mercoledì 17 gennaio 2018

parole

Cara Gaia,
trovo divertente che voi appuntiate sul vostro quadernetto di memorabilia liceali alcune parole che mi capita di pronunziare, per voi buffe, inusitate. Sarà un piacere riascoltarle nel pranzo di fine ciclo che rimane uno dei momenti più suggestivi, a mio avviso, della vita scolastica, quando quasi tutto è compiuto (se non l’Esame di Stato) e ci si vede, reciprocamente, già con occhi diversi. È un giorno lieto e triste nello stesso tempo per me dove si scoprono tanti piccoli segreti (spesso di Pulcinella, a dirla tutta), e si scherza insieme su situazione illo tempore vissute con pathos o severità.
Mi chiedevi qual è il segreto per imparare parole difficili. Ti ho detto, prima di tutto, che alla tua età, facevo tanti errori di ortografia. E che ho smesso di farli... leggendo. La chiave di volta della mia vita è stata l’immersione, in certi momenti «matta e disperatissima», nelle pagine di libri trovati a casa o comprati. Ed è quello che, ogni giorno, spesso a costo di essere pedante, ripeto a mia figlia Caterina, riempiendo la casa di libri adatti alla sua età (in ultimo una bella collana di “Classicini”). 
«Tolle, lege» potrei ripetere, sapendolo unico segreto per nutrire la mente e donare alla tua lingua quella complessità di lessico che può corrispondere ad una complessità di pensiero. Spero capiate che in me non c’è mai ostentazione: odio l’erudizione fine a se stessa o l’eleganza della forma priva di nerbo. Istintivamente cerco di incuriosirvi, di spingervi ad entrare in quel maestoso, antichissimo palazzo che è la nostra meravigliosa lingua, avendo per altro voi la fortuna di studiare il latino e il greco, che ne sono scaturigine e fondamento.
Però, ed è questo il motivo per cui ti scrivo una breve lettera in pubblico, a te che sei così curiosa intellettualmente, ho dimenticato di dirti, mentre spiegavamo l’opera titanica di Nietzsche, che il viatico probabilmente principale a questo amor linguae è stata la poesia. Vedi, cara Gaia, la parola poetica, spesso isolata o all’interno di un “versicolo” (e non penso solo ad Ungaretti), soprattutto nella poesia novecentesca, ti costringe a scavare nella parola. In questo momento mi sovviene l’esperienza di un auctor per me sommo come Paul Celan, che proprio alla parola ha dedicato alcune delle sue poesie più memorabili. 
La parola poetica, che ha il respiro della pagina bianca, che riecheggia in noi, che reclama attenzione, dedizione, che non rimanda ad una “storia”, ma accade, è essa stessa e-vento (e che significa, ti chiederei se stessimo in classe, etimologicamente evento?), ebbene quella parola mi ha educato alla lingua. E io abito la lingua italiana, sapendo che sono solo il tramite attraverso cui essa esiste e resiste, esistendo prima di me e continuando, mi auguro per secoli, pur mutando come organismo vivente, a rendere possibili opere mirabili dell’ingegno. Io abito la lingua di Dante e di Tasso, di Foscolo e Leopardi, di Montale e Caproni. In ogni parola assaporo una storia millenaria, che rimanda alla Grecia e a Roma.
Se sarò riuscito a trasmettervi un po’ di questo rispetto filiale per la lingua che abitiamo il nostro incontro non sarà stato inutile. A prescindere dalla storia e dalla filosofia...

A domani!

P.S.

Commiato

Gentile
Ettore Serra
poesia
è il mondo l’umanità
la propria vita
fioriti dalla parola
la limpida meraviglia
di un delirante fermento

Quando trovo
in questo mio silenzio
una parola
scavata è nella mia vita
come un abisso.

Giuseppe Ungaretti

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