Il 14 ottobre si è svolto un incontro organizzato da Luigi Santamaria. Ospiti: Edoardo Dallari e Vincenzo Vitiello.
Qui di seguito la mia introduzione e una riflessione sulla serata già pubblicata da «Messaggio d'oggi».
* * *
Grazie a Luigi, che mi auguro – nella costruzione
della sua vita – possa trovare tempo, risorse ed energie per alimentare, nella
sua città, nella nostra città, degli spazi perché il pensiero possa accadere,
nella sua libertà, al di fuori di qualunque burocrazia o “necessità”
eterodiretta (e anche di qualunque ingerenza politica). Noi ci abbiamo provato
per qualche anno con la Libera scuola di filosofia del Sannio, e sarei felice
se i giovani raccogliessero questo testimone. Avranno sempre il mio sostegno
convinto.
Qualche anno prima ci provammo, appena laureati, negli
anni Novanta, con “la rosa necessaria”, che fu laboratorio di riflessione innanzitutto
poetica ma soprattutto desiderio di non rassegnarsi a una vita di “quieta
disperazione” nella provincia sonnacchiosa, dormiente. Questa città troppe
volte sembra oscillare come un pendola tra la cultura “organica” a qualche
potentato o la fruizione privata, come se non fosse possibile creare spazi
liberi. Grazie, dunque.
E grazie a Luigi soprattutto perché ha creato questa
oasi in cui rigenerarmi tra l’impegno scolastico, bellissimo ma estenuante, e
l’impegno politico. Sono ambiti che mi sforzo di tenere in feconda tensione, e
di continuare a nutrire entrambi con il pensiero.
Grazie a Luigi anche perché mi permette di
riascoltare, per la seconda volta a pochi mesi dalla intensa, sentita
presentazione del libro di Guido Bianchini, uno dei maggiori filosofi italiani.
So bene che lui non lo ricorda – anche se mi piace sperarlo – e senza nessun
ansia di primato. Credo però di essere stato il primo ad invitare il professore
in città. Era il maggio del 2005. Io – divenuto da qualche anno docente di
filosofia e storia, pur avendo formazione letteraria - stavo vivendo da alcuni
anni una travaglio spirituale che mi aveva spinto a riabbracciare la fede
cattolica. L’incontro con i libri di Vitiello, in particolare Dire Dio in segreto, mi spinse ad
organizzare un incontro, che ricordo partecipatissimo in una nota libreria
cittadina.
Veniamo a noi.
Vitiello accomuna due pensatori come Jünger e Schmitt nella comune volontà di «comprendere il
presente» (che in realtà mi pare la non tanto segreta ambizione del libro
stesso di Edoardo...). Volontà condivisa da un pensatore oggi bistrattato, al
centro di un’operazione-verità (la pubblicazione dei Quaderni neri) che vuole, in nome del suo antisemitismo filosofico
e della sua convinta adesione al nazismo – sbarazzarsi anche di quanto continua
ad esserci necessario proprio per capire questo tempo, il nostro tempo. Sto
parlando, ovviamente, di Martin Heidegger. Questi tre autori, e Vitiello lo
dice a lettere cubitali, furono tutti e tre nazisti. Uno dei miei maestri, un
atipico poeta-pensatore, più volte ospite a Benevento, Marco Guzzi, mi ha
insegnato che il XX secolo è percorso da istanze rivoluzionarie che sfigurano
l’uomo. Esse devono essere riprese per trans-figurare quella figura d’uomo che
noi ancora siamo. E mi pare che Edoardo si incammini nella stessa direzione,
ambiziosa, necessaria quando scrive: «L’idea regolativa che muove questa
ricerca consiste nel faticarsi ad indicare un possibile cammino percorrendo il
quale possa accadere, un giorno, il rivolgimento del mondo che noi, abitatori
del tramonto dell’Occidente, frequentiamo in ogni nostra forma di pensare,
agire, vivere». Il rivolgimento del mondo....
