Non a caso Giancristiano Desiderio è una delle persone che ho voluto ringraziare ad apertura di libro, essendo stato in questi anni un interlocutore prezioso in maniera direttamente proporzionale alla distanza che separa le nostre “visioni del mondo”, distanza che non ha impedito (anzi, ne è stato elemento propulsore) di creare, insieme ad Amerigo Ciervo, la Libera Scuola di Filosofia del Sannio, palestra dialettica, esercizio permanente del dialogo tra diversi.
L’articolo che ha voluto dedicarmi (Ciò che dice e ciò che non dice Nicola Sguera) su Sanniopress ne è conferma, cogliendo problematiche centrali del libro ma da un’angolazione e con attrezzi culturali totalmente altri. Per questo è per me, che vivo la pubblicazione del libro come una messa a punto o una messa in discussione degli “attrezzi” costruiti negli ultimi vent’anni, uno stimolo importante.
1) Ethos. Giancristiano parte dalla premessa che il vero nucleo di quanto vado scrivendo sia da ricercarsi nella vita, concepita eticamente. Assolutamente vero, ma già qui mette in campo la sua strumentazione che predilige la “distinzione”, mentre l’assunto (anche esplicito) di In quieta ricerca è la volontà di tenere insieme, di tessere insieme (in maniera “complessa”) non solo teoria e prassi ma tutti gli ambiti dell’umano, che retroagiscono l’uno sull’altro. Per me l’etica è ipso facto politica, ma anche estetica e spiritualità (per citare solo gli ambiti che frequento con più consapevolezza).
2) La svolta. Che cos’è la “svolta”? Scrive Giancristiano: «[Essa] quando verrà, fonderà un nuovo mondo in cui la tecnica che ci signoreggia si inabisserà definitivamente permettendo così che l’essere esca dall’oblio». Termine entrato nel lessico filosofico grazie ad Heidegger, per spiegare l’evoluzione del suo pensiero, esso a me evoca in primis quel turning point che dà il titolo ad un libro importante di Fritjof Capra (Il punto di svolta) e poi il primo libro di Marco Guzzi, nume tutelare e prefatore di In quieta ricerca, a cui esplicitamente ispiro parte importante delle mie riflessioni. L’errore che, però, compie Giancristiano è di vedere nella “svolta” o una necessità teleologica (sul modello hegelo-marxista) o un’attesa fideistica. Da una parte, invece, la “svolta” è una urgenza del nostro tempo, dettata da motivi che sono di ordine ecologico ed economico (ma anche etico e spirituale, ovviamente), pena l’autodistruzione di condizioni di vita “umane” sulla Terra-Madre che ci è stata affidata in custodia. Da questo punto di vista, dunque, nulla di esoterico o “metafisico”. Svolta come cambiamento radicale, come superamento della “preistoria” in cui ci troviamo ancora a vivere sia nel rapporto uomo-natura che nel rapporto uomo-uomo, entrambi fondati sullo sfruttamento e la vessazione. Dall’altra, invece, la “svolta” richiama l’urgenza di un ripensamento ab imis della metafisica e dell’ontologia (di qui la centralità del pensiero heideggeriano, su cui tornerò). Solo rispondendo in maniera diversa (a livello della “teoria”) alla domanda “originaria” posta dal pensiero greco («Che cos’è l’essere?») sarà possibile quella radicalità (nella “prassi”) di cui il nostro tempo “terminale” ha bisogno. Anche qui, dunque, un nesso inscindibile, complesso, fra la teoria e la prassi. L’una, se non cerca sempre di incarnarsi, rischia una luciferina ascesa iperurania e, dunque, l’insignificanza, l’altra, priva di “sguardo”, di teoria appunto, rischia di compiere errori clamorosi (come la storia del comunismo, ad esempio, dimostra). Ma, in ogni caso, vorrei fosse chiaro che la “svolta” non accadrà senza un’attiva partecipazione degli uomini. Questo, per evocare il noto verso di Hölderlin, è il tempo del “massimo pericolo”. È vero: cresce anche “ciò che salva”. Ma il pericolo è totale. È il pericolo dell’annichilimento dell’umano nell’uomo e del luogo del suo abitare. La “svolta” non è una necessità: è una speranza, che va supportata nel pensiero e nell’azione. La storia non è retta da alcun telos. L’uomo è libero in essa di dannarsi o di salvarsi.
