Per la prima volta quest'anno sto affrontando, con una mia classe, il Risorgimento come rivoluzione mancata, sicuramente non di popolo. Mai sono riuscito ad affrontare la Resistenza, se non in maniera scolastica. Materia incandescente per me. In ogni caso, nell'amarezza di questo tempo, non posso non riscontrare nei momenti decisivi della nostra storia una spaccatura che diventa tratto originario, stigma indelebile. A differenza degli americani (4 luglio) o dei francesi (14 luglio) i nostri atti di fondazione non sono condivisi. In fondo, l'Italia è vissuta sempre in un clima di "guerra civile", calda o fredda. Aveva ragione Umberto Saba: mentre altre nazioni avevano alla loro origine un "parricidio" (il re è sempre un grande padre), l'Italia aveva un fratricidio.
sabato 26 aprile 2008
venerdì 25 aprile 2008
lacrime
Mi accingo, come (quasi) tutti gli anni, ad andare alla manifestazione per la commemorazione del 25 aprile. Quest'anno, però, lo spirito è molto diverso. Per la prima volta si svolge in un paese nel cui Parlamento non ci sono forze che, esplictiamente, derivano da quelle che, per lo più, animarono la Resistenza al nazisfascismo e ispirarono la Costituzione, varata giusto 60 anni fa.
Per questo mi pare doveroso rileggere le parole di Pier Paolo Pasolini, come se esse avessero atteso tanti anni per diventare definitivamente vere:
Lacrime
Ecco quei tempi ricreati dalla forza
brutale delle immagini assolate:
quella luce di tragedia vitale.
Le pareti del processo, il prato
della fucilazione: e il fantasma
lontano, in cerchio, delle periferia
di Roma biancheggiante in una nuda luce.
Gli spari; la nostra morte, la nostra
sopravvivenza: sopravvissuti vanno
i ragazzi nel cerchio dei palazzi lontani
nell’acre colore del mattino. E io,
nella platea di oggi, ho come una serpe
nei visceri, che si torce: e mille lacrime
spuntano in ogni punto del mio corpo,
dagli occhi ai polpastrelli delle dita,
dalla radice dei capelli al petto:
un pianto smisurato perché sgorga
prima d’essere capito, precedente
quasi al dolore. Non so perché‚ trafitto
da tante lacrime sogguardo
quel gruppo di ragazzi allontanarsi nell’acre luce di una Roma ignota,
la Roma appena affiorata dalla morte,
superstite con tutta la stupenda
gioia di biancheggiare nella luce:
piena del suo immediato destino
d’un dopoguerra epico, degli anni
brevi e degni d’un intera esistenza.
Li vedo allontanarsi: ed è ben chiaro
che, adolescenti, prendono la strada
della speranza, in mezzo alle macerie
assorbite da un biancore ch’è vita
quasi sessuale, sacra nelle sue miserie.
E il loro allontanarsi nella luce
mi fa ora raggricciare di pianto:
perché? Perché non c’era luce
nel loro futuro. Perché c’era questo
stanco ricadere, questa oscurità
Sono adulti, ora: hanno vissuto
quel loro sgomentante dopoguerra
di corruzione assorbita dalla luce,
e sono intorno a me, poveri uomini
a cui ogni martirio è stato inutile,
servi del tempo, in questi giorni
in cui si desta il doloroso stupore
di sapere che tutta quella luce,
per cui vivemmo, fu soltanto un sogno
ingiustificato, inoggettivo, fonte
ora di solitarie, vergognose lacrime.
brutale delle immagini assolate:
quella luce di tragedia vitale.
Le pareti del processo, il prato
della fucilazione: e il fantasma
lontano, in cerchio, delle periferia
di Roma biancheggiante in una nuda luce.