Questo è il tempo del disordine globalizzato, del
dominio di una razionalità tecnoeconomica incapace di regolarsi: una dissonante
polifonia multipolare priva di ἀρχή,,
la definisce Dallari, suggestivamente. Qui si capisce la fascinazione del
secondo Schmitt, quello del Nomos della
Terra, libro imprescindibile, titanico, che aiuta l’autore a pensare il
rapporto senza sintesi ed equilibrio tra il tutto e le parti (che invece
opererebbe nel pensiero storico-politico di Hegel). La globalizzazione supera
lo Jus Publicum Europaeum fondato
sullo Stato, a partire dalla pace dii Westfalia, alla fine dell’ultima grande
guerra di religione. Lo Stato nazione non riesce più ad ordinare una realtà che
lo dissolve dall’alto (pensiamo all’UE per l’Europa) e dal basso (pensiamo alla
recentissime vicende catalane).
La densa premessa di Dallari si chiude con quello che
mi sembra un progetto di ricerca per il futuro e che seguiremo con grande
interesse: come si strutturerà la politica meta-statale abitata da entità
neo-imperiali? Come si evolverà il rapporto fra politico ed economico in questo
secolo percorso da accordi commerciali di cui i cittadini sono spesso
inconsapevoli (pensiamo al Ceta o al Mes-China)?
Chiudo, lasciando a veri pensatori il compito di
elevare la discussione, evocando – e sollecitando il professore ed Edoardo
eventualmente ad una riflessione – una pensatrice a me carissima, che mi è
tornata in mente leggendo alcune pagine del libro. Parlo di Simone Weil, la cui
opera sullo sradicamento (che il mio Fortini tradusse felicemente per le
Edizioni Comunità con un’espressione dantesca: La prima radice) mi pare di assoluta attualità e da ripensarsi
insieme a Schmitt – la “partigiana” francese e il nazista -. Mi pare di poter
dire che la sfida del nostro tempo, insomma, è quella di pensare (ed incarnare)
una forma nuova di radicamento, dopo aver sperimentato la forza dissolutrice
dell’economico globalizzato, che però eviti le regressioni identitarie fondate
sull’ipostatizzazione del volk e del boden.
Un’ultimissima
suggestione. Il prof. Vitiello chiude la sua “Prefazione” scegliendo come
parola chiave del futuro prossimo e faro del nostro agire la parola “speranza”,
intesa paolinamente: «Spe enim salvi facti sumus; spes autem, quae videtur, non est spes». Io vorrei chiudere invece con la parola “limite”, il cui possibile uso nei più disparati ambiti, da quello etico a quello politico, mi è stato insegnato da pensatori “eretici” a me cari come Ivan Illich e Serge Latouche. Non solo penso al limite come la sola possibile cura per la ὕβϱις ma anche come antidoto alla forza
sradicante che, dissolvendo i confini, ci rende sì “abitanti del mondo” ma
anche “apolidi”. Insomma, ed è domanda impegnativa per me che leggevo fino a
pochi anni fa con entusiasmo e partecipazione la trilogia di Toni Negri, è
possibile pensare in maniera nuova parole come “nazione” o, addirittura, “madrepatria” senza diventare nazionalisti ma vedendo in esse l’unico, storico
(badate bene!) organismo politico in grado di garantire ai cittadini una vita
dignitosa e sensata?
* * *
Sono convinto che la Benevento “colta” sia costituita
da nicchie che andrebbero valorizzate (con un supporto logistico prima che
economico) da parte dei decisori politici, ma anche lasciate completamente
autonome. Questa città troppe volte sembra oscillare come un pendolo tra la
cultura “organica” a qualche potentato o la fruizione privata.
Sabato 14 ottobre ho partecipato ad un evento messo in
piedi da un giovane laureato in filosofia, Luigi Santamaria, che è stato capace
di attivare risorse “private” e riportare in città uno dei maggiori filosofi
italiani viventi, Vincenzo Vitiello, per la presentazione del libro di un
giovane ricercatore, allievo di Cacciari e Severino, oltre che di Vitiello
stesso, Edoardo Dallari, dedicato al problema del Politico in Hegel e Schmitt.
Ho ricordato l’esperienza de «la rosa necessaria» (che
un’associazione e una rivista per altro legata a questa storica testata). Sarei
ben felice se si creassero sodalizi culturali capaci di una proposta “sensata”,
che nasca da un autentico bisogno ed eludano il rischio dell’evento
spettacolare o autopromozionale.
