Ho sempre pensato allo sguardo, alla necessità di un altro
sguardo. Stamane è arrivato a compimento un pensiero che covava nel profondo.
Ragionavo su cosa accomunasse le mie ambizioni: essere – da uomo di fede - marito, insegnante, poeta. Ebbene, le prime
tre cose sono caratterizzate dalla relazione, dall’essere dimensioni
necessariamente dialogiche e relazionali: il dialogo con Dio, il dialogo con
Rosaria, il dialogo con i miei alunni. A cui ora si è aggiunto, con il ruolo di
padre, il dialogo con mia figlia. La parola dialogo però travisa, per la sua
origine greca: è “parola tra”. Ma io non parlo con Caterina (o meglio lei non
parla con me) eppure siamo già una profondissima relazione. L’essere poeta è uno sguardo diverso sul reale. Ma questo sguardo
è sempre soggettivo, è come lo sforzo tutto volontaristico di vedere le cose in
un altro modo. Si resta all’interno della metafisica (direbbe Heidegger), della
scissione, se sono io che guardo in modo diverso (restando nella centralità
dello sguardo). L’ascolto mi pone invece in una posizione non più dominante. Io
agisco venendo agito. Ascolto Dio che mi parla e gli rispondo, ascolto mia
moglie e i suoi bisogni e le rispondo, ascolto mia figlia che piange e le
rispondo con un’azione, ascolto i bisogni dei miei studenti e agisco di
conseguenza. Ascolto il mondo: questa forse è la poesia. Non sguardo ma
ascolto.
(Dal Quaderno del 2006)
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