Gli spari; la nostra morte, la nostra
sopravvivenza: sopravvissuti vanno
i ragazzi nel cerchio dei palazzi lontani
nell’acre colore del mattino. E io,
nella platea di oggi, ho come una serpe
nei visceri, che si torce: e mille lacrime
spuntano in ogni punto del mio corpo,
dagli occhi ai polpastrelli delle dita,
dalla radice dei capelli al petto:
un pianto smisurato perché sgorga
prima d’essere capito, precedente
quasi al dolore. Non so perché‚ trafitto
da tante lacrime sogguardo
quel gruppo di ragazzi allontanarsi nell’acre luce di una Roma ignota,
la Roma appena affiorata dalla morte,
superstite con tutta la stupenda
gioia di biancheggiare nella luce:
piena del suo immediato destino
d’un dopoguerra epico, degli anni
brevi e degni d’un intera esistenza.
Li vedo allontanarsi: ed è ben chiaro
che, adolescenti, prendono la strada
della speranza, in mezzo alle macerie
assorbite da un biancore ch’è vita
quasi sessuale, sacra nelle sue miserie.
E il loro allontanarsi nella luce
mi fa ora raggricciare di pianto:
perché? Perché non c’era luce
nel loro futuro. Perché c’era questo
stanco ricadere, questa oscurità
Sono adulti, ora: hanno vissuto
quel loro sgomentante dopoguerra
di corruzione assorbita dalla luce,
e sono intorno a me, poveri uomini
a cui ogni martirio è stato inutile,
servi del tempo, in questi giorni
in cui si desta il doloroso stupore
di sapere che tutta quella luce,
per cui vivemmo, fu soltanto un sogno
ingiustificato, inoggettivo, fonte
ora di solitarie, vergognose lacrime.
sabato 19 aprile 2008
fede "nel segreto"
Ho letto con la consueta attenzione, dovuta a chi spesso in solitudine ha testimoniato nella nostra città la possibilità di un altro cristianesimo, non bigotto, non superstizioso, non “pio” (nella oramai duplice accezione della carità tipica dei beneventani, che ha bisogno di ostentarsi, e del culto idolatrico di Pio da Pietrelcina). Ma dissento profondamente da quanto scritto dalla Zanin.
È bene chiarire da dove dissento. Non più dall’interno della chiesa cattolica, da cui sono fuoriuscito, se cioè è umanamente possibile, nella Pasqua dello scorso anno, quando avvertii l’inconciliabilità di molte mie idee con le idee e le pratiche della chiesa cattolica (odierna). Ora mi sento un discepolo fraterno del Gesù che emerge, ad esempio, dai libri di Barbaglio. Con lui attendo il Regno di Dio e la resurrezione dei corpi. Il dissenso con la Zanin è però radicale sui “segni dei tempi” che lei intravede in chiave positiva, come rinnovamento del messaggio evangelico. Io li vedo, invece, come segni della sua estrema degenerazione. Il battesimo “politico” e mediatico di Magdi Allam è quanto di più lontano dal quell’invito al rapporto segreto con Dio cui Gesù invita continuamente («Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà», Matteo, 6:5, 6). Il signor Allam ha pregato in una immensa sinagoga mediatica, è stato visto da molti uomini. Ha già avuto la sua ricompensa. Ha tradito il messaggio evangelico. Come chi ha voluto che ciò accadesse. La Zanin , poi, esalta il dato numerico (le copie dei libri, le moltitudini che accolgono il papa…). Il “regno della quantità” è il dominio del principe di questo mondo. Non discuto la “fame” di sensatezza che gli uomini hanno oggi, evidente, come lo smarrimento. Il mio dubbio radicale riguarda la capacità della chiesa odierna di dare una risposta vera, cioè non esteriore, a questo bisogno, a porsi come argine contro il nichilismo imperante.