In una sala gremita (e senza l’irresistibile
fascinazione sul mondo studentesco di crediti e ore di alternanza
scuola-lavoro...), abbiamo assistito ad un vero dialogo filosofico tra un
maestro (Vitiello) ed un allievo (Dallari) che sta simbolicamente “uccidendo il
padre”, emancipandosi e avviando un percorso autonomo di ricerca.
Il libro si presenta come una riflessione su due
pensatori molto diversi tra loro e distanti nel tempo ma che entrambi hanno
dedicato una parte essenziale della loro opera al Politico. Ma l’interesse del
testo risiede soprattutto nel voler pensare il nostro tempo a partire dalle
categorie hegeliane e schmittiane che vengono fatte interagire tra loro.
Vitiello nel suo intervento ha sottolineato il suo
disaccordo rispetto alla prima fase del pensiero del nazista Schmitt, tutto
fondato sul tema della decisione nello “stato d’eccezione”. In realtà, ha detto
il filosofo napoletano, a Schmitt interessa “chi” decide. L’intervento è stato
una meticolosa decostruzione della (presunta) grandezza del pensatore cattolico
tedesco (o almeno della prima parte della sua produzione), pur nel riconoscimento
della sua biografia sofferta. È ridicolo, ad esempio, pensarlo come padre della
“teologia politica” (merito che spetta evidentemente a Platone). Diverso,
invece, il secondo Schmitt, quello che scrive, dopo la “cattività”, Il Nomos della Terra (uscito nel 1950,
tradotto nel 1991 da Adelphi), in cui – nel tempo del disordine globalizzato –
tenta di radicare il Politico non in chi esercita il comando ma nella Terra (γῆ μήτηρ), come peraltro facevano anche il filosofo-letterato
Jünger ed Heidegger. Ma anche questo oggi si è rivelata un’illusione. E noi
siamo nel pieno di una crisi che pare senza sbocchi positivi. Unica soluzione –
e qui ha parlato il grande e innovativo studioso del cristianesimo – potrebbe
essere modificare non ciò che facciamo ma il modo in cui lo facciamo,
attingendo a San Paolo (temi questi per altro affrontati anche da un altro
allievo di Vitiello, il nostro Guido Bianchini nel suo suo L’inquietudine dell’Altro).
Edoardo Dallari ha svolto un ampio intervento,
apparentemente più politico che filosofico, partendo dall’assunto che lo Stato
nazionale oramai sia tramontato e sia impensabile riportarlo in vita. Viviamo
il tempo della globalizzazione e di compagini neo-imperiali che pongono nuovi
problemi di sovranità. L’Europa, in particolare, che pure ha vinto imponendo i
suoi valori al globo intero, vive una crisi apparentemente senza rimedio. La
sfida, ha detto il giovane filosofo, allora è creare una sovranità europea,
come ribadito recentemente dal Presidente francese Macron. Insomma, nel tempo
del trionfo dell’Economico, si pone una nuova sfida al Politico e alla sua
capacità di guidare gli eventi che va accettata. È necessario creare un nuovo
ordine per l’Europa intesa come “grande spazio” che sappia superare l’impasse del germanocentrismo e dei diktat del FMI. L’Europa può e deve
esistere solo come Stati Uniti d’Europa... Tutto questo, ha detto Dallari, non
ha a che fare (qui emerge una vera e propria filosofia della storia purtroppo
solo accennata) con l’uomo e le sue scelte. Da allievo di Severino, Dallari ha
parlato di «fatto destinale». L’Europa figlia della crisi (crisi
dell’imperialismo nel 1918, crisi della seconda guerra mondiale, crisi del
1989) ha il compito storico di rispondere perennemente alla crisi, che è in
qualche modo il motore stesso della sua storia. In «Caoslandia» (Caracciolo),
il nostro tempo che contraddice le profezie di Fukuyama sul mondo pacificato,
una nuova Europa ha il compiti di essere baluardo di pace rivitalizzando i suoi
valori fondativi. E a farlo dovranno essere politici-artisti che operano nel
vuoto, senza certezze sul futuro, nella consapevolezza che non esistono “forme”
definitive, ordinamenti capaci di resistere all’usura del tempo. Qui, mi pare,
che venga rivendicata l’eredità di Schmitt, nella concezione dell’uomo politico
come colui che decide non sulla base di ordinamenti dati o di accadimenti
prevedibili, ma nell’incertezza, nella precarietà, assumendosene la
responsabilità. Dunque, non solo una visione “artistica” della politica ma
anche “eroica”. Il politico, dunque, è colui che allontana la crisi ma agisce
solo in virtù di essa, in essa.
