domenica 5 marzo 2017

La rivoluzione gentile 11 (La politica come realizzazione di sé per il bene comune)



Una chiosa a quanto detto da Michelangelo Fetto nella trasmissione condotta da Enzo Colarusso su Lab TV, affermando che vorrebbe politici pagati per far bene il loro mestiere. Per corroborare la sua affermazione è ricorso ad una similitudine: a chi mi affiderei per fare un viaggio? Ad un autista esperto o ad uno non esperto? In realtà, Michele citava il libro VI della Πολιτεία platonica, in cui Socrate/Platone spiega ad Adimanto, con una «immagine», perché nella guida della πόλις sia necessario un personale “esperto”;


«“Bene!”, incominciai. “Dopo avermi gettato in un problema così arduo da dimostrare, mi prendi in giro? Ascolta dunque l’immagine, e vedrai ancora meglio con quanta fatica mi muovo nei paragoni! Il rapporto che le persone più oneste hanno con la propria città è così difficile da non avere l’uguale, ma per farne un quadro e prendere le loro difese bisogna raccogliere molti elementi, come i pittori, mescolando specie diverse, dipingono ircocervi e altri animali simili. Immagina che su molte navi o su una sola accada un fatto di questo genere: da una parte un capitano che supera per statura e forza fisica tutto l’equipaggio, ma è un po’ sordo, ha la vista corta ed è provvisto di scarse conoscenze nautiche, dall’altra i marinai che litigano tra loro per il governo della nave, poiché ciascuno è convinto di dover stare al timone anche se non ha mai imparato l’arte della navigazione e non è in grado di indicare né il proprio maestro né il periodo in cui l’ha appresa, e per giunta sostengono che quest’arte non si può insegnare, anzi sono pronti a fare a pezzi chi dica il contrario. Essi stanno sempre attorno al capitano, pregandolo e facendo di tutto perché affidi loro il timone, e se talvolta riescono a persuaderlo altri invece che loro, li uccidono o li gettano giù dalla nave, e dopo aver reso innocuo il buon capitano con la mandragora, con l’ebbrezza o in qualche altro modo, si mettono al comando della nave consumando le provviste e navigano tra bevute e banchetti, com’è logico attendersi da persone simili. Inoltre lodano con i nomi di marinaio, timoniere ed esperto di nautica chi è bravo ad aiutarli nel comando usando sul capitano la persuasione o la forza, mentre biasimano come inutile chi non si comporta in questo modo; e non hanno neanche idea che il vero timoniere deve preoccuparsi dell’anno, delle stagioni, del cielo, delle stelle, dei venti e di tutto quanto concerne la sua arte, se realmente vuole essere un comandante, anzi sono convinti che, senza sapere né in teoria né in pratica come si guida una nave a prescindere dal volere della ciurma, sia possibile imparare quest’arte nel momento in cui si prende in mano il timone. Se sulle navi accadessero fatti del genere, non pensi che il vero timoniere sarebbe chiamato dall’equipaggio di navi così combinate acchiappanuvole, chiacchierone e inutile?”». 



