giovedì 25 ottobre 2012

"In quieta ricerca"* IV

Il libro di Nicola Sguera si sviluppa in quattro sezioni, solo apparentemente distinte e parzialmente interagenti: i maestri eretici (davvero? perché?), la storia (le storie, la politica, la tecnica, la bioetica,...), il sacro (le conversioni) e la poesia (ovvero del linguaggio).
A.1. Nel libro tutto si tiene per via di “conciliazione”. Autori diversi per cultura e scelte, pagine che parlano di libri e che hanno segnato il percorso di ricerca di Sguera si “incontrano” nel terreno della definizione di eresia rispetto alle culture dominanti coeve o dinanzi agli schemi sovrapponibili del pensiero accademico dominante; alcuni di questi autori son stati, per così dire, “ininfluenti” durante la loro vita o conosciuti ed apprezzati da un ristretto nucleo di amici ed estimatori: noi li abbiamo letti ed apprezzati dopo lo svolgimento drammatico ed intenso delle loro vite sebbene appartenessero pienamente tutti all’evolversi del ’900. Altri tra gli autori “indagati” (Heidegger, Morin,...) hanno avuto ed hanno un’influenza dibattuta e problematica, lungi dal sedare tensioni o vere e proprie tenzoni (il nazismo nell’uomo Heidegger, ad esempio). 
Da tutti gli autori “raccontati” Sguera cerca conferme per un approccio personale (ai limiti dell’individualistico) alla tenuta di un pensiero plurale (aperto, colloquiante, dedito al cambiamento,...) annettendo, relazionando o componendo un filo rosso che sia in grado di dare voce agli utopisti, ai profetanti, ai dolenti o ai dubbiosi: sembra di trovarvi un sotterraneo (ma inconfessato) modus di placare in “sistema” le diversità, pacificandone le identità.
A.2. Su altro fronte, anche senza voler insistervi troppo, è posta la questione irrisolta della formazione culturale (ed esistenziale, nel complesso) di ciascun individuo: dalle accademie (di tutti i tempi e di tutte le modalità) si deve andar via; insomma lasciare i solchi ereditati o consolatori e avventurarsi nel grande mare delle realtà diverse avendo come principale obiettivo il “radicare il sapere nelle nostre vite”.
A.3. Ritengo che per far questo bisognerà tornare nelle contraddizioni che il Novecento ha lasciato irrisolte, anzi cambiare anche punto di vista soprattutto dinanzi a quanto abbiamo dato per scontato e “veritiero” in modo assoluto; lasciare le apoditticità ideologiche che hanno condizionato popoli ed individui per una ricerca (inquieta, molto inquieta) degli elementi emancipanti e liberatori per ciascun individuo. Il Novecento con le sue avanguardie è stato ipostatizzato fin troppo spesso come portatore di progresso (la guerra invocata dai futuristi come “igiene del mondo”) lasciando un marchio di orrore sulla carne dei popoli (il secolo veloce ed anche della shoah
A.3b. Credo sia necessario abbattere quella sorta di “evoluzionismo darwiniano” su cui, ad esempio, si reggono al fondo le varie storie sulla creatività del XIX e XX sec.: eccessiva la dose di interdipendenza conflittuale, spacciata per dialettica, tra l’uno e l’altro dei movimenti artistici, ciascuno dei quali derivante per ostativa filiazione (con l’ovvia freudiana uccisione dell’avo) dal precedente. Il linearismo millenaristico si è nascosto spesso sotto il paludamento di “nuovo”. Ciò premesso il secolo scorso ha inseguito l’idea di bellezza, ma ne ha presto abbandonato la fattualità, negatole quindi una destinazione ed un ruolo nella formazione del pensiero, con tutte le gravi conseguenze verificatesi tristemente proprio nella fase della cosiddetta “civiltà dell’immagine” (responsabili i filosofi che discettano di etica ed estetica come discipline difformi, soprattutto se si privilegia l’autonomizzazione dell’estetico che vedo pericolosa pur non essendo un lukacsiano).
