sabato 3 dicembre 2022

Pensiero in sorgente VI (Leandro Pisano)

 


Al fondo del pensiero “in sorgente” di Nicola Sguera, si può intravedere il tentativo costante di lavorare a un’opera di connessione tra due elementi in tensione coesistente tra loro: la poesia e la filosofia. Nicola Sguera insegna dal 2001 storia e filosofia nei licei, ma è profondamente legato all’universo della letteratura e della poesia contemporanea, fin dai tempi in cui si laurea in lettere moderne all’Università “La Sapienza” di Roma con una tesi su Franco Fortini.

Il testo che presentiamo in questa sede, oggi, raccoglie in maniera libera pensieri, analisi, confessioni, riflessioni più o meno brevi. Si tratta di un lavoro autobiografico, introspettivo: ogni passo di questo libro racconta del suo autore, della sua personalità, del suo multiforme ingegno di uomo di cultura e di lettere, del pluriverso di interessi che ha maturato nel corso della sua esistenza. Ci narra dell’irresistibile spinta che guida l’autore a immergersi nella profondità delle questioni che affronta, per portarne alla luce gli elementi vivi, pulsanti con un’urgenza che dal piano personale si riverbera su quello comunitario e collettivo, generando una risonanza di pensiero che si moltiplica tra la dimensione individuale e quella condivisa.

Teresa Simeone ha scritto di questo testo leggendo tra le sue righe un costante, spietato attacco alla filosofia, in cui l’autore non perderebbe l’occasione, “da Talete a Platone, da Cartesio a Bacone, arrivando all’illuminismo e all’idealismo, di considerarli i responsabili del male nel mondo, di aver creato la metafisica, aver gettato le basi di un prometeismo tracotante e pericoloso e di aver consentito un progresso che confligge con la sua visione naturocentrica.”[1]

Eppure, l’analisi di Nicola a mio modo di vedere precede non per antinomie, ma seguendo un pensiero in cui convivono, in maniera talvolta irrimediabilmente conflittuale, in una tensione costante che è produttiva, elementi differenti: l’umano e il non umano, la natura e la cultura[2], la poesia e la filosofia. Elementi che sono sempre già implicati l’uno nell’altro, inseparabilmente coesistenti. Quando questa ‘coesistenza’ si configura in maniera conflittuale, sembrano emergere tra le pieghe della scrittura delle zone ‘grigie’, ‘oscure’, per parafrasare il concetto ecosistemico di “dark ecology” introdotto da Timothy Morton[3], generate da una serie di attriti epistemologici e ontologici tra opposti, che finiscono per mettere produttivamente in discussione ciascuno di essi. Questo processo trova passaggi illuminanti in queste pagine, come quando Nicola scrive:

 

Oggi ci troviamo nel momento del massimo pericolo, quando si decide della perdizione dell’umanità o della sua possibile salvezza. Le menti più illuminate del XX secolo hanno percepito questa sfida epocale e ci hanno dato gli strumenti per vincerla, rimettendo in discussione i miti fondanti della modernità (il progresso illimitato, il dominio tecnico della realtà). [...] La Natura non può essere, come troppo spesso accade, il sogno di una Wilderness (terra selvaggia) incontaminata, che rischia di diventare un’insana utopia.[4]

 

È un processo, questo, alimentato da un filosofare che procede per giustapposizione di immagini - la “luce” dei volti cari, le foto dei defunti e l’estetica cimiteriale, le visioni cinematografiche come quella di Blade Runner, a proposito della profonda critica alla tecnoscienza - per interrogarsi su questioni esistenziali irrisolte, per aprire squarci profondi nella coscienza di una ricerca che si fa cognizione del dolore, specie nelle pagine dedicate al rapporto con il padre, alla relazione irrisolta con gli aneliti religiosi, all’amara constatazione che lo studio di Platone, Cartesio, Bacone, Hegel innesca un meccanismo razionalistico che, più che restituire il senso di una visione disincantata e serena della realtà, serve a decostruire le proprie certezze alimentando quella condizione di strenua inertia, come scriveva Orazio, e cioè un’inquietudine esistenziale, la propria.

Questa irrequietezza si costruisce sul crinale di un utopico eppure invocato riequilibrio nei rapporti tra uomo e natura, tra spiritualismo e scienza, tra filosofia e politica. In questi frangenti, la scrittura di Nicola Sguera si propone come un dispositivo che catalizza punti di ascolto profondo, sui quali costruire e immaginare ulteriori approdi linguistici, di pensiero, di senso. È un riequilibrio che passa anche attraverso la messa in discussione del primato della visione sull’udito, in un rapporto sensoriale con il mondo che possa preludere a un nuovo rapporto anche con il sapere, seguendo il fil rouge della critica alla metafisica post-socratica di matrice visualistica intessuto dall’analisi heideggeriana.