Il 2 febbraio scorso è morto Michele Ranchetti. Maestro nel vero senso della parola, dunque appartato, studioso e traduttore di Freud, di Wittgenstein, della storia della chiesa, poeta. Ebbene Ranchetti negli ultimi anni aveva svolto una radicale critica dell’istituzione ecclesiastica, soprattutto di quella legata al pontificato di Giovanni Paolo II, fondata su una “teologia della presenza visibile”, spettacolare e perfettamente integrata nel mondo della comunicazione globale. La “morte in diretta” di Wojtyla non è stato che il compimento di quella teologia ostensoria, quando “masse” di giovani andavano a fotografarsi col cellulare davanti al cadavere di uomo. In una riflessione del 2000 scriveva Ranchetti: «Una Chiesa come questa corrisponde […] all'abbandono, non detto ma praticato, del cristianesimo come religione in favore di una Chiesa visibile in cui si compendia la storia». La disobbedienza diventa una scelta obbligata, con la ricerca di una spiritualità interiorizzata, vissuta en to krypto. Sempre più, dunque, sento di ripetere con Ernst Bloch che la vera funzione delle chiese è quella di rendere possibile le eresie, che, forse, preservano in forma misteriosa il seme integro della “buona novella”.
(apparso su «Messaggio d'oggi»)
venerdì 18 aprile 2008
Mastella e i Filistei
Quando ancora non era
immaginabile l'esito catastrofico della crisi (era la destra che sembrava
dibattersi in una crisi mortale), la celebrità nostrana, Clemente Mastella, fu
coinvolto con il suo "cerchio magico" in un'inchiesta, tutt'ora in corso.
Sembra un secolo fa... Rilasciai delle dichiarazioni abbastanza pesanti al
«Corriere del Mezzogiorno», mi fu chiesto di ampliarle eventualmente. Scrissi
un pezzo, mai pubblicato, per motivi ignoti (era il 20 gennaio). Eccolo qui. (Mastella non è il responsabile di
quanto accaduto, ma se il governo Prodi avesse resistito fino all'estate,
Berlusconi sarebbe scomparso dalla scena politica. Di questo ne sono certo.
Quindi ha una responsabilità enorme nella storia italiana dei prossimi dieci,
quindici anni. E non ha portato nulla a casa!)
Le macerie
e il deserto
Prima,
però, a margine, da “povero cristiano” senza chiesa, mi sento interpellato da
alcune parole ascoltate sul piano non morale, non religioso ma spirituale. Ho
sentito abnorme e profondamente contrario al messaggio gesuano imputare la
“persecuzione” giudiziaria alla testimonianza dei valori cattolici. Al
cattolico Mastella – in positivo - dico: la sequela
Christi presuppone il
consegnarsi ai propri carnefici senza opporre resistenza. Questo forse andava
testimoniato davanti agli italiani, piuttosto che evocare, con suggestive
metafore sfuggite ai più (il calice, la feccia, l’imminente Pasqua), il proprio
“martirio”. In negativo, il cristianesimo ci educa al senso del limite
dell’uomo in quanto creatura, costantemente tentata dal peccato, fragile. Non
possiamo mai autoassolverci. E se suona ridicolo un magistrato che rivendica il
suo altissimo senso dello Stato, stride chiunque ribadisca continuamente urbi et orbi di essere persona “perbene”. Al
Mastella (ex) ministro della Giustizia (la Dike greca) che, giustamente, spesso
ricorda la sua laurea in filosofia, ricordo come, a fondamento della cultura
occidentale, ci sia un uomo che, accettando una sentenza ingiusta di morte,
evocava la sacralità delle Leggi, sulle quali si fonda la possibilità stessa
della vita civile (“politica”), esortando i discepoli al loro rispetto anche
nel caso di cattiva o pessima applicazione.
«Umana
actiones, non ridere, nec lugere, neque detestari, sed intelligere». Questo
insegnava Baruch Spinoza. Lo sforzo di intelligenza cui siamo tenuti non può
non partire da un riconoscimento di “correità” o di “corresponsabilità” di chi, in primis, dunque, colui che
ora scrive, non avrebbe dovuto rassegnarsi all’esistente, e, dunque, degli
intellettuali, dei giornalisti, della presunta “società civile”. Nessuno, o
pochissimi, sono innocenti. E la destra che ora, come giusto, cavalca l’onda, non
può dimenticare che non ha utilizzato metodi di governo diversi e che la
delegittimazione della magistratura è il vero chiodo fisso del suo dominus, Silvio Berlusconi.
