Come scritto lo scorso anno l’impegno politico ha modificato
radicalmente il mio stile di vita, molto più di quanto prevedessi onestamente.
Ad esempio, mentre prima l’anno era bipartito rigidamente in una fase di
negotium e una di otium rigenerativo, ora questo non è più possibile. Ciò
nonostante l’estate, libera dal contatto con i ragazzi e dagli impegni
scolastici, è il momento in cui è più facile, per citare Marco Guzzi, scendere
nei propri “inferi”, trovando sassolini per nuove strade da seguire. Questa
estate, ad esempio, ho deciso che nei prossimi anni avrei colmato le mie
clamorose lacune sulla storia beneventana e sulla questione meridionale. La
seconda acquisizione preziosa è che sta accadendo in me una profonda
trasformazione nel modo di pormi nei confronti della vita. Fino ad oggi,
infatti, ho avvertito sempre un senso di responsabilità nei confronti di tutto
quello che accadeva, fosse anche nei luoghi più lontani della terra,
accompagnato, quasi sempre, da un velato senso di colpa. Catastrofi familiari o
planetarie erano in qualche modo riconducibili a me, alla mia pigrizia o
superficialità, al mio scarso impegno. Era difficile essere “felice”. L’altra
struttura operante nel profondo, sin dall’adolescenza (o dall’infanzia, se
penso alla mia passione per cavalieri e super-eroi) era quella verso l’assoluto,
i nuovi inizi, le rivoluzioni... Insomma, la mia vita avrebbe sempre dovuto
essere “poetica” (uso il termine in senso estensivo). Oggi, nel silenzio della
poesia, mi chiedo che tipo di scrittura possa essere adeguata a questa nuova
stagione in cui non so se saggezza o disillusione mi spingono a vivere con
serenità ogni momento della giornata senza più quella che in verso giovanile
definivo «un’ansia che insegue se stessa» in attesa di eventi straordinari che
dessero senso, una volta per sempre, “compimento” alla vita intera. Quella di
oggi è una felicità domestica, che addirittura è capace di tollerare i difetti
della compagna di una vita, fino a pochi mesi fa talvolta insopportabili,
spesso sorridendone, di vivere gli acciacchi dell’età senza più sognare
palingenesi “guerriere”, ma senza mai dismettere l’impegno civile (sorretto
dalla quotidianità degli impegni politici). Mi sono chiesto se possa essere un
venir meno del “desiderio” a spiegare questa quiete che avverto nelle membra.
Poi però mi rendo conto che il desiderio non è svanito, si è solo disciplinato
anch’esso, quasi ad obbedire ad una forza superiore. Il desiderio è sempre
stato il motore del mio agire. Quando si estinguerà non sarò quieto: sarò
morto. Saprò, dunque, descrivere in una poesia dimessa o in una prosa intrisa di odori casalinghi questo tempo senza accensioni, senza verticalizzazioni improvvise, senza fughe? Ci sarà una parola adeguata alla assoluta semplicità del qui ed ora? Non lo so... e sono curioso di scoprirlo.
Insomma, mi pare che i cinquanta anni aprano una stagione
nuova della mia vita. Prego quel Dio che oramai ha contorni nebulosi, e che pure
avverto come "senso" nel profondo del reale, di illuminare questo nuovo percorso ritmandolo.
P.S.
Non mi sfugge che, nel cercare il titolo del post, ricorro alle mie consuete strutture psichiche "verticali": il nuovo inizio, la vita nuova...
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