L’intervento di Dallari si è chiuso con una serie di
questione irrisolte: il rischio della Rete (dove si smarrisce il soggetto
dell’agire), il rapporto fra dimensione politica (fondata sul consenso) e
apparati burocratici, anonimi e opachi. Il problema più grande (e qui torniamo
al tema centrale del libro, ossia il rapporto tra società civile e Stato) è
quello di coniugare un individualismo (in cui tutti rivendicano la propria
personale realizzazione) sempre più spinto con uno potere capace di decidere.
L’ultima parte dell’incontro è stata una raffinato
duello dialettico in cui il maestro ha cercato di smontare l’utopia
dell’allievo, ritenendo da una parte che l’Europa è già morta (come per altro
argomentato in Europa. Topologia di un naufragio, Mimesis, 2017), dall’altra
che Nietzsche dovrebbe averci insegnato l’impotenza della volontà di potenza.
Con una battuta, dopo aver ascoltato anche le domande dei presenti, ha detto
Vitiello di sentirsi nel 1835, poco dopo la morte di Hegel, come se poi non ci
fosse stato appunto Nietzsche e il XX secolo a smontare alcune illusioni (in
particolare quella dell’esistenza del Soggetto, su cui si fonda invece la
visione “artistica” ed “eroica” della Politico proposta da Dallari).
Con una mossa intelligente il discepolo è uscito
dall’angolo rivendicando la parola con cui il maestro chiude la “Premessa”:
speranza. Speriamo, ha detto, che tutto questo sia possibile. Spes contra spem, potremmo dire,
paolinamente...
Dallari sta costruendo con solide basi il profilo
dell’anti-Fusaro. Entrambi frutto del vivaio della San Raffaele, con un lessico
filosofico e auctores in comune,
spesso maestri identici, declinano due possibilità della filosofia politica:
l’uno teso a ripensare la grande tradizione marxista in chiave “nazionale”,
l’altro, invece, sulla scia in particolare di Cacciari, convinto della
necessità storico-destinale di un’altra Europa capace di rigenerarsi per crisi,
ereditando tutti valori che ha prodotto nel corso dei millenni.
Io, dal mio canto, mi sono permesso di
suggerire – condividendo con Vitiello l’idea di una crisi ineluttabile
dell’Europa come costruita fino ad oggi, e provando profondo orrore per le
conseguenze della globalizzazione – di lavorare sul concetto di limite, come
suggerito da Serge Latouche. A differenza di Dallari non penso la storia in
termini “destinali”. Ritengo, da umile docente di storia quale sono, che la
globalizzazione, esattamente come la rivoluzione industriale, sia evento
accaduto in un certo modo anche per precise volontà politiche. E che, dunque,
sperimentatane la potenza dissolutrice (del bisogno primario dell’uomo, il
radicamento, oltre che di una vita “sensata” e sicura) sia necessario il limite
come sola possibile cura per la ὕβϱις ma anche come antidoto alla forza sradicante che,
dissolvendo i confini, ci rende sì “abitanti del mondo” ma anche “apolidi”.
Insomma, ed è domanda impegnativa per me che leggevo fino a pochi anni fa con
entusiasmo e partecipazione la trilogia di Toni Negri, è possibile pensare in
maniera nuova parole come “nazione” o, addirittura, “madrepatria” senza
diventare nazionalisti (senza regressioni identitarie) ma vedendo in esse
l’unico, storico organismo politico “a misura d’uomo” in grado di garantire ai
cittadini una vita dignitosa? Come scrive Latouche in Limite (Bollati-Boringhieri, 2012), contro l’ideologia del “senza
frontiere”, «la frontiera
non isola, filtra. Le frontiere, per quanto arbitrarie possano essere (e c’è da
sperare che lo siano il meno possibile), sono indispensabili per ritrovare
l’identità necessaria allo scambio con l’altro. Al contrario di quello che
sostiene la tesi mondialista, non c’è democrazia senza capacità del corpo dei
cittadini, a tutti i livelli, di darsi dei limiti».
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