Domenica, dopo pranzo, ho staccato il telefono e il cellulare, spento il televisore. Ho dormito con mia figlia. Quando ci siamo svegliati, mi sono affacciato ripetutamente cercando un segno: delle vele neroazzurre che mi dicessero che la mia squadra ce l'aveva fatta, contro i miei cupi presentimenti, ancora segnati da un ferale 5 maggio. Niente. Tutto taceva. Ho acceso il televisore e ho visto scattare la panchina in segno di gioia. Da non credere.
Sono tifoso dell'Inter dall'età di cinque o sei anni. Almeno così credo di ricordare. Mio padre mi regalò un completino che è infisso nella mia memoria, con i calzoncini neri. Fu il caso, dunque, a decidere, perché mio padre non amava il calcio. Da allora la passione per questa squadra ha accompagnato la mia vita con gioie (pochine fino a qualche anno fa) e delusioni (moltissime).
Il calcio - anche quello praticato con sempre più problemi fisici - è il legame simbolico con un altro tempo della mia vita ma anche con un altro modo d'essere. E' la possibilità di regredire verso l'indistinto dell'appartenenza, la dissoluzione della mia individualità quasi sempre controcorrente nel fiume tranquillizzante del gruppo.
So bene che il calcio odierno è pieno di corruzione. Che gli uomini che girano in quest'ambiente sono povere persone troppo ricche e molto corrotte. Che i presidenti delle squadre sono emblemi di quel capitalismo di cui mi auguro la fine ogni giorno. Eppure...
Eppure la pura passione del tifoso per la propria squadra, le sue lacrime e le sue grida di furore sono un potenziamento della vita a cui non potrei rinunciare.
Eppure gesti atletici come il goal di Ibrahimovic, il goal di Vucinic, il goal di Osvaldo hanno il potere di far passare in secondo piano tutto il marcio del calcio, gesti fuori dal tempo, pura poesia, come Pasolini ben sapeva.