Nel 2012, nella “Introduzione”
a In quieta ricerca, riprendendo
Latouche (e Guzzi), scrivevo: «Stiamo vivendo un tempo “apocalittico”, con
l’emergenza contestuale di quattro crisi: ecologica, energetica, economica e
psichica. Il rischio concreto è quello di un vero e proprio “collasso”».
La decrescita appare, dunque,
non come una bella teoria ma come una improcrastinabile urgenza storica.
Ispirata dalle teorie sulla “convivialità”
di Ivan Illich, ma strutturatasi dall’incontro e dall’impollinazione reciproca
tra varie discipline, la decrescita, in tutte le sue declinazioni, mette in
discussione tre grandi miti della modernità: sviluppo, progresso e
globalizzazione.
Essa elabora un nuovo “paradigma”, che viene
scandagliato in un’opera collettanea, a cura di Marco Deriu: Verso una civiltà della decrescita
(Marotta & Cafiero). Il libro raccoglie saggi di diversissima impostazione
che illuminano vari aspetti del nuovo paradigma.
Personalmente la “decrescita” è
stata uno dei miei viatici verso il MoVimento 5 Stelle, venendo da una storia
che era dentro quella di una sinistra eretica ed ecologista, oramai a mio
avviso ostaggio di piccole oligarchie autoreferenziali (cosa per altro
confermata dalle vicende politiche, molto tristi, di questi giorni.
Spesso si ironizza su una presunta mancanza di “cultura”
del MoVimento. È quindi particolarmente emblematico ritrovare molti degli
autori del libro spesso presenti sul Blog. Non solo ovviamente il maggiore tra
questi, cioè Serge Latouche.
Le questioni ambientali ed energetiche sono decisive
per il MoVimento, e non a caso da esse si è partiti per la definizione del
Programma.
L’approdo al MoVimento ha
significato, per me, riconoscere che, per resistere alla globalizzazione, l’azione
“dal basso” è necessaria ma non sufficiente. Bisogna entrare nelle istituzioni,
sempre rimanendo collegati all’attivismo che funga da nutrimento vitale, ma
costringerle a modificare il proprio agire, contribuendo alla costruzione di
comunità locali.
Come attivista del M5S
nella mia città mi impegno nella costruzione quotidiana di un’utopia “concreta”:
Benevento “decrescente”. Che non significa povera. Questo è un equivoco
clamoroso in cui incappano coloro che solo superficialmente conoscono la
decrescita.
Per questo motivo io e
Marianna Farese abbiamo deciso di discutere del libro (con Salvatore Esposito)
nell’Aula Consiliare. Abbiamo lanciato una sfida virtuosa alla maggioranza,
appellandoci a tutti gli uomini “bonae voluntatis”. Nel “Programma” della Giunta
Mastella, infatti, si parla di «città ecostorica» e di «conversione ambientale».
Parole bellissime che devono però diventare scelte concrete: il depuratore, la
qualità dell’aria e il varo di un Piano Urbano di Mobilità Sostenibile,
l’incentivazione all’uso della bicicletta, il divieto per l’uso dei diesel,
maggior responsabile della presenza nell’aria del biossido di azoto che causa
70.000 morti all’anno di cui 21.000 in Italia, la concreta realizzazione di
Zero-Waste o, meglio di un E-Waste-conversion, la creazione di orti urbani
utilizzando i terreni incolti di proprietà comunale. Benevento potrebbe entrare
nella logica di medio/lungo periodo delle città “di transizione” che
gradualmente limitano fino ad abolire l’uso dei combustibili fossili.
«La rilocalizzazione rappresenta lo strumento strategico
più importante per realizzare la decrescita e, allo stesso tempo, uno dei suoi
obiettivi principali». Così scriveva Latouche nella “Prefazione” al bel libro
di Salvatore Esposito. Deponendo le “magnifiche e progressive” fole in stile
piattaforma logistica, grande capacità et cetera, di una sinistra “crescente” e
prometeica, bisogna, appunto, “rilocalizzare”. Qui misuriamo l’abissale
distanza rispetto alla “sinistra”, che in Italia e a Benevento è vocata ad una
miope globalizzazione priva di qualunque consapevolezza ecologica.
Benevento, dunque, in decrescita, Benevento città di
transizione, ma anche, necessariamente, Benevento “resiliente”, soprattutto
dopo il monito dell’alluvione.
Pensando di fare ironia, un noto attivista beneventano,
oramai arruolato in pianta stabile nel contro-Movimento 5 Stelle, e
evidentemente evocando il mio essere un docente di filosofia, ha scritto: «Per
amministrare un Ente locale serve meno filosofia e più concentrazione sugli
atti amministrativi». In questo modo ha mostrato come anche
persone di spessore e con una storia alle spalle risultino poco attrezzate ad
affrontare un tempo gravido di incognite, come detto, per una volta in maniera
condivisibile da Massimo Cacciari. La scala locale, la città, può essere il
luogo di esperimenti e vie nuove. A patto, dico a Corona, sapendo che non potrà
capire (non perché poco dotato ma perché il suo paradigma è tutto
novecentesco), che si sappia coniugare «filosofia» e «atti amministrativi»,
gestione del presente e sguardo lungo. Soprattutto sulle grandi tematiche
ecologiche.
Il compito che abbiamo di fronte è immane. Avremo
bisogno di tutte le risorse buone della tradizione: scientifiche, etiche,
artistiche, spirituali, nella consapevolezza che la felicità ha poco ha che
fare con la ricchezza materiale e nasce soprattutto dalla qualità delle nostre
relazioni.
Come scrive Deriu nel bellissimo libro da lui curato:
«Il
superamento dell’era della crescita capitalista coincide dunque con una sorta di
re-framing, un mutamento nell’autorappresentazione del genere umano. Già oggi,
e più ancora in futuro, pratiche, esperienze e progetti sono frutto e
conseguenza di un essere umano che non si pensa più separato né dalla comunità
cui appartiene né dalla natura da cui trae nutrimento. La transizione verso una
società della decrescita in questo senso si deve fondare sull’etica, l’estetica
e l’ecologia delle relazioni, sull’idea di un essere umano la cui esistenza e
soggettività è radicata ed emergente in un vasto e complesso tessuto di
rapporti e interdipendenze. Da questo punto di vista vivere nei limiti non
significa altro che riconoscere e stare alla misura delle relazioni più vitali,
sia in termini sociali che ambientali».
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