 

Si deve dunque tornare al silenzio e, dunque, all’ascolto. L’aspetto più importante è che il primato della visione porta necessariamente alla deriva antropocentrica che poi è ciò che Heidegger chiama “oblio dell’essere” [...] Avviarsi sulla strada della guarigione significa, allora, anche mettere in crisi, nella pratica quotidiana, il primato della visione [...] e ripristinare il primato ebraico dell’ascolto.[5]

 

Perché la poesia possa farsi atto di affermazione o di ribellione, è inevitabile che si innervi della componente filosofica, diventando essa stessa un pensiero poetante, una poesia pensante, in cui la dialettica, il rigore logico, il procedimento teoretico e speculativo si dispongono in tensione elastica e coesistente con la suggestione, l’evocazione, la scomposizione delle parole e il loro aprirsi a una pura dimensione lirica in senso pienamente heideggeriano. Quella di Heidegger è una presenza immanente, nelle pagine di questo libro: l’incontro e il confronto con il filosofo tedesco e con la sua “kehre”, la sua svolta, è per l’autore un nodo ineludibile, a partire dalla questione dell’essere nel suo rapporto con il linguaggio.

Se Heidegger ha scritto che "la poesia è negata come sterile nostalgia, svolazzante nell'irreale, e rifiutata come fuga in un sogno sentimentale [...] la poesia non può che apparire come letteratura"[6], la mia sensazione è che Nicola abbia tenuto bene in mente, scrivendo questo libro, la messa in evidenza di una dimensione post-metafisica del linguaggio, in cui esso, da elemento dichiarativo o assertivo, diventa innesco rivelativo. La poesia è poiesis, nel senso erodoteo del termine, e cioè un atto fondato sul creare, produrre poesia portando alla luce ciò che è nascosto. Per giungere, parafrasando ancora le parole del filosofo tedesco in “Che cos’è la metafisica”, ad affermare che mentre il pensatore dice di esserlo il poeta invece dice il “sacro”[7].

 

Abbandonare l’umanismo, l’antropocentrismo, restituisce all’uomo un compito grande. Perché, e anche in questo sono debitore ad Heidegger, resto convinto della differenza “ontologica” dell’uomo, per me testimoniata non dalla ragione o dal linguaggio bensì dalla capacità, credo di poter dire senza tema di smentita unica, di trascendere le leggi del mondo, la “pesantezza” la chiamava Simone Weil, in virtù della “grazia”. È per questo che noi siamo “custodi”, “pastori”.[8]

 

Nel suo rimestare continuo e irrequieto, nel suo flusso di coscienza legato alle fasi dell’esistenza vissute nel posizionarsi come padre, docente, figlio, semplice osservatore o viandante, Nicola trova la ragion d’essere delle sue riflessioni in una serie di temi che tornano costantemente e che tendono a mettere in discussione l’assolutismo antropocentrico di una visione appiattita sulla tecnocrazia e sulle leopardiane ‘magnifiche sorti e progressive’. Così vengono in evidenza l’uno dopo l’altro, o sovrapponendosi, riflessioni sull’anti-umanesimo, l’anti-progressismo, la democrazia diretta, la scuola, la tecnocrazia, il veganesimo, ora attraverso lo scandaglio critico-filosofico ora risalendo la corrente della memoria, talora rileggendo i racconti letterari dell’antichità in chiave mitopoietica, come nel racconto di sapore esiodeo su Epimeteo e Prometeo.

In questo fluttuare tra oggetti, storie, ricordi, paesaggi, la scrittura di Nicola Sguera sembra affidare a noi lettori, in ultima istanza, l’urgenza di una questione ineludibile, definitiva: un’interrogazione meravigliata sul permanere della poesia nel nostro mondo, nonostante tutto. E tutto questo può avvenire, ci pare di avvertire nelle parole dell’autore, ricollegandoci al presente attraverso un viaggio a ritroso verso il passato non perché gli antichi semplicemente sono un valore o perché ci offrono un insegnamento, ma perché è nella tradizione che gli antichi hanno costituito nei secoli che risiedono le ragioni e le forze che, come ha scritto Gian Mario Villalta in un recente illuminante saggio[9] “hanno opposto il perdurare all’effimero, ciò che rinnova la creazione a ciò che la oblitera in una vuota rincorsa verso l’etichettatura dell’istante. Il nostro tempo ha insidiato e pervertito il senso dell’effimero e di ciò che dura”[10].

Proprio per questo occorre cercare “quel sostare inquieto che interroga il sentire e ridà voce al corpo, al percepire la nostra più vera collocazione sul lembo di terra che calchiamo, al pensare dentro le corrispondenze che ci legano a tutte le forme dell’esistere”[11].


Introduzione a “Pensiero in sorgente”, in occasione della presentazione del testo tenutasi a San Martino Valle Caudina (AV) il 02/11/2022.

Una sintesi dell'incontro.

 


 

 

 

 

 

 

 



[2] Bruno Latour, "Non siamo mai stati moderni. Saggio d'antropologia simmetrica", ed. Elèuthera, 2009.

[3] Nicola Sguera, “Il Pensiero Insorgente”, p. 72.

[4] Nicola Sguera, op. cit., pagg. 135-136.

[6] Martin Heidegger, “Che cos’è la metafisica? e altri scritti”, ed. goWare, 2018. A cura di F. Sollazzo.

[7] Nicola Sguera, op. cit, pag. 30.

[9] Ivi.

[10] Gian Mario Villalta, "La poesia, ancora?", ed. Mimesis, 2021.

[11] Timothy Morton, “Dark Ecology”, Columbia University Press, 2016.


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