Cerco invano nei diari e nei quaderni degli anni passati dati certi sul mio peso corporeo. Devo affidarmi a ricordi incerti. Sono sicuro di essermi sempre percepito “grasso”. Il confronto avveniva con i miei tre cugini, Nicola, Vincenzo, detto Vizzi, e Raffaele: tutti magrissimi e slanciati. Io ho sempre avuto una corporatura massiccia. Con molta sofferenza alle feste dissimulavo l’interesse per i panini e i dolci, per evitare i crudeli sarcasmi tipici dell’incoscienza infantile. Mi percepivo qual ero: brutto, sgraziato. Con una testa enorme, la pancia, le orecchie a sventola, i capelli ispidi. Caratteristiche che mi sono valse svariati soprannomi: Tripponzio (poi Trippillo, infine Tricchi) dalle mie sorelle, Dumbo e Ippogrifo da parte dei compagni. È stata dura. C’è una fase della vita in cui noi siamo il nostro corpo, ci aggrappiamo ad esso come unica possibile “forma” della nostra identità, in cui lo sguardo dell’altro ci dà certezza di ciò che siamo o non siamo. E, dunque, sono stato silenziosamente invidioso dei miei cugini e di tutti i maschi piacenti, belli, slanciati… Non riconduco, però, a questo la mia “diversità”, le mie scelte così stridenti rispetto all’ambiente in cui ero cresciuto, lo stile di vita così solitario, restio alle pratiche adolescenziali o tardoadolescenziali… Quando i miei cugini iniziarono a frequentare la “movida” beneventana (che allora si riduceva a Piazza Risorgimento, divisa in tribù), io continuai a rimanere da una parte attaccato a ciò che eravamo stati, ai nostri giochi campestri, dall’altra a slanciarmi verso letture e passioni atipiche. E, quindi, in qualche modo, il riconoscimento di me (fino ad allora intimamente connesso al corpo, all’aspetto esteriore), intraprese altri sentieri, ben diversi. Anche il legame stabile con quella che sarebbe divenuta mia moglie, apparentemente, chiuse la questione. Ero stato “riconosciuto” da un tu. In realtà, stavo, come spesso nella vita, eludendo il problema. Realisticamente, e torno all’inizio, negli anni Ottanta pesavo intorno ai novanta chili. Giocavo con una certa frequenza a calcetto e tennis, ma, dopo aver abbandonato (intorno al 1985) la pallavolo, non facevo attività fisica continuativa. Il primo shock serio legato al peso lo ebbi nel 1989, quando scoprii di aver quasi toccato i cento chili. Nel 1994 mi sottoposi a dieta ferrea in vista del matrimonio. Scesi di nuovo a novanta chili. Due mesi dopo il matrimonio avevo di nuovo superato i cento. Tutto inutile. Da allora sono riusciti a rimanere stabile su quel peso, fino al periodo terrificante della nascita di Caterina, quando, sbattuto tra Benevento, Roma e Firenze per risolvere i suoi problemi, credo di essere arrivato ai centodieci. È come ricordare un incubo, dove tutto si confonde. E i primi anni di vita di Caterina hanno coinciso con la fine di ogni attività sportiva e una fame nervosa, compulsiva, che lasciava presagire derive catastrofiche. Effettivamente, tre anni fa, con il corpo che lanciava allarmi di ogni tipo, ho scoperto di avere il diabete alimentare. Paura. Dieta rigorosa, attività fisica. Piccolo miracolo: sono sceso a 94 chili. Mi sono fermato per un anno. Ho tenuto la posizione. Quest’estate ho ripreso la dieta: ho perso altri otto chili e, soprattutto, iniziato una quasi quotidiana attività fisica che mi ha donato una forma fisica che, probabilmente, non ho mai sperimentato neanche ai tempi della Grippo e della pallavolo. Soprattutto, ho imparato a convivere con i dolori e gli acciacchi dell’età, senza sperare guarigione da medicine e terapie ma solo da una vita il più possibile sana, da un’alimentazione corretta e dall’attività fisica quotidiana.
Era tanto che volevo scrivere del mio rapporto col corpo. Mi ha sempre colpito una frase di Nietzsche che dice: «C’è più verità nel corpo che in tutte le filosofie e le religioni della Terra». È bello sentire la forza delle gambe quando gioco a pallone con ragazzi che hanno meno della metà dei miei anni. Però ci sono dei grandi rischi, dai quali debbo imparare a guardarmi, e che probabilmente sono quelli tipici di molta presunta “salute” ginnica del nostro tempo. Il rischio di non percepire anche questo come un dono ma come il frutto della nostra volontà. Devo imparare, dunque, anche nel godimento gioioso del mio corpo l’“abbandono”. Io sono una creatura. E ogni dolore corporeo, ogni male, lo devo accettare come spia di questa creaturalità. Non sono il signore del mio corpo. E, dunque, grazie per la forza ma anche per la malattia o piccoli dolori.
Intimamente connesso al discorso sul corpo è quello sulla sessualità. Non so se riuscirò mai a parlarne in questo “diario pubblico”: mi rendo conto che anch’esso è centrale nella totalità del mio essere, ma anche discorso impossibile da affrontare se non ellitticamente, per allusioni, evocazioni, per spostamenti simbolici. Eppure, se essermi riconciliato col mio corpo, per tanto tempo percepito come prigione d’uno spirito che voleva volare libero, è stata tappa decisiva, potrebbe non esserlo integrare anche quell’ombra che m’accompagna da sempre? Sanata la frattura fonda tra corpo e spirito, potrò non intraprendere un nuovo percorso di maturazione per sanare altre zone incompiute del mio essere?
1 commento:
Un rapporto conflittuale che hanno uomini e donne quello con il corpo, o con la proprio anima, il proprio "essere in un corpo"? Qual'è il peso della società in cui viviamo e quale quello della nostra storia? Il corpo ha storie davvero molto interessanti da raccontare...
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