Il Caimano di Moretti si chiudeva con
una scena tenebrosa: sostenitori del politico descritto nel film lanciavano
bombe molotov contro i giudici che l’avevano condannato. Nell’ultima autodifesa
il Caimano si appellava al consenso popolare contro il potere della
magistratura, considerando l’investitura una “assoluzione” dalle leggi tout court. Ma poteva Moretti
immaginare l’applauso proveniente dalle viscere che la Camera ha tributato al
Ministro della Giustizia, il quale indicava nella magistratura un potere
potenzialmente eversivo? Poteva immaginare che in quindici anni (dall’inizio
degli anni Novanta ad oggi) la sinistra italiana facesse proprie le ragioni del
berlusconismo, vedendo nella magistratura un pericolo per la democrazia? Dunque
la vittoria del “Caimano”, vittoria culturale molto più che politica (e dunque
destinata a lunga durata) è definitiva. Berlusconi potrà uscire di scena, ma la
sua visione di che cosa è lo Stato e di quale debba essere il rapporto fra i
suoi poteri, di cosa significhi essere eletti e rappresentare il “popolo, ha
vinto.
Ciò che
sto dicendo, evidentemente, prescinde dall’esito del procedimento giudiziario
in atto nei confronti di vertici e alti esponenti dell’UDEUR. Idem dicasi per
quanto riguarda Antonio Bassolino. Su questo deve pronunciarsi, e non può che
pronunciarsi solo la magistratura. Ogni ingerenza – questo vale anche per i
casi D’Alema-Forleo per intenderci – è, essa sì, devastante per la vita
democratica del paese. Posso solo dire, da profano, che sembra molto difficile
provare l’impianto accusatorio, il quale individua un sistema piuttosto che singole
vicende di rilevanza penale. Ma al giudizio politico siamo chiamati, perché le
intercettazioni su cui si fonda l’inchiesta – come le precedenti tutte, dalla
Unipol a Ricucci, da Vittorio Emanuele di Savoia a Saccà-Berlusconi – aprono
una squarcio angosciante sul degrado morale e politico (e linguistico!)
dell’Italia, da Nord a Sud. Ne emerge un paese in cui il potere politico,
costituito in casta funzionante per contiguità familiare o cooptazione, pervade
ogni sfera “pubblica” mosso da un horror
vacui per il quale nessun
posto non può non essere lottizzato, spartito, in assoluto spregio a qualunque
criterio di merito o capacità (come ha scritto Battista su queste pagine):
questo vale per il posticino nella fiction televisiva ma anche per quello di
ingegnere in una ente pubblico. E chi non accetta questa logica è spazzato via,
come insegna il caso di Loretta Mussi, ottima manager che aveva reso il Rummo
di Benevento un ospedale veramente “civile”, utilizzando per lo più criteri di
capacità, e che per questo è stata mandata via, dopo essere stata messa sotto
accusa in un consiglio comunale dall’intero centro-sinistra. Ne emerge un paese
in cui la perpetuazione del potere (del partito, della famiglia, del mio potere) diventa fine in sé. Mastella
appare disarmante proprio per la sua incapacità oggettiva di distinguere tra
sfera privata, familiare e “res publica” (come, ad esempio, già l’inchiesta
dell’«Espresso» di novembre sulla gestione de «Il Campanile» aveva mostrato). È
il “familismo” di cui parlava la sociologia degli anni Sessanta a proposito del
Sud. Lo stesso si può dire di Antonio Bassolino o di Ciriaco De Mita. I poteri
in Campania si sono strutturati in modo di sorreggersi reciprocamente (per
questo non appare casuale la contemporanea crisi del bassolinismo e quella del
mastellismo), utilizzando il consenso di massa per distribuire incarichi,
cooptare nell’amministrazione, creare posti di lavoro per le clientele ecc.
