Ieri sono andato al cimitero a salutare mio padre, Giuseppe. Ho un antica confidenza con quel luogo. Me la inculcò mia madre, che recitava spesso – malgrado la sua fede – i Sepolcri a memoria. Il pensiero più ricorrente è che fra pochi anni il pezzo di vita che avrò vissuto senza mia madre sarà superiore a quello che con lei ebbi in sorte di vivere. Ma ieri, guardando mio padre e, accanto a lui, altri volti noti, amici, mi chiedevo: quale sarà la foto con cui io guarderò i sopravvissuti? Perché, se si discute legittimamente del testamento biologico, non si dà la possibilità ai mortali di scegliere la loro finestra sul tempo? Mio padre mi guardava… A quale padre apparteneva quel volto? Non all’ultimo, indifeso come un neonato con l’Alzheimer che lo aveva devastato in pochi anni… Era ancora l’uomo orgoglioso, superbo, che voleva conquistare il mondo. Quella foto la scelsi io, ed è una scelta importante: mi arrogai il privilegio di decidere il volto che avrebbe continuato a scrutare il divenire del mondo. E mi guardavo intorno. Volti di vecchi, vite spezzate ancora giovani, foto in bianco e nero, paesaggi di sfondo. Quale foto sceglierei per me? Chi sarò stato io alla fine del mio viaggio terrestre? Il bambino felice nelle braccia della madre, il diciassettenne sturmeriano che scopriva con stupore il mondo, il marito, il professore, il padre… Quella foto mi inchioderà ad una sola delle vite che sono stato, sarà la mia “persona” offerta allo sguardo di chi vorrà ricordarmi o di chi passerà per caso e si fermerà un attimo pietoso o curioso.
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