Apparentemente Platone dice una cosa di buon senso. In realtà, come ho cercato di spiegare in occasioni pubbliche, egli apre la strada ad una “oligarchia” (governo di pochi) tecnica, per così dire, in cui il possesso di determinate competenze (certificata da chi?) conferisce la patente di buon politico. Insomma, quello che accade nella sostanza oggi, in cui “aristocrazie” (il “governo dei migliori”, ἄριστοι, evocato da Scalfari nel recente referendum sulla Costituzione) guidano le sorti del mondo, dietro mandato conferito una volta ogni quattro o cinque anni da masse che poi, il giorno dopo il voto, come insegnava Rousseau, tornano ad essere schiave. 
Apparentemente si ritiene che contestare tale visione sia “populismo”, una delle parole-mantra dell’epoca che stiamo vivendo. E sia! Ma interpretiamo tale parola in senso positivo, come aspirazione ad una democrazia, cioè ad un potere del popolo, più avanzata di quella fino ad ora sperimentata. Da questo punto di vista mi appare necessario, dunque, intrecciare più temi: la riduzione dei costi della politica, infatti, connessa a quanto stiamo dicendo, va di pari passo con la sperimentazione di una pratica politica che divenga attivismo civico, servizio civile a termine, cui se non tutti almeno molti cittadini dovrebbero sentirsi chiamati. E in nome di cosa? Se la politica non deve più essere una “professione” (Weber) o una “militanza” fondata su una ideologia/fede, quale sarà lo sprone all’agire politico? Qui diventa necessario attivare seriamente il pensiero di una filosofa (che tale non volle mai essere definita) che ritengo ancora tutta da inverare. Parlo ovviamente della Arendt che nei suoi libri parla di un uomo in cui la sfera politica, una delle forme della “vita activa”, diventa realizzazione piena dell’uomo, trascendendo la sfera dei bisogni “della casa” (l’economia: dal greco οἶκος, "casa" inteso anche come "beni di famiglia", e νόμος). Insomma, se la “delega” all’esperto (nella variante platonica o in quella tecnocratica) svilisce l’uomo perché, consentendogli di dedicarsi al lavoro (alla riproduzione della vita) o alle attività ludico-estetiche, lo priva della possibilità di sperimentare l’agire politico, l’impegno diretto, che deve faticosamente affiancarsi alla necessità di procacciarsi il pane e al bisogno profondo di divertissement e bellezza, ebbene tale impegno ci realizzerebbe pienamente come uomini. 
Il fondamento filosofico dell’assunto arendtiano, che condivido pienamente, è che nelle faccende umane non esista la verità: la condizione umana è plurale perché diverse e non esclusive sono le facoltà, le attività umane, e il mondo è inevitabilmente plurale perché plurimi sono gli esseri che vi abitano. Esistono solo opinioni in conflitto fra di loro, mai verità assolute, “idee”, “leggi ferree” (della storia o dell’economia). Il pensiero della Arendt è di una profondità ancora incompresa perché supera a piè pari le teleologia storiche ma anche l’illusione che il mondo sia retto da leggi che, comprese, ci consentano di guidare i processi come un autobus verso la meta o una nave verso il porto. La politica non è messa in atto di ἀλήθεια, ma “attività” fondata su scelte. Ovviamente questo non esime chi decide di fare politica di conoscere approfonditamente ciò di cui si occupa. Ma di questo sono in grado (quasi) tutti gli uomini! Come insegna il mito di Prometeo che sempre Platone ci racconta nel Protagora. Tutti gli uomini hanno πολιτική αρετή: «Quando deliberano sulla virtù politica - che deve basarsi tutta su giustizia e saggezza - ascoltano il parere di chiunque, convinti che tutti siano partecipi di questa virtù, altrimenti non ci sarebbero città».
Per questo, pieno della stanchezza di un uomo che cerca di svolgere bene il proprio ruolo di consigliere comunale, senza certezze, di marito, di padre e insegnante, ma anche pieno di entusiasmo perché ciascuna di queste esperienze mi rende più complesso (e più completo), invito non solo l’amico carissimo Michelangelo Fetto a ripensare la sua idea di politica, ma anche a pensare seriamente ad un impegno diretto e a tempo, come il mio.

P.S.

All'amico Antonio Tretola, invece, mi sento di ricordare quanto dettogli anche in passato: non bisogna confondere una scelta adulta di praticare la politica senza compromessi (che non significa nella vuota astrazione dell'ideale ma mettendo dei paletti precisi ad ogni perversione machiavellica, ad ogni "ragion di Stato") con «ingenuità». Antonio, in sintesi, ritiene che qualcuno "in alto", molto in alto, in altissimo, abbia utilizzato per fini politici la nostra battaglia per la legalità e la trasparenza (la questione dei "morosi"). Ben consapevole di questo, mi chiedo e gli chiedo: per questo non avremmo dovuto farla? Non c'è il rischio che, a furia di ragionare come i propri avversari, si diventi esattamente come loro, perdendo di vista del tutto il senso del proprio agire? 








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