Malgrado l’impegno preso in una Benevento surreale e innevata, che cioè nessun giorno trascorresse senza che appuntassi qualcosa su queste pagine virtuali, su questo “diario in pubblico”, sono trascorsi tanti giorni “sine linea”… Ma, in realtà, ho scritto tanto, troppo, anche se altrove, e fatto tante cose proficue.
Come promemoria per futuro: settimanalmente Emilio Fabozzi, sotto minaccia di frusta, pretende un pezzo per il blog che ospita su «BMagazine», e sono intervenuto su varie questioni in cui sono direttamente coinvolto. A ciò si aggiunge la rinnovata passione per il disegno (disciplina nella quale non ho alcun talento, sia chiaro, ma che mi dona immensa felicità) dopo circa trent’anni in cui avevo deposto matite, pennini e pennelli… Per cui sto producendo un “volto” a settimana che, generosamente, Billy Nuzzolillo pubblica su «Sanniopress». Stiamo continuando la bella esperienza della Libera Scuola di Filosofia del Sannio, con Amerigo Ciervo e Giancristiano Desiderio. Con Antonio Furno, Alfredo Pinto e Aaron Visaggio abbiamo lanciato BN.ComiX – Per il fumetto nel Sannio. Ho partecipato all’ottimo “Paradoxa” organizzato da Guido Bianchini e Yuri Di Gioia. A ciò si aggiungono due impegni quotidiani: aiutare mia moglie per completare il suo percorso universitario e rivedere i miei scritti saggistici in vista di… qualcosa! Ci avviamo anche alla fine dell’anno scolastico, con maggio che è il mese più complicato sia per gli alunni che per noi docenti. In attesa di notizie sul mio futuro scolastico? Dove insegnerò l’anno prossimo? Resterò allo Scientifico, dove sono stato benissimo, quasi riposandomi in questi due anni? Tornerò a quella che per motivi familiari e biografici considero “la mia scuola”, cioè il Giannone, il Liceo Classico? E questo quanto inciderà sulla mia quotidianità?
La revisione dei miei scritti mi ha costretto a rileggere delle pagine certo non dimenticate ma come sopite nella mia coscienza. Ad esempio, quelle folgoranti di Hammarskjöld. In una passo scrive: «Preoccuparsi del proprio benessere… E venire ricompensati da un barlume di soddisfazione, seguito da un lungo vuoto, imbarazzante e risucchiante». La mia vita, essendo io gemelli (duale in maniera strutturale, senza possibilità alcuna di sintesi), ed essendo figlio di due genitori che erano opposti ma non complementari, ha sempre oscillato fra una mistica del “sacrificio” (che ritorna in tutti i personaggi che amo, diversissimi tra loro: da Leonida a Bonhoeffer agli ultimi film di Tarkovskij) e l’estasi della felicità. Le due cose non sono compatibili in assoluto. L’unica possibilità per me, all’interno della coordinate immodificabili tracciate dalla mia infanzia, all’interno dell’ambiente datomi della mia famiglia e della civiltà in cui sono cresciuto (con un peso determinante di modelli “cristiani”, a partire da mia nonna), di “dare senso” alla mia esistenza è sottomettermi ad una “legge”, talvolta dura, vivendo con sofferenza la tensione tra desiderio e obbedienza. So che ogni qual volta mi abbandono al lato dionisiaco della mia personalità esso manifesta tratti oscuri e (auto)dissolutivi. È come se il solido divenisse liquido, informe. Per citare ancora Hammarskjöld: «Non puoi giocare con la bestia che è in te senza divenire tutto bestia». In questo "paradigma" esistenziale, la felicità può solo accadere per grazia, giammai essere ricercata: è dono gratuito, appunto.
Negli ultimi sei anni della mia vita, l’obbedienza ha preso il volto di mia figlia. Ho vissuto organizzando ogni aspetto della mia vita in sua funzione. Contestualmente non c’è stata una maturazione “coniugale” (mi piacerebbe che qualcuno cogliesse la venatura chariana di quest’aggettivo, sempre associata alla “tensione” eraclitea). È come se io e Rosaria avessimo strutturato un rapporto di “soli ad sola” con nostra figlia. Negli ultimi anni della mia vita, dunque, io sono stato essenzialmente un “padre”, tra infinite contraddizioni, pieno di incertezze e domande, ma facendo ciò che un padre deve fare: decidere, scegliere, senza rete, senza nessun padre alle spalle. In questi anni, soprattutto per scelta di Rosaria, e ancor più che negli anni precedenti, il nostro nido si è chiuso quasi ermeticamente, come sanno bene molti dei miei amici. Quel tempo, lo percepisco, è finito. Continuerò ad essere padre, ci mancherebbe. Continuerò, tra infiniti problemi, ad essere un “marito”. Ma qual è il “mandato” della stagione che si apre? Qual è l’obbedienza cui sottomettermi perché la mia vita non diventi liquida, non si dissipi in rivoli di piccoli piaceri senza senso, di piccole soddisfazioni quotidiane che, la sera, nel momento del redde rationem, dell’esame che mi faccio ad occhi aperti nel letto, lasciano solo sapore di cenere e bruciore di stomaco o il riso dello stolto? Non posso che cercare attimi di raccoglimento in cui ascoltare una voce che mi guidi o aprirmi alle voci degli uomini attraverso cui Dio spesso ci parla, se abbiamo affinato cuore e orecchi.
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