Tutto questo senza minimamente calcolare costi e benefici. Perché (e ragiono
machiavellicamente indossando panni non miei), se il fine fosse stato il bene
dello Stato (del Comune, della Regione), forse si sarebbe potuto giustificare
anche tutto, ma poiché il mezzo era diventato fine, abbiamo immondizia che ci
sommerge, territori inquinati, camorra dilagante, ospedali inefficienti,
appalti gonfiati e quant’altro.
Il
centro-sinistra in Campania lascerà il deserto. Bassolino avrebbe già dovuto
dimettersi da molte settimane. Su di lui – che abbiamo votato in questi anni
sempre più disillusi – ricade la vergogna dei rifiuti. È stato quasi un sovrano
“ab-solutus” (legibus?). Dovrebbe autoesiliarsi in perpetuo dalla
politica. Si ridurrà, probabilmente, a fare il ras locale di qualche Elba perduta.
L’UDEUR, questa è la mia analisi, uscirà senza grossi danni dall’inchiesta ma
distrutto politicamente. So che è metafora frusta, ma ci aspetta una lunga
traversata nel deserto. Ci aspettano anni in cui sono vietate le scorciatoie
politiciste.
Giuseppe
De Rita - nella brillante analisi svolta col suo CENSIS sull’Italia – afferma
che esistono minoranze virtuose (nel mondo delle imprese, del volontariato
sociale e culturale, nel mondo religioso), ma dispera che esse possano trovare
in “questa” politica il collettore che le faccia diventare traino dell’intero
paese. Ebbene, a maggior ragione l’analisi vale per il Sannio e la Campania. Le
minoranze “virtuose” non possono più contare sulla politica. Non ci sono
neanche più le illusioni palingenetiche dei primi anni Novanta. Abbiamo visto
che, crollata la prima Repubblica, la seconda è stata in quasi tutto peggiore.
Eliot scrisse una volta: «Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine». È
rischioso illudersi di salvare qualche pezzo della storia che abbiamo alle
spalle per ricominciare da lì. Dunque, nessuna illusione, nessuna scorciatoia.
Ciascuno nel suo privato a livello culturale, a piccoli gruppi che – senza
“centri direzionali” – cerchino di farsi rete a livello sociale, deve
ricostruire le possibilità di una politica “onesta”, dove tale aggettivo indica
non tanto, o non solo, il divieto di non fare interessi privati (che non
consistono solo nell’arricchimento) nell’esercizio della cosa pubblica, quanto,
soprattutto l’agire responsabile, la consapevolezza che “rappresentare”
significa agire per il bene collettivo, e cioè tutelare la terra, l’acqua e
l’aria, garantire che l’ospedale guarisca e non uccida con medici e manager
capaci piuttosto che amici, riprogettare le città in vista della “misura
umana”, evitare ogni collusione con le associazioni criminali. Forse fra
quindici o venti anni quel che ora chiamiamo ancora “sinistra” sarà pronta
nuovamente per cimentarsi nell’amministrazione, senza farci vergognare di
esserne parte o di averla votata.
giovedì 17 aprile 2008
macerie
Macerie. La mia storia personale incrocia ancora una volta la grande storia. Ho visto crollare muri, morire grandi uomini cui nomi pronunzio nelle mie aule. Ora assisto attonito alla scomparsa della sinistra dal Parlamento italiano. Le cause sono molteplici: una pessima legge elettorale, il gioco al massacro del Partito Democratico di Veltroni, una pessima campagna elettorale, l'inconsistenza di un cartello nato a fini elettorali, l'impresentabilità di una classe dirigente vecchia o guasta, l'incapacità di fare scelte coraggiose. Ma il dato è sotto di noi, alle spalle, terrificante. La sinistra non c'è più in parlamento. Possiamo passare i prossimi anni ad elaborare il lutto o vivere questa catastrofe come un nuovo inizio. Vorrei impegnarmi in questo, a partire dal mio luogo, dallo spazio che abito, la mia città. Ciò che verrà (che non si dovrà chiamare sinistra, probabilmente) dovrà essere un'esperienza fortemente territoriale e comunitaria.
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