Nei fiumi a nord del futuro
io lancio la rete che tu
esitante aggravi
con ombre scritte
da pietre.
Lanciare la rete per cosa? Per catturare i pesci… I pesci sono simbolo di rinascita, di un’altra vita. Io, dunque, mi slancio nel futuro, più in là però di quello prossimo, a nord del futuro. È un futuro eonico non cronologico. Ma tu esiti, tu non sei con me in questo slancio, non condividi la necessità di uno sguardo che osi l’oltranza, l’utopia, la profezia. Io, dunque, sono solo. La condizione del poeta/profeta è la solitudine. Tu parli, e le tue parole sono oscure, minacciose, prive di luce, ombre prive di vita, pesanti, contro la grazia che sarebbe necessaria a slanciarci nel futuro remoto per catturare il pesce guizzante della rinascita, della vita nuova.
Ivan Illich amava molto questa poesia. Campeggia come epigrafe di una serie di interviste uscite postume (I fiumi a nord del futuro. Testamento raccolto da David Cayley, Verbarium - Quodlibet). Scrive il curatore nell’introduzione: «Il futuro, essendo un idolo, divora quell’unico momento in cui il cielo s’incontra con noi: il presente. L’aspettativa cerca di forzare il domani; la speranza dilata il presente e prepara un futuro, a nord del futuro». È ciò che, nel Meridiano, è chiamato U-topia? Quindi questo testo partecipa di quella “ricerca topologica” le cui cartine esistono solo in sogno, in un sogno.
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