Caro Giancristiano, ho letto con un sorriso divertito (e anche compiaciuto, confesso) la tua (come sempre) raffinata provocazione, annunciata (e dunque da me attesa) in un precedente articolo in cui mi “difendevi” per la scelta di aver partecipato ad un convegno organizzato dalla “Generoso Simeone”, associazione notoriamente di destra radicale, che aveva fatto storcere il naso a qualche compagno. D’altronde, è da quando eri direttore del “Sannio” che periodicamente incrociamo le nostre sciabole.
Proprio in questi giorni ho finito di correggere le bozze del libro, il mio primo, che dovrebbe uscire a settembre. In esso ho cercato di fare ordine in un percorso decennale sicuramente non lineare, all’apparenza. La prima sezione si intitola “Maestri eretici”. E vorrei partire da qui per articolare la mia risposta (che sarà più lunga del solito). Credo al valore creativo ed evolutivo dell’eresia. Pur essendovi una parte di me che cerca “casa” (come ama dire Nunzio Castaldi: «sono troppo cattolico»), inevitabilmente poi sento che quelle pareti sono anguste e riprendo la mia “inquieta ricerca”. I miei “maestri” sono tutti, in qualche modo, eretici di varie chiese… Da loro ho appreso il gusto della direzione “ostinata e contraria” rispetto al pensiero dominante (fosse anche il pensiero “antagonista”). Questo vale per molti ambiti, ad esempio quello religioso. Ma resto alla tua provocazione che si limita ad indagare la mia dimensione politica (vorrei fosse chiaro, però, che già scinderla da altri ambiti dell’umano è operazione ideologica…).
Da anni sostengo che le categorie di destra e sinistra, come eredità dal XX secolo, non funzionano più. Si tratta di strumenti elaborati nel crogiolo dell’era rivoluzionaria: retaggio del 1789, strutturatosi nel cuore dell’800. Per un po’ di tempo ho creduto che bisognasse superarle quelle categorie. Ora, invece, penso che vadano riempite di nuovi contenuti, e che restino insostituibili (come, con argomentazioni e in periodi diversi, hanno sostenuto sia Norberto Bobbio che Marco Revelli). E qual è il cuore, la ragion d’essere di qualunque teoria e pratica politica “di sinistra”? L’uguaglianza. O, meglio, la lotta perché l’iniquità nelle condizioni materiali e culturali venga ridotta, tendenzialmente fino a sparire. Questo significa, per essere chiari, che io ritengo il capitalismo una fase dello sviluppo socio-economico di una parte dell’umanità (oggi tendenzialmente quasi tutta), che, dunque, può essere superata verso configurazioni più rispettose tanto dell’uomo stesso quanto del mondo naturale, brutalmente violentato e alterato. Ovviamente, facendo tesoro degli errori (teorici) del pensiero rivoluzionario otto e novecentesco, e acquisendo in maniera critica ma radicale la pratica della non violenza (i mezzi sono già i fini, addio ad ogni machiavellismo di sinistra).
Dimostrando grande attenzione al mio percorso intellettuale e politico, elenchi una serie di prove a conferma della tua tesi. Ad esempio, il mio culto per il pensiero di Martin Heidegger. Ebbene, io credo che senza quel pensiero non si possa fondare un ecologismo radicale (altro che “green economy”!), che deve divenire (ecco uno dei nuovi contenuti fondamentali di una nuova sinistra) fondante dell’agire politico… Qui, come dire, la sinistra deve mutuare elementi di altre culture, ma il processo avviene oramai da oltre un secolo… Certo, all’inizio la lotta contro l’industrializzazione feroce era, politicamente, conservatrice, addirittura reazionaria, ma oggi? Oggi lottare per la tutela dell’ambiente significa (vedi la lotta per i beni comuni) lottare anche per la giustizia sociale. Perché l’individualismo proprietario nel contempo sfigura le relazioni sociali e il mondo naturale, in nome di quella creazione squisitamente filosofica che è l’individuo irrelato, portatore esclusivamente di diritti.
Caro Giancristiano, Heidegger può essere corretto! Non va preso in blocco. Certo, una lettura del suo pensiero potrebbe indurre ad una sorta di quietismo orientale, ma altre letture possono invece produrre una proficua svolta nel pensiero e nelle buone pratiche che prepari, senza “tracotanza” prometeica, senza l’illusione di portare paradisi in terra, un’altra configurazione dei rapporti tra uomo e uomo e tra uomo e natura. Anzi, io credo che quel pensiero sia l’unico autenticamente “rivoluzionario” prodotto dalla modernità…
La seconda prova è il mio amore per la poesia. Ma, ancora una volta, la poesia non è deodorante per le orecchie o conforto per anime belle… È la sperimentazione di un linguaggio che non pratica il dominio, che non diviene strumento della “volontà di potenza”. È parola che nasce dal silenzio e dall’ascolto. Tutte cose di cui il nostro tempo, dominato dalla “chiacchiera”, ha maledettamente bisogno.
Su Nietzsche, invece, non hai colto nel segno. Insegno ai miei alunni che con questo pensiero titanico, grandioso bisogna confrontarsi. Il pensiero nietzschiano è come un crogiolo che depura i nostri metalli nobili… Se si è uomo di fede, quell’attraversamento consente di depurare l’idea di Dio da quanto di malato, di patologico in esso spesso permane. Ma insegno anche a rigettarne la prognosi, il superomismo, l’esaltazione della volontà di potenza. Proprio Heidegger mi ha insegnato che quella filosofia potente è il compimento della metafisica e dell’umanismo occidentali. Da rifiutare senza esitazioni.
