giovedì 1 novembre 2012

"In quieta ricerca" VIII

La parte più interessante del libro In quieta ricerca di Nicola Sguera è quella non scritta. Non è una battuta, tantomeno un paradosso, ma un complimento. I migliori libri di filosofia hanno una parte scritta e una orale. Il libro di Nicola appartiene a questa categoria per un motivo tanto semplice quanto vero: perché in lui il pensiero trae i succhi dalla vita per ritornare alla vita. La filosofia – anche se Nicola non crede all’esistenza della disciplina, e fa bene - è intesa come vita filosofica o vita etica, e la morale, sull’esempio di Bonhoeffer, non è formalismo ma vita concreta (ma questo, ossia che Gesù e Paolo non erano né filosofi né dottrinari ma creatori di ethos, me lo dice anche un mio vecchio amico che scriveva di queste cose e le praticava sotto le bombe americane, tedesche e durante la dittatura mussoliniana). Solo che in Nicola la vita morale è vissuta nell’attesa di una svolta che, quando verrà, fonderà un nuovo mondo in cui la tecnica che ci signoreggia si inabisserà definitivamente permettendo così che l’essere esca dall’oblio dell’oblio e così sia. È questa speranza, che mi fa venire in mente la canzone di Tenco («Vedrai, vedrai, vedrai che cambierà, forse non sarà domani, ma un bel giorno cambierà…»), che rende la ricerca di Nicola inquieta e quindi saporita ma allo stesso tempo rischia di trasformarla in dottrina o, peggio, in quell’ideologia da cui rifugge come da un peccato di gioventù.

Nel testo vi sono tanti nomi, ma tutto – sia ciò che è scritto sia ciò che non è detto - ruota intorno al pensiero di Heidegger che è presente troppo e troppo poco. Il troppo dipende dalla lettura che si fa della storia della filosofia e addirittura della storia dell’Occidente: tutta la storia della filosofia, a partire da Platone per giungere a Nietzsche e alla Tecnica passando per Cartesio e Kant e il loro soggetto, è letta come un destino dell’oblio dell’essere. In altre parole, il pensiero di Heidegger è innalzato a chiave di lettura di tutta la storia della filosofia, proprio come gli hegeliani facevano con la filosofia di Hegel. Ma questa interpretazione destinale di tutta la filosofia è un’esagerazione di Heidegger che neanche Gadamer prendeva sul serio e, anzi, metteva in guardia dal seguirla. Per un motivo anche abbastanza semplice: perché la storia del pensiero è molto più ricca di ogni sua riduttiva interpretazione. L’idea di vedere nella storia della filosofia solo la soluzione di un unico grande problema impoverisce la nostra stessa interpretazione storiografica perché ci priva dei concetti direttivi che sono la fonte stessa della storiografia. Il troppo poco dipende invece dal fatto che Nicola non assume fino in fondo il cambiamento del concetto di verità che anche in Heidegger, come nella tradizione dell’idealismo tedesco e dello storicismo italiano, è presente: la verità non è più un rispecchiamento ma una creazione, è storia o, per usare l’enfasi heideggeriana, evento. Se lo facesse gli verrebbe meno l’elemento – l’essere - che può “bucare” la storia e così, quando sarà, cambiarla con una fine che è un nuovo inizio o un tramonto che è una nuova alba. Questo pensiero del nuovo inizio – che a Nicola piace chiamare pensiero poetante - svolge la stessa funzione che un tempo svolgeva l’emancipazione del progresso o della rivoluzione. Solo che nel tempo della gioventù la rivoluzione era politica, mentre ora nel tempo della maturità la rivoluzione è poetica. Se un tempo c’era il progresso, oggi c’è l’utopia: se l’ideologia progressista si è rivelata fasulla e sbagliata perché, in fondo, apparteneva alla stessa famiglia prometeica della tecnica che riduce l’essere a oggetto o semplice-presenza, il principio utopico della speranza lascia essere ciò che non è ancora. Se Nicola storicizzasse fino in fondo il concetto di verità incontrerebbe la libertà come elemento che “buca” in modo sui generis la storia, ma non lo fa perché con la libertà incontra anche i tabù: il capitalismo, il mercato, il moderno, la razionalità, la scienza come tragica storia umana e non più destino o erranza. Il passaggio dall’idea di progresso a quella di utopia è un passo in avanti ma, come nel giro di una prigione, ci si muove sempre nel meccanismo ideologico, tanto che il capovolgimento del mondo tecnico nel mondo poetico equivale a uscire dal dominio proprio per dominare ciò che non si lascia signoreggiare. Come se ne esce? Non prendendo troppo sul serio Heidegger, altrimenti, come diceva proprio Josè Mourinho reinterpretato benissimo da Nicola, si corre il rischio che chi capisce solo Heidegger non capisca niente di Heidegger che ci offre proprio una di quelle teleologie da cui Nicola rifugge. Se ne esce coniugando insieme possesso e abbandono, senza ritenere che dove ci sia l’uno non ci sia l’altro. Possesso e abbandono co-esistono sempre e non sono utopici. Sono le due regole calcistiche senza le quali non c’è condizione umana. Ma ne riparliamo un’altra volta. 

Giancristiano Desiderio

L’articolo è apparso su Sanniopress
Giancristiano Desiderio è scrittore e giornalista, studioso, tra l’altro, dell’opera crociana e autore di fortunati libri sul rapporto fra calcio e filosofia.

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