3. Heidegger. Con Giancristiano abbiamo già proficuamente duellato sul problematico pensatore della Selva Nera. Non ripeterò argomentazioni di quel confronto. Volevo, invece, sottolineare come, in realtà, non sia vero che «il pensiero di Heidegger è innalzato a chiave di lettura di tutta la storia della filosofia» o che sia il pensatore fa ombra a tutti gli altri. Nell’"Introduzione" ho scritto che forse l’unico aspetto originale di In quieta ricerca è il tentativo di far interagire pensieri e vite lontanissime tra loro. Il pensiero di Heidegger è monco su questioni per me assolutamente centrali, va integrato e messo in cortocircuito con mondi lontanissimi da lui. Giancristiano, poi, riprende la sua assimilazione dell’heideggerismo (di cui rivendico un’interpretazione non “urbanizzata”, gadameriana ma radicale, “rivoluzionaria”) allo storicismo crociano nel «cambiamento del concetto di verità […]: la verità non è più un rispecchiamento ma una creazione, è storia o, per usare l’enfasi heideggeriana, evento». In realtà, come ben coglie Roberto Esposito nei suoi libri recenti, in Heidegger, come in altri autori (penso al mio amato Char) c’è sempre qualcosa che è “a monte”, che non è nel flusso del divenire storico (anche se questo “a monte” non è “origine”, non può, se non equivocato, come accadde all’Heidegger “nazista”, divenire, semplicemente “tradizione”). Questo “a monte” (che potrei anche definire, con Celan e Illich, “a nord del futuro”) è spiazzante rispetto alle categorie temporali cui è avvezzo lo storicismo, perché le fa esplodere: è un “a monte” ma non è “origine”, è sì “futuro”, ma un futuro cui non si giunge con mappe e percorsi lineari (“a nord del futuro”). E non è l’essere a «bucare» la storia, ma l’uomo che riesce a riorientare il suo sguardo e il suo ascolto (sull’essere).
4. Poesia. Giancristiano scrive che «questo pensiero del nuovo inizio – che a Nicola piace chiamare pensiero poetante - svolge la stessa funzione che un tempo svolgeva l’emancipazione del progresso o della rivoluzione». No! Il pensiero poetante è intimamente “rivoluzionario”. Marco Guzzi oggi è uno dei pochi pensatori (poeti!) a non temere di usare la parola rivoluzione. La poesia (intesa non come tecnica o genere) non è il lusso di anime belle ma quello sguardo e quell’ascolto di cui necessita una rivoluzione integrale. Il poeta è colui che si libera dello sguardo rapace, dal dominio e prepara la possibilità di un’altra vita, di una “reliance”, come la chiama Morin, tra uomo e mondo e uomo e uomo.
Paradossalmente, dunque, non posso che condividere la chiusa della riflessione di Giancristiano: ciò che accade non è in nostro potere (questa era l’illusione “umanistica”, poi fattasi prometeica e ora, per certi versi, post-umana: la tecnica sembra guidare la storia) perché siamo – inconsapevolmente – parte di un “antropocosmo” complesso; ma nello stesso tempo siamo chiamati a fare quanto in nostro potere – lavorando su di noi e sulle comunità in cui viviamo, nelle teorie e nelle buone pratiche – perché il degrado della nostra dimora terrestre e delle relazioni interumane sia corretto, senza illusioni palingenetiche. Il “millennio” sia solo la perfezione che ci permetta di misurare la miseria del nostro tempo, chiedendo ogni giorno a noi stessi «a che punto è la notte».
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