio riferisce, nella Vita dei filosofi, questa sentenza a uno dei sette sapienti dell’antichità, Chilone di Sparta.
2. Il titolo, ripreso da un passo del Devotions Upon Emergent Occasions (1624) del poeta John Donne («No man is an Iland, intire of it selfe; every man is a peece of the Continent, a part of the maine...»), vuole significare che ogni uomo è una componente integrante dell'umanità, una parte di un tutto.
3. Ricordo quando – qualche anno fa – insieme demmo vita a un ciclostilato di dibattito e di proposte, destinato ai nostri colleghi del liceo che chiamammo socraticamente Il tafano.
Amerigo Ciervo
Amerigo Ciervo insegna filosofia e storia al Liceo Classico "P. Giannone". Negli anni Settanta è tra i fondatori de "I Musicalia". Al suo attivo numerosi libri dedicati all'etnomusicologia, alla storia e alla cultura popolare.
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