Vado al cuore della mia risposta. Nel 2007 uscì un libro poco fortunato, di un giornalista/scrittore che sicuramente conosci, Bruno Arpaia. Si intitolava Per una sinistra reazionaria (Guanda). Il libro mi permise di portare a coagulo pensieri sparsi. Quello centrale: la sinistra del futuro avrebbe dovuto rompere con un’idea importante (ma non portante) della sua tradizione, quella di progresso. Il progresso è un’ideologia, una delle peggiori perché capace di divenire senso comune, verità da non dimostrare… Essa sorregge l’idealismo tedesco, il positivismo, il marxismo… Eppure, nella storia della sinistra, nelle sue feconde eresie, ci sono tanti pensatori che hanno provato a pensare altrimenti: penso alla Weil de La prima radice, a Pasolini, a Illich… E, dunque, quest’ossimoro apparentemente stridente (una sinistra reazionaria!) può essere la chiave per una svolta di pensiero e di pratiche… E il pensiero “meridiano” di Cassano (che chiudeva il suo gran libro invitando ad utilizzare la tradizione in funzione rivoluzionaria) o la decrescita di Latouche non sono possibili pezzi di un nuova teoria potentemente trasformativa dell’esistente? Bisogna, però, sempre rimanere fedeli alla mission di una vera sinistra: lottare per una maggiore uguaglianza tra gli uomini… Gli strumenti possono cambiare.
E qui chiudo con la parte più spinosa della mia riflessione. Scrivi che il mio “statalismo” è omaggio alla tradizione da cui provengo. Qui, a mio avviso, in qualche modo cogli nel segno. Il pensatore che più mi ha turbato e che cerco di far conoscere nella nostra piccola città (l’anno scorso feci un seminario per pochi intimi all’Asilo 31) è Ivan Illich, il quale sostiene che lo stato assistenziale, in tutte le sue varianti, è la forma corrotta di una Chiesa che ha “istituzionalizzato” la carità, che può essere esercitata solo da persona a persona, da volto a volto, come risposta individuale all’appello di un bisognoso (come insegna la parabola del buon samaritano). Qui per me, nel cuore di una crisi che reputo sistemica (come ripete Rifkin: economica, ecologica, energetica e psichica), si pone il compito di ricreare legame comunitario. Le istituzioni, asettiche, anche quelle preposte al “benessere” dei cittadini, sono figlie di una cultura individualistica, che ha mercificato finanche i rapporti tra le persone. La Weil diceva che il radicamento è bisogno primario della persona. La sfida è ricreare legame comunitario senza cedere alle pulsioni identitarie, quelle sì di destra. Qui l’aiuto delle eresie è decisivo!
Caro Giancristiano, io sono un uomo di sinistra. Credo in una politica nutrita di “ethos” (contro la tradizione marxista) e di spiritualità. Solo la fede nell’esistenza del Bene mi può far lottare per un mondo “più giusto”, più equo (altrimenti sarebbe normale la selezione dei migliori anche a livello sociale e il permanere delle differenze). Credo in uomini che riscoprono il legame comunitario a partire dal volto dell’Altro, del prossimo. Credo in comunità capaci di rispettare i luoghi del loro radicamento e di custodirli. Credo in un sapere che non miri più al dominio. Credo alla riduzione dei bisogni e alla rinascita dei desideri. Credo alla custodia intrisa di “pietas” del passato, da cui veniamo plasmati, e all’apertura alla speranza, che anch’essa ci plasma. Non so quanto tutto questo sia spendibile e, in fondo, poco mi importa.
Qualche anno fa provai a coniare un termine che potesse definire tutto questo. Ne uscì fuori, con un pizzico di ironia che non guasta, “neo-com”: la novità rispetto alle sinistre storiche, il comunismo, il comunitarismo…
Chiudo con un verso di un poeta a me il più caro in questo stagione, René Char, il mitico comandante Alexandre, che non ebbe remore ad invitare Martin Heidegger a Le Thor per tenervi dei seminari (anche lui di destra, dunque?): «L’ossessione della messe e l’indifferenza alla storia sono i due estremi del mio arco». Nella storia non c’è alcun “telos” predefinito, sia esso l’ampliamento della libertà o piuttosto la società senza classi. L’uomo è (tragicamente) libero, padrone del proprio destino individuale e storico, sempre capace, come scrive una pensatrice ad entrambi cara, in quanto “nato”, di nuovi inizi. Dal punto di vista filosofico, credo che questo sia l’essenza della differenza radicale fra me e te, fra sinistra e destra.
PS
Evochi la Resistenza. Ma essa appartiene non alla mia identità di uomo di sinistra bensì a quella di italiano “tout court”, perché, come tu sai meglio di me, essa fu comunista, socialista, anarchica, liberale, azionista, cattolica, monarchica e altro ancora… La sola guerra giusta è quella di “resistenza”, ovunque.
* Questa riflessione è una risposta ad un articolo di Giancristiano Desiderio.
Nessun commento:
Posta un commento