A.3c. Stinta come dopo il diluvio, relegata in perenni soste ancillari nelle cucine del tardocapitalismo e resa materia inerte da un pensiero che pur abusando delle parole non le conosce davvero nella loro densità identitaria, la bellezza è negata di fatto dalla “tecnica” - e dai miti che la fondano in un ruolo di super partes - nel rapporto con la mutazione della realtà e, soprattutto, dell’idea di realtà (ancora responsabili i filosofi troppo occupati dal “proprio” ricettario). La “tecnica” ha costruito (politicamente), realizzato (economicamente) ed assolto (ideologicamente) perfino i genocidi in virtù del rapporto costi-benefici: l’essere è denotato per la propria tipologia economica, non essendo la tecnica estranea al potere o oggettivamente solitaria nel lungo percorso di conquista perenne della realtà nota od ignota. 
A.4. Infine, il linguaggio è una dirimente questione nel rapporto tra gli individui. I contesti mutano e i linguaggi sembrano rincorrere gli accomodamenti (in filosofia, come in arte o nella comunicazione): a perseguire linguaggi di incantamento o di affabulazione sembrano destinati solo i santi, gli artisti ed i poeti, al resto dell’umanità “restebbero” i linguaggi della connessione. Eppure tra la fine del secolo scorso e nel primo decennio di questo secolo abbiamo sperimentato la commistione, l’interpolazione, la coesistenza ed anche la dispersione dei linguaggi (annettendo le “due culture” d’un tempo in ampi laboratori) (in una formula direi che la commistione costituirà la ragione identitaria della connessione, altrimenti che mi connetto a fare se non rapporto a me la diversità dell’altro, con tutto quel che segue?). 
A.5. Il sacro in Nicola Sguera è costante interrogazione in filiazione culturale, “sentimentale” (per via di passione) ed aperto alla speranza: lungo l’albero del sacro s’inerpica il progetto esistenziale, le ragioni morali che sorreggono l’operato di un uomo e le sue scelte (il caso di Bonhoeffer). (Il sacro insegue Nicola, lo scova spesso nella terribile vita, lo costringe ad una lotta, rimette in circolo eredità e scelte dell’età pensante, ponendo in difficoltà qualsiasi soglia critica dinanzi al senso stesso della vita). 
In questo ambito tutto si tiene e tutto torna al medesimo desco: l’io declinato non in solitudine (anche se in Nicola tende a debordare, invadendo le ragioni del fare, sovrapponendosi alla percezione condivisibile della mutevolezza come decantato “chimico-poetico” dell’io), gli altri accolti in reciprocità e gli scenari delineati con rigore (l’imperium che ha radicamenti lontani). (Qui, nel sacro vi sono distanze che io e Nicola tentiamo di colmare in molte occasioni, evidentemente senza riuscirvi ancora, ma nutriamo “speranza”)
A.6. Tutto l’impegno della conoscenza va ascritto al senso della stupefazione: essa annette e rivolta, sconquassa e mette in circolo relazioni di senso, spesso mescola le sensazioni alle certezze; in altre parole rimette in discussione l’accertato (burocratico) delle nostre esistenze, condannandoci al dubbio (che non è ritenuta una qualità morale nei nostri tempi). (Ancora: forse saremo sgombri da assiomi e portatori di arsure non sopite se la stupefazione prende il ruolo che le compete nelle nostre vite). Per via di stupefazione si giunge all’appropriazione: l’interiorità diviene così il solo terreno di “cultura” per la qualità umana (questione che non comporta infantili deviazioni dell’io protagonista; siamo creature” dinanzi al mondo, siamo nel e del mondo ma non “il” mondo; l’eccesso del sé rimanda alla patologia della supremazia).
Ogni essere umano si impegna quando “sente” e “parla” del sé (quando giunge al pensiero poetante): mette in discussione molto e molto altrettanto insegue nel dare senso alle proprie scelte da cui discende quello struggimento (sehnsucht) per l’incompiutezza e la “nostalgia” dell’incorrotto (dell’Andrej Rublëv di Tarkovskij prediligo l’episodio in cui Boriska, il giovane figlio d’un costruttore di campane senza “eredità” sapienziali, gioca la propria partita esistenziale con la coraggiosa sfrontatezza del poiein).

Gaetano Cantone

Rielaborazione dell'intervento tenuto il 13 ottobre al Teatro De Simone. L'immagine è una tempera su carta di Cantone dal titolo "Angeli metafisici n. 97"

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