martedì 7 febbraio 2017

lettera ai colleghi su competenze, paradigmi e relazioni (2014)


Care colleghe, cari colleghi,
[...] il mio intervento era problematico. Partiva dalla ricostruzione di quanto vissuto: tornato [...] al “Giannone” [...], affidatami la delicata cura del P.O.F., immediatamente feci notare alla Preside (consentite questa onomastica “conservatrice”) che in esso mancava un’omogenea programmazione fondata sulle competenze. Con i responsabili dei dipartimenti facemmo una serie di incontri che potessero portare ad un soddisfacente “format” condiviso. Alla fine ci rendemmo conto che il lavoro non poteva esser “calato dall’alto”, ma doveva passare attraverso una preliminare presa di consapevolezza da parte di tutti i docenti del Liceo del mutamento di “paradigma” in atto (uso il termine nell’accezione vulgata da T. Kuhn ne La struttura delle rivoluzioni scientifiche). Per questo, con la Preside, si decise di dedicare un corso [...] ad approfondire la questione.
Lo scorso mese nella nostra scuola due esperti del progetto VALES hanno fatto uno screening (mi adeguo al linguaggio dei colleghi valutatori!) dell’intero Liceo. Io, come altri colleghi, ho dovuto rispondere ad una batteria di domande, dalle quali è emerso il “ritardo” (attenzione alle virgolette!) della nostra scuola rispetto alle attese europee (che risalgono almeno agli anni Novanta, al Libro Bianco di Delors).
Ho cercato, durante le vacanze, di elaborare il senso di disagio che avevo provato, simile a quello degli anni liceali durante “l’interrogazione di chimica” (ero un pessimo alunno, confesso, nelle discipline scientifiche!). Grazie anche alla lettura del fascicolo monografico di «Aut-Aut» della primavera 2013 dedicato all’argomento, ho capito che la questione non può essere posta solo nei termini di innovazione (buona) vs. conservazione (cattiva). Ho utilizzato, dunque, come strumento per decifrare quanto andavo elaborando, l’idea di “paradigma”. La scuola italiana, e più in generale europea, sta vivendo una fase di conflitto fra due modelli, due ipotesi, due possibilità. Una privilegia la trasmissione dei contenuti disciplinari, l’altra la costruzione di competenze in un’ottica multidisciplinare. Ovviamente semplifico per intenderci. Il rischio è che, però, la scuola delle “competenze” costruisca un tipo di allievo poco propenso all’elaborazione critica, educato al problem solving come approccio complessivo alla realtà, “obbediente” a forme di verifica molto semplici (stimolo/risposta), che annullino l’elaborazione, la riflessione che necessita spesso di tempi lunghi:

«La trivializzazione della cultura è avvenuta sotto la specie della sottocultura aziendalistica. Con il suo lessico falsamente oggettivo, essa ha avuto lo scopo di riempire i margini del linguaggio e di colmare le beanze della nostra realtà sociale e culturale, di saturare con un troppo di senso l’essenziale spazio del non-senso. Densificare la realtà è un antidoto all’angoscia: lo scopo manifesto dell’odierno programma ideologico è che la scuola debba mutare radicalmente il suo senso, da comunità autonoma a struttura soggetta a eteronomia. Così, da apprendistato alla critica, essa deve diventare portatrice di un senso prodotto altrove, da acquisizione dell’arte del disgiungere per ricomporre a un saper-ricomporre mediante pacchetti preformati da maneggiare secondo regole imposte. La retorica delle competenze – di cui è ammantato il più recente discorso pedagogico – nasce da qui, da questa esigenza presupposta e inindagata – pertanto metafisica – che è funzionale allo scopo di otturare quei vuoti di senso che, d’altronde, è lo stesso tardo-capitalismo a produrre».
(Raoul Kirchmayr, La dittatura del programma, in «Aut-Aut». La scuola impossibile, n. 358, maggio-giugno 2013).

A mio avviso è possibile una “terza via” che permetta di cogliere il buono di questa innovazione, accettata dai più acriticamente, come un dogma, rifiutandone l’implicita dimensione tecnocratica. Io ritengo sia possibile declinare il nuovo paradigma delle competenze in maniera critica, facendone lo strumento per plasmare quelle che Morin definiva, nel suo celebre, aureo libriccino, “teste ben fatte”.
Alcuni di voi ritengono che la scuola “tecnocratica” sia il vero nemico, rispetto al quale tanto la scuola “tradizionale” (delle teste “ben piene”) tanto quella innovativa di “competenze critiche” (delle teste “ben fatte”) costituiscono una possibile resistenza. Ma, mi chiedo, è possibile un’alleanza fra queste due ipotesi di scuola? Individuato il “nemico” (la scuola al servizio della tecnica, dell’economia, una scuola eteronoma, privata della sua peculiare ed autonoma elaborazione del senso, che sostanzialmente consiste, per evocare Gardner, nell’educare al vero, al giusto e al bello), possiamo limitarci a giustapporre strategie entrambe “critiche” ma totalmente disomogenee? Io credo di no. Il mio intervento era, come detto, problematico, perché volevo omaggiare quanti svolgono magnificamente il proprio lavoro all’interno del vecchio paradigma (discipline “a canne d’organo”, autoreferenzialità disciplinare), ma io mi pronunzio risolutamente per un’innovazione che ponga però con rigore il problema di un sapere critico. Per semplificare al massimo: sì ad una scuola delle competenze ma solo a patto che esse siano strumento di esercizio critico, di pensiero libero, di consapevolezza civica.
Dal mio punto di vista l’accettazione di una scuola delle competenze significa ripensare radicalmente il nostro modo di lavorare in classe e fuori di essa, il rapporto fra di noi, il rapporto con gli studenti. La sfida è elaborare il profilo in uscita degli studenti del Liceo Giannone e, rispetto ad esso, ridefinire le pratiche didattiche e gli strumenti di lavoro, abbandonando la pratica mortifera dei “programmi” e della lezione meramente trasmissiva. La sfida, però, e vorrei essere chiaro su questo, ben sapendo di muovermi su un terreno minato, è avviare pratiche reali di programmazione comune, in base, appunto alle competenze da costruire nei ragazzi, ben sapendo quanto questo sia difficile [...].
Per quanto mi riguarda, proprio insegnare in un Liceo Classico, dove l’inutile, la dépense, per dirla con Bataille, è il cuore stesso, la ragion d’essere della scuola, mi rafforza nelle mie convinzioni. Dobbiamo, dunque, custodire questa splendida “anomalia” ma accettando la sfida di un’innovazione nelle pratiche didattiche e relazionali, rivendicare, per citare il fortunato libro di Ordine, “l’utilità dell’inutile”, ma ponendoci all’altezza del tempo. Rimodulare, per parafrasare un pensatore ospite del nostro Liceo alcuni anni fa, Franco Cassano, la tradizione in forma rivoluzionaria. Allora, forse, lo “sguardo” sul mondo, irrimediabilmente non asservibile alla ragione economica e strumentale della filosofia greca o medievale, della poesia di ogni tempo, dell’indagine scientifica finalizzata al θαυμάζειν e non al dominio, della matematica come conoscenza di un ordine ideale, della lingua come incontro possibile con l’altro potranno contribuire a plasmare uomini e donne che abitano consapevolmente e criticamente il proprio tempo, agenti della trasformazione e non meri esecutori o consumatori passivi di merci le più varie (e avariate).


Benevento, 30 gennaio 2014  

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